Le ragioni di chi va e di chi torna. Intervista a due giovani ricercatrici
10 NOV - È il febbraio del 2009 e al Fairmont Hotel di Vancouver un convegno scientifico fa il punto sul ruolo svolto da una popolazione di linfociti recentemente scoperti (le cellule T helper CD4+ esprimenti interleuchina-17, in breve Th17).
Manuela Raffatellu ed Elisabetta Volpe, sessantacinque anni in due, è lì che si incontrano la prima volta. Ricercatrici entrambe, l’una si occupa della risposta immunitaria alla salmonella, l’altra di come i Th17 si differenzino. Sarda l’una, romana l’altra.
Cervello all’estero la prima, cervello rientrato la seconda.
Entrambe uno specchio delle nuove leve di ricercatori italiani che si aprono al confronto col panorama internazionale.
Manuela Raffatellu, laurea in medicina con 110 e lode a Sassari, dopo un anno a contratto nell’Università italiana (“ma i soldi sono arrivati dopo un anno, quando io ero già in America”), fa il grande salto dall’altra parte dell’Atlantico, alla Texas A&M University di College Station.
“Sono partita per fare un’esperienza, un post-dottorato di due anni”, racconta. “Con l’idea di arricchirmi e poi di ritornare”. È rimasta tre anni e mezzo in Texas e in Italia, dopo quasi nove anni, non è ancora tornata. Dopo College Station, passa alla University of California di Davis seguendo il suo professore, Andreas Bäumler, che non aveva “mai conosciuto medici che fossero scarsi a fare ricerca” e anche per questo l’aveva scelta.
Per passare, nel 2008, come Assistant Professor alla University of California di Irvine (UCI). A 32 anni.
Sono passati 6 anni dalla partenza, un tempo sufficiente per riuscire a pubblicare buoni lavori. Uno, in particolare, pubblicato su Nature Medicine, le apre le porte dell’UCI. Nello studio “indagavo la correlazione tra Hiv e salmonella, in particolare si cercava di capire per quale motivo la salmonella nei pazienti con un sistema immunitario sano è causa di una gastroenterite mentre sui pazienti Hiv positivi, che hanno delle difese immunitarie alterate a livello della mucosa intestinale, dà origine a una disseminazione sistemica con setticemia”, spiega.
“È un fenomeno che si osserva in Africa, ma è quanto avveniva anche in Italia e nei Paesi occidentali prima che fosse introdotto il trattamento con antiretrovirali”. Lo studio mostra il ruolo che i Th17 esercitano nel controllare l’infezione di salmonella.
Prima dell’accesso a Irvine, però, per Manuela c’è la lotteria dell’invio dei curriculum e delle lettere di referenze. “Sono stata per un anno un po’ spaesata: fai domanda in tutta America. Vivi in attesa di sapere dove avrai casa l’anno seguente”, confessa.
Spostarsi, però, non è un problema: “È l’essenza della ricerca, è essenziale confrontarsi con idee e persone diverse”, dice, rivelando di non capire chi svolge la sua attività di ricerca passando tutta la vita nello stesso laboratorio.
Alla fine arrivano tre offerte: l’Albany Medical College, nello stato di New York, l’University of Vermont di Burlington e l’UCI. “E quella è la situazione migliore, perché puoi contrattare”. La scelta cade sull’UCI, che oltre a sobbarcarsi le spese di trasloco per una cifra fino a 10 mila dollari, le mette a disposizione 660 mila dollari come startup: soldi da spendere per allestire il laboratorio, assumere ricercatori, avviare la ricerca. “Mi sono trovata a fare un lavoro che non avevo mai fatto: guardare i cataloghi, parlare con i venditori, ordinare centrifughe. Decidere. Però è bello, tutto quello che è lì è fatto da me”, dice.
Nel frattempo arrivano anche i grant dell’NIH, “uno, l’RO1 classico mette a disposizione 250 mila dollari per 5 anni e l’altro, un R21 finanziato grazie allo Stimulus Package del presidente Obama, di 250 mila dollari in 2 anni”. Tanti soldi, ma da spendere con criterio: “Il mio interesse è rinnovare questi finanziamenti, il che vuol dire che io ho tutto l’interesse ad assumere gente brava. Io uno incompetente in laboratorio non me lo posso permettere”, conclude.
Su questa sponda dell’Atlantico nel frattempo Elisabetta Volpe, con una laurea in biologia e un dottorato in immunologia all’Università Tor Vergata di Roma, gioca la carta della ricerca all’estero. “Volevo andare fuori, fare nuove esperienze”. Nel 2006 sbarca all’Istitut Curie a Parigi per un post-dottorato. “Un bell’ambiente dove si fa buona ricerca”, racconta. E che le ha consentito di “pubblicare bene”: un lavoro su Nature Immunology e uno su Blood che cercavano di fare luce su come, nell’uomo, le cellule Th17 si differenziano a partire dai linfociti T naive.
Sono anni in cui l’attenzione su queste cellule è crescente: “sono state scoperte nel 2000 - illustra - e stava emergendo il loro coinvolgimento nelle malattie autoimmuni”. In particolare nella sclerosi multipla. È stato infatti osservato anche nell’uomo “un maggiore concentrazione dei livelli di interleuchina 17 [a cui le cellule Th17 devono il nome] nel fluido cerebrospinale dei pazienti con sclerosi multipla rispetto a quelli affetti da altre patologie o sane”.
Alla fine dei tre anni a Parigi le opzioni sono quella di tentare i concorsi pubblici in Francia o fare di nuovo le valigie e tentare un altro post-dottorato altrove. Il concorso non sarebbe inaccessibile: “per accedervi è necessario essere segnalati dal professore - spiega - e la valutazione avviene sulla base del curriculum”. Ha buone carte, ma scarta l’ipotesi, così come quella della ricerca in un’altra sede estera.
“Ho scelto la strada nessuno mi consigliava”, racconta, “mi dicevano che ero matta”. E il rientro in Italia è, come previsto, difficile.
“Nessun laboratorio offriva più di una borsa di studio di un anno”, spiega. Tra le tante offerte, opta allora per la Fondazione Santa Lucia a Roma.
Fino a che nel marzo scorso non risulta tra i vincitori del bando per i giovani ricercatori: quasi 500 mila euro stanziati per il progetto di ricerca che mira a validare un nuovo target molecolare per la sclerosi multipla.
E al grant ha fatto seguito il contratto da parte della fondazione. A tempo indeterminato.
A Cernobbio, Manuela ed Elisabetta si sono incontrati una seconda volta. L’idea, ora, è di collaborare a un nuovo progetto insieme sulle cellule Th17.
“Io lavoro con la risposta immunitaria «normale», che serve per combattere le infezioni batteriche”, spiega Raffatellu. “Elisabetta lavora con la risposta immunitaria «patologica», quella che, ad esempio, attacca la mielina nei malati di sclerosi multipla. Pensavamo quindi di unire le nostre diverse competenze e di avviare un progetto comune sul ruolo delle cellule dendritiche umane (che sono importanti per l'attivazione delle Th17) e studiare il meccanismo di attivazione delle Th17 sia in risposta a infezioni batteriche sia durante la sclerosi multipla”.
Antonino Michienzi
10 novembre 2010
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