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Martedì 16 NOVEMBRE 2021
Ricerca scientifica, in Italia abbiamo le menti ma non un sistema che le valorizzi. Le riflessioni a Camerae Sanitatis

I ricercatori in Italia sono pochi, le risorse limitate, eppure l’Italia riesce spesso e meglio degli altri. È questo il quadro emerso nella puntata di Camerae Sanitatis dedicata alla ricerca scientifica italiana. La parola d’ordine è solo maggiori investimenti, ma anche un salto culturale che permetta alla ricerca di allontanarsi da una visione universitario-centrica per entrare nel mondo della competitività e dell’applicazione sul campo. Perché l’innovazione è davvero tale solo se porta benefici alle persone. I DATI

L’Italia investe in Ricerca&Sviluppo meno della media Europea (1,4% del Pil contro il 2,1 dell’Ue e il 2,5% dell’Ocse), ma supera la media Europea per quota di pubblicazioni scientifiche che rientrano tra il 10% delle pubblicazioni più citate a livello mondiale (dato italiano oltre l’11% contro il 9,9% della media Ue). Sono questi i principali numeri emersi nel corso dell’ultima puntata di Camerae Sanitatis, il format editoriale multimediale nato dalla collaborazione tra l’Intergruppo parlamentare Scienza & Salute e Sics editore, che nel suo ultimo appuntamento ha cercato di capire forza e limiti della ricerca scientifica in Italia. Un confronto dal quale è emerso come i ricercatori italiani siano tra i migliori al mondo, ma come i punti deboli del sistema non consentano un ritorno di questo sapere in termini di innovatività e competitività con il resto del mondo.

A confrontarsi nel corso della puntata condotta da Ester Maragò (Quotidiano Sanità), sono stati l’on. Angela Ianaro, Presidente dell'Intergruppo Parlamentare Scienza&Salute; l’on. Filippo Sensi, Segretario della XIV Commissione Camera dei Deputati (Politiche dell'Unione Europea); Gino Cingolani, Professore Biochemistry & Molecular Biology - Thomas Jefferson University, USA; Marinella Galbiati, Head of Clinical Operations - Boehringer Ingelheim; Novella Luciani, Ministero della Salute - Direzione generale della ricerca e dell’innovazione in sanità - riconoscimento e conferma IRCCS; Giovanni Maga, CNR - Direttore Istituto di Genetica Molecolare “Luigi Luca Cavalli-Sforza”; Luisa Minghetti, Direttore del Servizio tecnico scientifico di coordinamento e supporto alla ricerca ISS; Carlo Nicora, Vice Presidente FIASO e Direttore Generale della Fondazione IRCCS Policlinico San Matteo Pavia; Franco Vimercati, presidente FISM, Federazione delle Società Medico-Scientifiche Italiane.

A fotografare la realtà della ricerca italiana in numeri è stata Luisa Minghetti dell’Iss (vedi slide). L’Italia, ha spiegato, è più debole degli altri paesi non solo in termini di investimenti, ma anche per numero di ricercatori: ce ne sono 6,3 ogni 1000 occupati contro l’8,9 della media Ue e Ocse. In media nell’Ue vengono rilasciati 0,8 nuovi diplomi di dottorato ogni 1000 abitanti di età compresa tra 25 e 34 anni, ma in Italia questo dato si ferma allo 0,6, “anche se si registra un trend d miglioramento tra i dati del 2014 e quelli del 2020”, ha evidenziato Minghetti. In generale, gli studenti di dottorato in Italia sono meno di 30mila, contro gli oltre 66mila della Francia, i 90mila della Spagna e 200mila della Germania

A penalizzare la ricerca italiana anche la minore integrazione con il resto del mondo. La quota di stranieri iscritti al dottorato in Italia è del 15,6%, sotto la media Ue del 18,3%.
 
“Eppure, quando si tratta di qualità, l’Italia è una eccellenza”, ha evidenziato Minghetti spiegando che il nostro Paese supera la media Europea per quota di pubblicazioni scientifiche che rientrano tra il 10% delle pubblicazioni più citate a livello mondiale (il dato italiano è oltre l’11% contro il 9,9% della media europea).

L’Italia scivola di nuovo in coda, tuttavia, quando si parla di Paesi che ospitano i progetti, “e questo vuol dire che non siamo un Paese attrattivo per svolgere ricerca”, evidenzia l’esperta dell’Iss.

È quindi evidente che la ricerca italiana ha bisogno di una spinta. Che più che dai ricercatori, che si dimostrano molto capaci, deve arrivare dal sistema.
 
Per Filippo Sensi questo salto in avanti “non è una opzione. Dobbiamo imparare a guardare con lungimiranza. Il Covid ci ha messo di fronte a questa realtà, abbiamo capito quanto la sanità e la ricerca siano un requisito fondamentale per un paese, una clausola di salvaguardia, una priorità rispetto ad altre voci di spesa e di investimento”. Per il segretario della XIV Commissione Camera dei Deputati, “l’Italia dovrebbe guardare cosa accade negli altri Paesi, acquisendo quegli elementi che permetteno alla ricerca di crescere ed essere competitiva. E deve farlo ora, perché i soldi che arriveranno con il Pnrr non sono una vincita alla schedina, sono l’opportunità di ripensare il sistema per renderlo produttivo”.

Un auspicio condiviso da Angela Ianaro, che ha osservato come, negli ultimi mesi, e “per la prima volta” la politica e la scienza si parlino costantemente. “La politica si lascia ispirare dalla scienza nelle decisioni, nella consapevolezza che dietro le indicazioni della scienza ci sono anni di studio, investimenti economici, ma anche investimenti di natura culturale”. Per Ianaro, sfruttare il momento per realizzare cambiamenti strutturali significa anzitutto “rendere gli investimenti strutturali e costanti”.

Anche Maria Novella Luciani ha evidenziato come negli ultimi due anni l’Italia si sia avvicinata in modo importante al mondo della scelta, anche nel modus operandi: “Abbiamo colto le sfide, applicato i saperi, trovato soluzioni, che è il metodo della ricerca”.

Luciani ha tuttavia evidenziato come la ricerca, che “è un volano”, si sia trovata in Italia di fronte a grandi difficoltà legate non solo alla scarsezza economica, ma sopratutto alla “poca organizzazione e a una limitata visione di quella che è la sua mission”. Luciani ha quindi portato ad esempio l’esperienza dei ricercatori precari: “La piramide dei ricercatori è uno strumento con cui abbiamo dato un inquadramento contrattuale a persone che fino a quel momento non lo avevano avuto. È evidente che il sistema ha avuto delle mancanze”.

L’esperta del ministero della Salute ha confermato la capacità dei ricercatori italiani nella osservazione ed elaborazione di studi, ma ha evidenziato come manchi loro “la capacità di inserirsi nel mondo competitivo. Internazionalizzarsi serve anche a questo e su questo l’Italia deve insistere: sulla capacità di trasferire il risultato dalle pagine di una pubblicazione al mondo imprenditoriale, abbandonando l’attuale modello troppo legato alla realtà accademica”.

Per Luciani, è un salto di qualità che deve compiere un po’ tutto il Paese nella sua interezza. “Fare cultura scientifica è un modus di vivere. E forse, se in Italia avessimo fatto di più per la cultura scientifica, oggi non vedremmo tutti questi dubbi sui vaccini”. Per l’esperta del Ministero della Salute, le proteste e le perplessità sui vaccini anti Covid “ci dovrebbe far capire che in Italia manca una cultura scientifica”.

“Quando si parla di ricerca e innovazione bisogna riferirsi a un ecosistema che deve essere interconnesso”, è l’opinione di Giovanni Maga, che ha ricordato come la ricerca in Italia faccia riferimento a una varietà di enti: Cnr, irccs, università ed altri enti pubblici di ricerca. Illustrando la realtà del Cnr, Maga ha parlato di 8.500 ricercatori e 88 istituti. “La nostra vocazione è al 100% per la ricerca e questo rende Cnr un luogo privilegiato per la ricerca integrata”, ha detto Maga, secondo il quale ci sono comunque problemi infrastrutturali da risolvere: “Abbiamo stipendi bassi e strutture e infrastrutture non ottimali come quelle che probabilmente ci sono nei Paesi dove la ricerca è più forte”. La parola d’ordine per il Dirigente del Cnr, è quindi “investire sulle strumentazioni e sul capitale umano. E non mi riferisco sono ai ricercatori ma a tutte quelle professionalità che consentono una reale ottimizzazione organizzazione”. D’accordo anche Maga come questo debba poi conciliarsi con “un aumento della capacità di trasferimento tecnologico, cioè della capacità di parlare con la realtà imprenditoriale”.

Gino Cingolani ha portato all’interno del confronto la sua esperienza negli Usa e sostento che “la cosa più importante che il sistema di ricerca italiano deve fare è cambiare mentalità, abbandonando il sistema Top/Down, che è lento, penalizza i giovani e non consente il trasferimento dall’attività di ricerca a quella imprenditoriale, a un modello down/up, che consente a chiunque, indipendentemente da grado, pubblicazioni di far mergere le idee”. Questo perché, ha detto Cingolani, “l’innovazione è basata sulle idee e non su numero di pubblicazioni”.

“Le idee rivoluzionarie, quella che cambiano il mondo - ha ribadito - non vengono dai clan, ma spesso nascono nei garage, grazie alla mente di un teenager. Sono i giovani che creano innovazioni, con un minimo di finanziamento”. Secondo Cingolani all’Italia serve, dunque, “un sistema serio di finanziamento di pilot grants, che consentano a chiunque di trasformare un’idea in un esperimento, un esperimento in un brevetto, un brevetto in una collaborazione con una company e quindi a una pubblicazione. Non è difficile, ma serve un salto culturale, significa spalancare le porte ai giovani”. “L’Italia - ha concluso - ha competenze enormi, non c’è dubbio, ma ha perso la capacità di incentivare i giovani ricercatori e di renderli responsabile del potere delle proprie idee in termini di soluzioni e non solo pubblicazioni”.

Per Angela Ianaro questo significa “investire anche in formazione, consentendo una crescita della capacità manageriali e imprenditoriali del ricercatore, anche allo scopo di facilitare l’accesso ai fondi”.

Franco Vimercati ha quindi voluto puntare l’attenzione sulla ricerca clinica, che parte dall’osservazione. “Significa lavorare non guardando alla ricerca pura e un po’ fine a se stessa, ma farlo in funzione di una messa in pratica per una risposta a un bisogno di salute”. Secondo il presidente della Fism “le Società scientifiche possono rappresentare un grande valore per la ricerca, perché permettono di mettere insieme più branche e cercare soluzioni multidisciplinari alle problematiche derivanti da malattie”. Ed ha citato una sperimentazione in corso su “un blister parlante, che consente al paziente di conoscere la data in cui ha staccato la medicina. È una idea che parte dall’osservazione dei problemi legati all’aderenza terapeutica. È la dimostrazione che dall’osservazione scaturiscono le idee pratiche, i brevetti e i progetti”.

A Carlo Nicora, vicepresidente Fiaso, il compito di introdurre i punti di forza che può derivare da una collaborazione tra pubblico e privato. “Il trasferimento tecnologico è alla base dello sviluppo e benessere della nostra società, e la crescita di questo comparto deve entrare nell’agenda politica di ogni governo nazionale e regionale. Ma perché il trasferimento tecnologico possa crescere, ha evidenziato Nicora, è indispensabile una collaborazione tra il comparto pubblico e quello privato”.

Sia l’attore pubblico che quello privato, ha rilevato Nicora, hanno un sostanziale allineamento di interessi nel portare una tecnologia al mercato, “e seppur questo allineamento sia generato da finalità tra loro non coincidenti (il bene della società, per il primo, e il profitto aziendale, per il secondo) non dovrebbero esserci remore alla scelta di un percorso condiviso”. Senza questo percorso, ha evidenziato il vicepresidente Fiaso, “i denari pubblici investiti rischiano di essere infruttiferi”.

Anche Marinella Galbiati ha parlato di una “comunione di intenti” tra pubblico e privato, evidenziando il ruolo che il privato ha nel portare la ricerca verso degli obiettivi maggiormente focalizzati. “Quello che è importante è che dalla ricerca si produca un valore per il paziente. Un valore concreto, applicabile e immediatamente implementabile”.

Per Galbiati il presupposto di una fruttuosa collaborazione tra pubblico e privato è “una base normativa che permetta di lavorare bene. Il Covid, in questo senso, ha aperto una breccia, dimostrando che il sistema è pronto per un cambiamento”. Cambiamento che, per Galbiati, deve passare anche attraverso una infrastruttura digitale efficiente.

Quanto alla formazione e la valorizzazione del capitale umano, per la Head of Clinical Operations di Boehringer Ingelheim si può fare molto e non solo per i medici. “In altri Paesi ci sono figure professionali nella ricerca che godono di grande considerazione, come i research nurse e gli study coordinator, che dovrebbero potere avere anche in Italia una maggiore dignità, anche normativa”.

Per Galbiati lo sviluppo di tutte le figure professionali che possono partecipare a un progetto di ricerca potrebbe aprire la strada, grazie ad una maggiore efficienza dei centri clinici, anche a “maggiori investimenti da parte delle aziende farmaceutiche, nella consapevolezza che la competizione non è tra aziende, ma tra Paesi”. “Il punto focale - ha ribadito Galbiati - è una infrastruttura che consenta ai ricercatori italiani di entrare in contesti internazionali dinamici”.
 
Lucia Conti

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