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Perché il consenso informato non deve diventare un contratto

di Roberto de Miro d'Ajeta

La nuova legge sul biotestamento comprende anche un'ampia revisione del consenso informato di cui si è parlato poco rispetto alla tematica delle Dat. E invece in essa si ravvisano molti aspetti critici che rischiano di trasformare la comunicazione e la relazione di cura tra operatore e paziente in un vero e proprio patto o contratto. Con ripercussioni negative per entrambi

09 FEB - La legge 219 del 22 dicembre 2017 recentemente approvata dal Senato ed intitolata “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento” è stata oggetto di ampio ed acceso dibattito soprattutto sotto il profilo delle cosiddette DAT, sulle quali si sono registrate le opinioni più divergenti.
 
Poco o nulla si è discusso, invece, a parte alcuni interventi meritevolmente pubblicati da QS, sulla prima parte del testo di legge (in particolare gli artt. 1 e 3) dedicata al "consenso informato", di cui è stato decisamente sottovalutato l'impatto che, a prescindere dalle situazioni estreme di cura ci cui si occupano le DAT, inciderà profondamente sul rapporto tra operatori sanitari, da una parte, e malati e loro familiari, dall'altra, in tutte le situazioni di cura.

Chi scrive è da tempo in prima linea per denunciare le conseguenze devastanti della impostazione contrattualistica che contrappone i malati a sanitari asseritamente preoccupati solo di limitare eventuali responsabilità. Al contrario, anche per l'esperienza di consulente di alcune ONLUS attive nella assistenza e rappresentanza di persone malate o disabili, mi sono convinto della necessità di ricostruire una cultura dell'“alleanza terapeutica” tra operatori sanitari, da una parte, e pazienti e loro familiari, dall'altra.
 
La cultura dell'alleanza terapeutica affronta le problematiche in un'ottica e con obiettivi ben diversi dalla più diffusa considerazione oppositiva di tale relazione, nella quale ci si concentra sulla responsabilità medica e si considera l'operatore sanitario come controparte del paziente.
 
Questa concezione negativa, favorita anche da alcune associazioni di tendenza e da miei colleghi, ha prodotto come gravi conseguenze:
- l'aumento dei contenziosi;
- lo sviluppo della medicina difensiva attiva ed omissiva con conseguenti maggiori costi e inefficienze a carico del SSN;
- minore successo di cura, con ulteriori maggiori costi per il SSN e perdite per la collettività;
- peggioramento dell'opinione pubblica sui servizi sanitari.

Gli articoli di legge in esame, nella parte riguardante il consenso informato, purtroppo, evidentemente derivano dalla concezione oppositiva, o comunque si prestano a favorirla, anche nella terminologia utilizzata: si descrivono consensi e rifiuti, si tratta più di abbandono che di accudimento, si obbligano gli operatori a rispettare volontà anche al limite (dichiaratamente) della deontologia e della liceità, anziché tendere a tutelare le esigenze di cura.

Anche nella parte di apparente tutela del paziente, viene descritto come dovere ciò che invece è un diritto. Ad esempio, all'art. 3 comma 1, si legge che la persona minore di età od incapace “deve” ricevere informazioni sulle scelte relative alla propria salute in modo consono alle sue capacità per essere messa nelle condizioni di esprimere la sua volontà.
 
Per dare senso alla volontà del legislatore, dobbiamo presumere che il suo intento fosse di garantire un diritto all'informazione e non di prescrivere la somministrazione obbligatoria dell'informazione come argine alla somministrazione di cure non desiderate e, pertanto, la norma anziché descrivere un dovere del paziente, avrebbe dovuto prevedere che la persona abbia diritto a che le informazioni sulla sua condizione di salute e sulle eventuali opzioni di trattamento disponibili siano fornite in modo consono alle sue capacità di comprensione per essere messa nelle condizioni di esprimere la propria volontà.

Nel comma 4 dello stesso articolo 3, stranamente, non è previsto che il consenso informato, in caso di persona inabilitata, sia prestato con l'assistenza del curatore. Questa previsione, opportunamente, era invece contenuta nel testo originario proposto alla Camera. La precisazione non è di poco conto per il giurista: il consenso ad attività invasive sulla persona, che ne possono determinare la guarigione o la morte, viene derubricato e trattato come atto di ordinaria amministrazione. L'inabilitato non potrebbe comprare la sua ultima dimora, senza l'assistenza del curatore, ma potrebbe anche da solo scegliere di anticipare la propria dipartita.
 
La disposizione è incongrua con la tutela della persona, prevista dall'ordinamento giuridico, ed infatti chi ha cancellato la menzione del curatore nel comma 4 si è distratto e si è dimenticato che, nel successivo comma 5 è rimasto il concetto della necessaria assistenza del “rappresentante legale della persona interdetta o inabilitata”, enunciato con espressioni improprie, poiché la persona interdetta è rappresentata, mentre l'inabilitata è assistita.
 
Sarebbe fondamentale, per la tutela dell'inabilitato, che fosse ripristinata la menzione della necessaria assistenza del curatore per la persona inabilitata, non solo per coordinamento col successivo comma 5 e per coerenza dell'ordinamento, ma anche dal punto di vista dell'equità costituzionale, poiché nel testo attuale si fornisce all'inabilitato (che ha minore capacità di autotutela) una assistenza minore rispetto a quella prevista per l'amministrato in sostegno del quale, invece, non si presume diminuito né il discernimento né la capacità di autodeterminazione.

Altre modifiche al testo di legge che avevo avuto modo di sottoporre in udienza presso la Commissione Sanità del Senato, avrebbero impostato la relazione medico/paziente in termini di alleanza terapeutica anziché come controparti di una relazione problematica, con lo scopo di favorire la comunicazione tra operatori e utenti dei servizi alla salute, per la personalizzazione delle cure e il migliore successo terapeutico; garantire l'accompagnamento del malato in tutte le fasi della malattia superando la concezione di minore valore della vita nella sua fase terminale o nella condizione di handicap denunciata da Papa Francesco come “cultura dello scarto”.

L'occasione era importante, poiché per la prima volta il legislatore è intervenuto a regolare espressamente la materia del consenso informato, finora delineata da incerta giurisprudenza e dagli sforzi normativi dei codici deontologici.

Di grande rilievo è l'affermazione, contenuta nella legge in esame, che “Il tempo della comunicazione tra medico e paziente costituisce tempo di cura” (Art. 1 comma 8). Questa norma dovrebbe essere scolpita sulle pareti degli ambulatori e regolare daccapo l'organizzazione dei servizi ambulatoriali ed ospedalieri ed i contratti di lavoro tra medici e strutture.

Purtroppo, il resto della legge non intende affatto valorizzare la relazione di cura, se si guarda al comma 1 dello stesso articolo, che contiene il richiamo all'art. 13 della Costituzione. Orbene, l'art. 13 fu dettato per tutelare il cittadino di fronte ai poteri di costrizione della persona, principalmente da parte della Polizia e dell'Autorità Giudiziaria. Il richiamo di tale norma nella materia del trattamento sanitario, sebbene operato da molta giurisprudenza e addirittura della Corte costituzionale, è dannoso e lesivo del rapporto di cura e corrisponde esattamente all'impostazione ideologica oppositiva, che descrive il medico come un un persecutore del cittadino, da cui il paziente debba essere protetto.

Al comma 2 dello stesso art. 1 della legge di cui trattiamo, si afferma che la relazione tra medico e paziente “si basa” sul consenso informato. Il consenso informato in questo modo diventa un vero e proprio patto o contratto che deve descrivere analiticamente e delimita il rapporto di cura, contenendo un elenco di obbligazioni al cui adempimento il terapeuta si dovrebbe attenere, come il progetto di ristrutturazione di un appartamento vincola l'appaltatore.
 
Ne risulta umiliata la professionalità del sanitario e, soprattutto, viene circoscritto e limitato l'ambito di possibilità ed efficacia della cura stessa. Invece che sul consenso informato come contratto, il rapporto medico-paziente andrebbe basato sull'alleanza tra i medesimi, contro la sofferenza, valorizzando, anziché limitando, la relazione tra il malato e chi lo cura, come fondata da una parte sul riconoscimento del bisogno di cura e, dall'altra, sull'affidamento alla responsabilità dell'operatore sanitario.

Basando la relazione sull'alleanza terapeutica anziché sul consenso informato, non cambierebbero solo i vocaboli. Il medico, anziché limitarsi ad ottemperare agli obblighi discendenti dal consenso informato, come è ridotto dalla nuova legge, conserverebbe autonomia decisionale e competenze professionali non scevre dalla responsabilità, nel proprio discernimento guidato da “scienza e coscienza”, di tenere conto della volontà del paziente con riguardo alla concreta capacità di autodeterminazione e livello di consapevolezza dello stesso. Il consenso informato, inserito in questa relazione e non più esaltato come unico e fondamentale elemento di regolazione, cesserebbe di essere considerato anche dal paziente come una odiosa formalità tendente allo scarico di eventuali responsabilità e verrebbe valorizzato.

In realtà, il consenso informato come atto libero di autodeterminazione del paziente e regolazione negoziale della relazione di cura è una chimera: a meno che il paziente non sia un medico con specifica competenza, privo di legami ed indifferente al caso (quindi, in ipotesi inverosimile) il sanitario ed il paziente non potrebbero avere, se non per finzione, una volontà ugualmente libera: i termini “consenso” ed “informato” non possono, pertanto, avere il significato di “libera scelta” e “piena consapevolezza”.

Il documento che raccoglie il “consenso informato” assume senso se documenta una relazione nella quale la persona dell’operatore sanitario ha incontrato la persona del malato e stabilito con essa un rapporto nel quale il malato s’affida alla cura, nella ragionevole consapevolezza, secondo le sue soggettive possibilità di comprensione, dello scopo e delle caratteristiche del percorso terapeutico, dei relativi rischi e della non automaticità dei risultati attesi.
 
Il medico che abbia saputo raccogliere un simile consenso non è affatto liberato da responsabilità per il suo operato, ma ha stabilito una relazione nella quale svolge il suo compito in modo lecito ed umano. In mancanza di tale consenso, naturalmente ove esso sia possibile e verosimile, si avrebbe invece una relazione di abusiva intrusione, da parte di un soggetto in posizione di supremazia, nell’intimità esistenziale di un altro soggetto in posizione di bisogno e di inferiorità, il che sarebbe un atto contrario a qualsiasi civiltà. ll diritto di non essere informato, universalmente riconosciuto, dimostra il nostro assunto, ed infatti il comma 3 dell'art. 1 che stiamo discutendo prevede che il paziente “può rifiutare in tutto o in parte di ricevere le informazioni”.
 
Pertanto, la concezione contrattuale del consenso oltreché illogica, è espressamente contraddetta dalla legge. Secondo la concezione “dispositiva” e l’ideologia dell'autodeterminazione, il medico non potrebbe curare la patologia senza il consenso informato del “proprietario” del corpo; invece, la legge non arriva ad impedire l'attività di cura, ma resta un'incongruenza con la mancanza di informazione e cosenso informato da parte del malato che rifiutasse l'informazione, ma non la terapia.

Le norme nello stesso articolo che favoriscono la indicazione di un fiduciario per prestare il consenso e le disposizioni per conto del malato, non sono vincolanti. L'idea che il corpo, la salute e la vita siano disponibili, però, è pericolosissima per il cittadino (oltre ad essere contraria al principio di indisponibilità della persona che è un cardine costituzionale dell'ordinamento). Infatti, per tutte le situazioni in cui il diretto interessato non sia in condizione di esprimere una volontà, l'ordinamento prevede una surrogazione o supplenza, da parte di un altro soggetto o di una autorità. Il cittadino autorizzato a rifiutare le cure può trasformarsi in una persona alla quale altri negano le cure, con la giustificazione di una presunta supplenza, che non può essere accertata, il che mi fa rabbrividire.

Secondo un’impostazione personalistica, viceversa, il medico non cura la patologia, bensì cura la persona del malato, e tale intrusione nell’intimità è possibile e lecita se semplicemente la persona vuole stabilire il rapporto di terapia, anche se non vuole conoscerne tutti i dettagli. Il consenso non dovrebbe, quindi, essere configurato come un atto negoziale di disposizione, per non contraddire il principio di indisponibilità della persona umana in quanto soggetto di diritto nella sua corporeità, non trattabile come oggetto di disposizione. In questo principio di intengibilità, e non in quello irrealistico dell'autodeterminazione, risiede la vera garanzia della libertà ed inviolabilità della persona.

In tal modo, un atto autorizzativo e fondante dell'alleanza terapeutica non avrebbe più l'aspetto di una formalità rispondente ad un mero scrupolo difensivo. Mi vengono in mente le difficoltà raccontate dai pediatri di pronto soccorso, di fronte ai quali un genitore che porta un figlio infermo si aspetta atti di cura e non formalità burocratiche, che sono ora aggravate, perché in base al comma 2 dell'art. 3 entrambi i genitori devono prestare il consenso informato, con gravissimo imbarazzo in tutte le situazioni in cui uno dei genitori è assente.
 
Da genitore, nel momento in cui accompagno mio figlio in Ospedale mi sembra di esprimere per “atti concludenti” una richiesta di cura, e, pertanto, non sono ben disposto a perdere tempo con formalità burocratiche. Ora, invece, nessun trattamento potrebbe essere iniziato o proseguito in mancanza di consenso informato di entrambi i genitori, se non le sole terapie necessarie ed indifferibili.
 
Non resta che confidare nell'umanità degli operatori, tenendo presente che nel nostro ordinamento il buon senso non è fonte del diritto. Una legge che concepisce l'ospedale come un luogo dal quale bisogna essere liberi di uscire, anziché un servizio a cui favorire l'accesso degli utenti, tuttavia, potrebbe fomentare le controversie anziché favorire la solidarietà (artt. 2 e 4 Cost.) e la cooperazione responsabile.
 
Roberto de Miro d'Ajeta
Docente di discipline giuridiche ed economiche
Avvocato presso le Giurisdizioni superiori 

09 febbraio 2018
© Riproduzione riservata


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