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“La dialisi peritoneale va incontro alle esigenze odierne di deospedalizzazione e favorisce una qualità di vita nettamente maggiore per il paziente”. Intervista al prof. Claudio Ronco

Parla il nefrologo dell’Università di Padova che nel 2014 la Johns Hopkins University lo ha nominato quale ricercatore numero uno al mondo nel settore delle malattie renali. “Oggi abbiamo la possibilità di attuare un tele monitoraggio di questi pazienti che riduce le necessità di accesso all'ospedale e li rende ancora più seguiti e rassicurati”.

di Endrius Salvalaggio
19 NOV - Laurea in Medicina e Chirurgia a Padova nel 1976 con 110/110 e Lode, specializzazione in Nefrologia Medica a Padova nel 1979 con 70/70, migliaia di pubblicazioni, direzione del laboratorio di ricerca renale al Beth Israel Medical Center di New York; cattedre alla University of Virginia negli Stati Uniti e all’Università Fudan di Shanghai, in Cina e nel 2014 la Johns Hopkins University lo ha nominato quale ricercatore numero uno al mondo nel settore delle malattie renali. Da poche settimane un riconoscimento per "chiara fama" dall'Università di Padova. Un luminare in nefrologia con un curriculum spaziale. Stiamo parlando del Prof. Claudio Ronco, un veneto doc.
 
Lei dirige il centro più grande d'Europa per la dialisi domiciliare. Di cosa si tratta?
Vicenza iniziò il percorso della dialisi domiciliare ancora nel 1973 quando inviò a domicilio il primo paziente in emodialisi d'Italia. La dialisi extracorporea fu presto sostituita come tecnica domiciliare dalla dialisi peritoneale. Da sempre il nostro centro ha privilegiato la tecnica di dialisi peritoneale eseguibile a domicilio con un coinvolgimento diretto del paziente e una grande possibilità di autonomia e autogestione della terapia da parte dello stesso. La dialisi peritoneale va incontro alle esigenze odierne di deospedalizzazione e di riabilitazione del paziente favorendo una qualità di vita nettamente maggiore rispetto ad altre tecniche senza dimenticare il minor costo e un approccio più fisiologico alla sostituzione renale. In Europa la tecnica viene usata con una prevalenza di circa il 15% mentre in Italia siamo attorno al 10/12%. In Veneto questa percentuale sale a circa il 20% mentre a Vicenza abbiamo un impiego della dialisi peritoneale al 40%.  Oggi abbiamo la possibilità di attuare un tele monitoraggio di questi pazienti che riduce le necessità di accesso all'ospedale e li rende ancora più seguiti e rassicurati.
 
E' stato l’ideatore di un macchinario, unico al mondo nel suo genere, per la dialisi neonatale. Come è nata l’idea
L'apparecchiatura si chiama Carpediem, il cui acronimo fa riferimento alla sigla Cardio Renal Pediatric Dialysis Emergency machine. Questo è un progetto parte da lontano: già nel 1982 a Vicenza eseguimmo il primo trattamento al mondo di emofiltrazione nel neonato. Grazie all'esperienza maturata nell'adulto avevamo disegnato dei filtri miniaturizzati per il bambino molto piccolo con problemi renali. Nel 2008 iniziammo il progetto di creazione di una apparecchiatura dedicata alla insufficienza renale acuta neonato che sino a quel momento rappresentava una patologia orfana per carenza di tecnologia adeguata. Nel 2013 siamo giunti alla realizzazione della macchina grazie ad un progetto charity che ha raccolto circa 400.000 euro e ci ha consentito di iniziare la fase clinica. Oggi abbiamo trattato più di 50 neonati in Europa riducendo la mortalità in modo significativo. Carpediem sta varcando i confini degli Stati Uniti dove la Food and Drug Administration sta per approvarne l'uso clinico. E' una soddisfazione enorme e una realizzazione di grande significato scientifico e morale.
 
Com'è secondo Lei la sanità di adesso rispetto a quella di una volta?
Da parte dei non più giovani c'è sempre la tendenza di dire "...ai miei tempi...". Io sono figlio di un medico condotto di montagna e il rapporto con il medico del passato oggi è irripetibile, tant’è che molti hanno nostalgia di quei tempi. Io credo che abbiamo un sistema sanitario eccellente rispetto a tante altre realtà internazionali. La medicina ha fatto passi da gigante e i nostri medici sono preparati e pronti ad affrontare le sfide dell'innovazione e del futuro. Spesso purtroppo abbiamo una scarsa integrazione con la ricerca e con la didattica e talora i nostri giovani brillanti sono obbligati o almeno tentati di lasciare il paese. Dobbiamo offrire opportunità ai nostri ragazzi migliori di rimanere in Italia e migliorare dall'interno il nostro sistema. Noi tutti comunque dobbiamo fare uno sforzo perché le tecnologie non sovrastino quello che è il rapporto umano fra medico e paziente il cui significato va oltre quello di una diagnosi o di una terapia.
 
Se potesse, cosa cambierebbe in ambito sanitario?
Introdurrei il sistema degli ospedali di insegnamento come si fa in tutto il mondo. I giovani devono fare per qualche anno esperienza in ospedale e rimanere addirittura residenti nelle strutture di cura. Poi dobbiamo allargare l'accesso alle scuole di specializzazione altrimenti sforniamo medici, ma poi non li possiamo utilizzare al meglio. Infine vorrei un po’ meno burocrazia e più meritocrazia. Il 68 è ormai lontano e certi meccanismi vetero sindacali devono lasciare spazio a primalità e sostegno al merito e all'impegno.
 
Recentemente ha avuto dall'Università di Padova un riconoscimento per "chiara fama". Di cosa si tratta?
Si tratta della realizzazione di un sogno. Avevo dovuto lasciare tanti anni fa l'università per poter vivere e mantenere la mia famiglia. Non ho mai interrotto la ricerca e la passione per lo studio Questo mi ha portato nel 1999 a ricevere una cattedra all'università di New York dove ho esercitato per due anni circa. Poi sono rientrato in Italia e accanto all'attività clinica del nostro centro ho sempre mantenuto alta la tensione verso la ricerca e la didattica. Ho costruito dal nulla un Istituto di ricerca multidisciplinare che oggi viene considerato ai primi posti per la produzione scientifica. Rendere questa struttura universitaria vuol dire istituzionalizzare ciò che abbiamo fatto per anni e mettere un cappello accademico ad una struttura che certamente lo merita. In tutto questo l'Università di Padova ha voluto "chiamarmi" al ruolo di professore ordinario clinicizzando di fatto il nostro reparto di Vicenza in una bellissima collaborazione con il servizio sanitario regionale. Per me, al di là del titolo che mi onora e mi rende orgoglioso, questo significa mettere a disposizione dei ragazzi in nostro sapere e la nostra esperienza, sperando di dare loro un motivo in più per rimanere in Italia.
 
Endrius Salvalaggio

19 novembre 2018
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