23 MAG - Il contributo di Ivan Cavicchi, docente di sociologia dell’organizzazione sanitaria e di filosofia della medicina presso la Facoltà di medicina dell’Università Tor Vergata di Roma. Laurea ad honorem in medicina
“Solitudine”del medico certo, i marxisti l’avrebbero chiamata “alienazione”, gli esistenzialisti “spaesamento”, personalmente sono anni che, nei miei libri, mi ostino a chiamarla “questione medica”. Una questione non corporativa ma politica che la politica di destra e di sinistra non ha mai capito o che ha preferito ignorare a corto di idee, e che comprende: il contenzioso legale, la medicina difensivistica, la perdita di autonomia clinica, la delegittimazione sociale, l’assoggettamento ad un pensiero unico bilanciofrenico, una formazione universitaria smaccatamente anacronistica, il conflitto interprofessionale con gli infermieri, ma anche l’intra moenia, cioè lo scambio tra bassi salari e libera professione. E ancora, un sindacalismo medico debole, disarmato di fronte alle complessità del cambiamento, società medico-scientifiche, che dire frammentate è dire poco, e che non hanno ancora capito che in ballo c’è il futuro non solo della professione ma anche il “genere” di medicina, un’ordinistica che, oltre rutilanti convegni, non riesce a mettere insieme una piattaforma degna dei tempi per fare della professione medica uno “snodo cruciale” per una evoluzione del sistema.
L’incompatibilità tendenziale tra diritti e risorse che si è manifestata già a partire dagli anni ‘80 ormai è diventata apertamente un conflitto rispetto al quale il dottor Harari, come tutti i suoi colleghi, si trova esattamente nel mezzo, a prenderle sia dalla società civile che dai suoi datori di lavoro. Il dottor Harari, e centinaia di migliaia di colleghi, in questi anni sono stati le controparti delle politiche di compatibilità, i destinatari delle misure di razionalizzazione, gli oggetti delle logiche dell’accreditamento, i fruitori ignari di un proceduralismo il cui ideale era quello di ridurre i medici a “lavatrici”. Cioè con comportamenti professionali programmabili attraverso evidenze statistiche, regole, criteri, standard, indicatori ai quali bisognava cecamente obbedire. Forse il dottor Harari o forse no, è anche quel medico che in altre circostanze ho definito “osservante”, nel senso che i suoi incentivi dipendono dal rispetto rigoroso degli obiettivi aziendali, che come si sa, nulla hanno a che fare con qualcosa che sia diverso da un bilancio.
“Cosa succederà alla sanità di domani?” si chiede il dottor Harari. Io rispondo “niente di più e niente di diverso da quello che sta già succedendo”. Il titolo di un mio libro di qualche anno fa denunciava il problema della “privatizzazione silenziosa della sanità”, oggi è sotto gli occhi di tutti che la razionalizzazione della spesa è diventata razionamento, le Regioni ormai sono in balia dei patti di rientro, che loro stesse hanno sottoscritto e dopo essersi ingozzate di poteri con la riforma del Titolo quinto della Costituzione sbilanciando un delicato modello di governo, oggi tradiscono la loro incapacità riformatrice, l’unica cosa che sanno fare è tagliare via qualcosa da qualcosa, quelli che una volta erano i difensori della sanità pubblica oggi sono alla ricerca del “secondo pilastro”, cioè dell’assistenza integrativa, gli stessi che una volta gridavano contro i ticket e che oggi ci spiegano che “l’out of pocket” , cioè la spesa privata che deriva dalla non copertura dei diritti dovuti, può essere canalizzata verso nuove forme di mutualismo. Insomma ...benvenuti nel “post-welfarismo”.
Una cosa devo tuttavia confutare al dott. Harari del quale condivido per intero la denuncia. Non è vero che che non si può “continuare a garantire tutto a tutti”, tipica espressione di coloro che in questi anni, a partire dal libro bianco del ministro Sacconi, sognano paradossalmente un’America che la stessa America vuole superare. E’ relativamente vero se continuiamo a “conservare” un sistema sostanzialmente invariante preoccupati solo di farlo costare il meno possibile. Un sistema che nei modelli non cambia mai, (ho trovato acuta l’osservazione sui modelli Toyota applicati all’ospedale), che non investe nel rinnovamento delle professioni e che usa l’Ecm come il “manuale delle giovani marmotte”, che fraintende l’azienda come qualcosa di avulso dalla salute pubblica, che continua ad offrire anche nei tagli vecchie modalità di servizio, vecchie pratiche assistenziali, che pensa all’offerta come ad una variabile indipendente dalla domanda, che non produce salute come risorsa naturale per la crescita della ricchezza nazionale ecc. Gestire a risparmio lo status quo oggi non è più conveniente per nessuno per tante ragioni professionali, finanziarie, etiche, sociali ma per cambiare lo status quo ci vuole un pensiero riformatore. E questo non c’è o almeno i fautori di un neoriformismo come me sono molto pochi, cioè drammaticamente minoritari, e vivono la stessa solitudine del dottor Harari. “Il problema è strutturale?”, bene ...allora le parole chiave sono “riforma”, “ripensamento”, “ricontestualizzazione”. Oggi la sfida del postwelfarismo è trasformare un sistema di limiti (finanziari, organizzativi, professionali, deontologici, ecc.) in possibilità, ad ogni livello, questo però vuol dire un altro “genere” di medico, di ospedale, di medicina, di organizzazione sanitaria, di spesa, di malato ecc. Ma soprattutto un altro genere di politica sanitaria. Cioè ” cambiamento".
23 maggio 2011
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