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Lunedì 21 GIUGNO 2021
Negli Usa via libera al farmaco aducanumab contro l’Alzheimer: una svolta tra molte incertezze
Si tratta del primo farmaco contro l'Alzheimer approvato dal 2003 ed è il primo trattamento che interviene non tanto sui sintomi, ma sui processi fisiopatologici che sembrano essere all’origine dello sviluppo della malattia. Ne abbiamo parlato con Gioacchino Tedeschi, presidente della Società Italiana di Neurologia (SIN) e con John Hardy, Chair of Molecular Biology of Neurological Disease presso l’Istituto di neurologia dell’University College London
Ha sorpreso molti, deluso alcuni e reso ottimisti altri. L’approvazione dell’Fda (Food and Drug Administration degli Stati Uniti) del farmaco aducanumab per la malattia di Alzheimer, annunciata il 7 giugno, rappresenta sicuramente, nel bene o nel male, secondo i punti di vista, un punto di svolta nel trattamento della forma più comune al mondo di demenza senile. Si tratta del primo farmaco approvato per l’Alzheimer dal 2003 e, cosa forse ancora più importante, del primo trattamento che interviene non tanto sui sintomi, ma sui processi fisiopatologici che sembrano essere all’origine dello sviluppo della malattia.
Cerchiamo di entrare nel merito dell’approvazione, del dibattito tra esperti che ne è seguito, ma anche di fornire un quadro più ampio e generale sulla ricerca nell’ambito di questa malattia neurodegenerativa e su come l’approvazione potrà (eventualmente) condizionare le ricerche future. Lo facciamo con l’aiuto di Gioacchino Tedeschi, presidente della Società Italiana di Neurologia (SIN) e di John Hardy, Chair of Molecular Biology of Neurological Disease presso l’Istituto di neurologia dell’University College London.
Cominciamo dall’inizio.
Trial clinici dai risultati controversi
Aducanumab è un anticorpo monocolonale IgG1, prodotto da Biogen, diretto in modo specifico contro gli oligomeri di beta amiloide e contro le fibrille amiloidi implicati nella patogenesi dell’Alzheimer.
L’efficacia dell’anticorpo è stata testata in due studi clinici di fase III: EMERGE ed ENGAGE. “I trial clinici sono stati condotti su pazienti che presentavano un decadimento cognitivo lieve, nei quali era stata documentata la presenza di amiloide nel cervello, attraverso una PET (tomografia a emissione di positroni) amloide o attraverso il dosaggio dell’amiloide nel liquor cefalorachidiano”, precisa Tedeschi.
Nel 2019 i due trial sono stati interrotti per futility: le analisi intermedie hanno suggerito che la molecola non fosse efficace nel ridurre il declino cognitivo e i ricercatori hanno concluso che fosse improbabile che, continuando gli studi, il farmaco avrebbe avuto successo.
Mesi dopo, un’ulteriore analisi dei dati condotta dall’azienda farmaceutica ha fatto emergere un rallentamento del declino cognitivo statisticamente significativo nel sottogruppo di partecipanti allo studio EMERGE che ha ricevuto la dose più alta di aducanumab. Inoltre, gli studi hanno mostrato una riduzione delle placche amiloidi nei pazienti che avevano ricevuto il trattamento.
L’obiettivo primario degli studi era dimostrare un rallentamento del declino cognitivo misurato usando la scala Clinical Dementia Rating (CDR). La diminuzione delle placche di amiloide è un endpoint surrogato: non dimostra un beneficio clinico, ma potrebbe predirlo.
Il via libera al farmaco, ottenuto nell’ambito del programma di approvazione accelerata, concede una licenza di marketing basata sull’endpoint surrogato, la riduzione della beta amilode. Non è detto che tale riduzione porti poi a un effettivo rallentamento del declino cognitivo. Tale beneficio clinico dovrà essere dimostrato in una sperimentazione “post-marketing”. Biogen ha fino a 9 anni e se questa sarà inconcludente, l’Fda potrà ritirare l’approvazione.
Un endpoint surrogato
L’approvazione è avvenuta nonostante il parere contrario del Panel indipendente costituito da 11 neurobiologi e biostatisti secondo cui non ci sono prove a supporto del fatto che il farmaco riduca il declino cognitivo.
“Nel momento in cui progetti uno studio, stabilisci in anticipo quali siano gli endpoint, gli obiettivi da raggiungere per poter considerare il farmaco efficace. Il problema in questo caso è che l’endpoint che ha portato all’approvazione non è quello stabilito originariamente. E questo statisticamente è molto pericoloso”, osserva Hardy.
“I trial hanno dimostrato esclusivamente una riduzione dei depositi di amiloide nel cervello dei partecipanti che hanno ricevuto il farmaco. L’uso di un endpoint surrogato di questo tipo ha un importante precedente: le malattie cardiovascolari. Un farmaco in grado di ridurre il colesterolo nel sangue può essere approvato per le malattie cardiovascolari, perché sappiamo che il colesterolo è un fattore di rischio molto importante per lo sviluppo di tali patologie”. Ma aggiunge: “io credo che questa relazione sia molto meno forte nel caso dell’amiloide e dell’Alzheimer, quindi posso capire che alcuni considerino questo endpoint surrogato non sufficiente per un’approvazione”.
Una parentesi: se anche un’ulteriore sperimentazione dovesse far emergere una differenza significativa nel declino cognitivo tra i pazienti trattati e quelli di controllo, bisognerebbe fare molta attenzione a cosa si intende per differenza significativa e a quale sia la differenza minima clinicamente importante (MCID), quindi la più piccola variazione nell’esito di un trattamento che possa essere considerata clinicamente significativa.
È un concetto statistico, la cui importanza viene discussa in una Personal View pubblicata da The Lancet Psichiatry. “Non c’è consenso sulla MCID per i risultati negli studi sulla malattia di Alzheimer”, scrivono gli autori, “la considerazione dei dati degli studi clinici sull’aducanumab da parte della Food and Drug Administration degli Stati Uniti ha messo in luce l’incertezza del significato clinico di miglioramenti statisticamente significativi ma piccoli”.
L’MCID dell’endpoint primario (CDR-SB) dello studio EMERGE infatti, spiegano gli autori di una Viewpoint pubblicata da JAMA a marzo di quest’anno, “è generalmente considerato da 1 a 2 su una scala da 0 a 18, mentre la riduzione del 22% dell’esito CDR-SB osservata nel gruppo ad alto dosaggio nello studio rifletteva una differenza assoluta di 0,39”.
L’ipotesi della cascata dell’amiloide
Hardy è uno degli scienziati che nei primi anni 90, con i suoi studi, ha contribuito alla formulazione dell’ipotesi amiloide, secondo cui l’accumulo di beta amiloide nel sistema nervoso sia il punto di partenza dell’Alzheimer. A partire da questa ipotesi sono stati sviluppate e testate moltissime molecole dirette contro l’amiloide che però, fin ora, non hanno portato a benefici clinici nei pazienti. Tali insuccessi e la scoperta che anche nel cervello di individui sani (analizzati post-mortem) fossero presenti accumuli di beta-amiloide, hanno fatto insorgere qualche dubbio sul reale ruolo della proteina.
Anche per questa ragione alcuni scienziati sono scettici rispetto all’efficacia di aducanumab nel ridurre il declino cognitivo.
Hardy però nota come diversi studi abbiano mostrato che la beta amiloide possa iniziare ad accumularsi nel cervello anche 15 anni prima lo sviluppo della malattia di Alzheimer: “è vero che in individui sani dopo la morte si possono osservare depositi di amiloide, probabilmente però se quelle persone fossero vissute più a lungo avrebbero sviluppato la malattia”.
Comunque, l’accumulo di beta amiloide a livello del sistema nervoso centrale è certamente uno dei fattori chiave dello sviluppo dell’Alzheimer. “Magari l’amiloide non è l’unico attore del processo, ma è sicuramente uno dei pochi attori principali”, osserva Tedeschi.
Un farmaco potenzialmente efficace solo nelle prime fasi della malattia
È interessante poi notare che questo stesso farmaco, testato su pazienti con Alzheimer conclamato, in fase avanzata, non è riuscito a ridurre i depositi di beta amiloide nel cervello. Gli ultimi studi invece, come accennato sopra, sono stati condotti su partecipanti che, secondo Tedeschi, non si possono neanche definire “malati” in senso stretto, perché presentano solo un lieve declino cognitivo e accumuli di amiloide. La maggior parte di questi svilupperà la malattia di Alzheimer: “a distanza di due tre anni dalle manifestazioni di declino cognitivo circa l’80%, a 5/10 anni la percentuale aumenta”, spiega Tedeschi. E aggiunge: “è probabile che sia possibile rimuovere solo una piccola quantità di beta amiloide e quindi che sia possibile ridurre i depositi nelle fasi precoci della malattia ma che non sia possibile rimuovere l’amiloide nelle fasi avanzate”.
Nell’approvazione l’Fda ha indicato il farmaco per i malati di Alzheimer, senza specificare ulteriormente quali pazienti potrebbero trarre beneficio dalla terapia. Questo fatto è sorprendente e inspiegabile secondo alcuni scienziati, tra cui Hardy.
Tedeschi invece non ha dubbi sul fatto che le autorità istituzionali lo indicheranno esclusivamente per i pazienti in fase precoce, come quelli selezionati negli studi clinici.
Un punto di svolta
Dal 2003, secondo un editoriale di JAMA del 2018, sono state testati circa 400 farmaci per l’Alzheimer, e nessuno di questi è stato approvato. Quindi, in ogni caso, l’approvazione rappresenta un punto di svolta.
“Nel corso degli ultimi 20 anni la ricerca sull’Alzheimer, e in generale su tutte le malattie del sistema nervoso centrale, non è stata affatto semplice”, spiega Hardy. “Non si può accedere facilmente al cervello per studiare la malattia. Fino a qualche anno fa non era possibile visualizzare la beta amiloide nel cervello e non c’erano biomarker affidabili per la malattia”. E fa un esempio: “per studiare il cancro e testare farmaci, si può prelevare il tessuto tumorale, far crescere le cellule cancerose, analizzarle, usarle per valutare l’efficacia delle molecole. Ecco, tutto questo non si può fare con il cervello”.
Negli ultimi anni sono stati fatti enormi progressi: ora è possibile prevedere lo sviluppo della malattia analizzando biomarker presenti nel sangue, e nel 2004 è stata messa a punto la PET per visualizzare la beta amiloide nel cervello.
L’attuale approvazione secondo alcuni potrebbe avere effetti negativi sulla ricerca futura. Un articolo di Nature sottolinea come le case farmaceutiche potrebbero ora concentrarsi prevalentemente sulla beta amiloide, “accontentandosi” di dimostrare una riduzione dei depositi della proteina. “Prima dell’approvazione”, scrive Asher Mullard nel suo articolo, “gli scienziati avevano iniziato a concentrarsi su altri bersagli farmacologici. Attualmente sono testate più di dieci molecole progettate per eliminare la proteina tau”. E cita David Knopman, neurologo presso la Mayo Clinic di Rochester, che spera che questi sforzi non vacilleranno a causa della vittoria di aducanumab.
Un articolo dell’Economist del 12 giugno ipotizza anche che, in assenza di alternative, milioni di americani richiederanno il trattamento e questo potrebbe rendere difficile reclutare partecipanti in trial clinici per testare farmaci diversi.
L’approvazione potrebbe però avere anche dei risvolti positivi. “Il fatto che ci sia un farmaco potenzialmente utile potrebbe dare una spinta importante all’intero sistema”, secondo Tedeschi. “Tutti gli stakeholder coinvolti in questo percorso potranno essere maggiormente motivati nel documentare che il farmaco sia efficace, i ricercatori potrebbero essere maggiormente stimolati nel lavorare su qualcosa che potrebbe davvero funzionare”.
Hardy e Tedeschi sottolineano che sarà necessario sviluppare farmaci più efficaci diretti contro la beta amiloide e farmaci che prendano di mira altri target molecolari.
Una questione politica
In ogni caso, seppure il farmaco dovesse funzionare come sperato, o se comunque dovessero emergere nuove terapie in grado di rallentare il declino cognitivo dei pazienti con demenza in fase precoce, i sistemi sanitari nazionali dovrebbero attrezzarsi per garantire una diagnosi precoce a tutta la popolazione. “È un questione non solo scientifica, ma anche e sopratutto politica”, sottolinea Hardy.
“In Italia, secondo i calcoli attuali, ci potrebbero essere tra le 100 e le 300.000 persone con decadimento cognitivo che presentano depositi di beta amiloidi nel cervello”, spiega Tedeschi. “Bisogna essere in grado di pre selezionare i pazienti e di sottoporli a test per analizzare la presenza di amiloide, i test non sono semplici” e sono ovviamente costosi. “Attualmente i centri di diagnosi e cura della malattia sarebbero in difficoltà nello svolgere un compito del genere”.
Inoltre, una volta selezionati i pazienti e somministrato il trattamento (per via endovenosa una volta al mese), bisognerebbe monitorare i soggetti costantemente. I dati hanno infatti mostrato che aducanumab ha effetti collaterali non trascurabili. Circa il 40% dei partecipanti trattati nei due studi ha sviluppato edema cerebrale. La maggior parte dei pazienti non hai poi sviluppato sintomi correlati, ma per evitare complicanze pericolose sarà necessario un monitoraggio attento con risonanze magnetiche regolari, e questo si aggiunge alle spese del farmaco.
“Personalmente credo che il farmaco abbia apportato un qualche beneficio per le persone affette da una forma precoce della malattia”, riassume Hardy, “ma questa è una situazione complessa e capisco che altri scienziati non siano d’accordo, credo anche che i risultati degli studi possano dare adito a dubbi”. E conclude: “non sappiamo cosa accadrà in Europa dopo l’approvazione dell’Fda”.
Camilla de Fazio
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