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Giovedì 06 MAGGIO 2021
Quanta “fuffa” nella discussione sulle Case di comunità
Parlare di case di comunità senza conoscerne né la definizione né il significato è fuffa. Tanto per parlare quindi o peggio tanto per schierarsi o contro o a favore
Sono, non lo nascondo, piuttosto frastornato leggendo il dibattito su questo giornale sulle case di comunità.
Si può discutere dell’anima senza prima accordarci su cosa essa sia? Si possono criticare le case di comunità senza definirle mai? (Jorio, QS 3 maggio 2021).
Si possono difendere le case di comunità senza sapere che cosa esse siamo in realtà? (Carnevali, QS 5 maggio 2021). O scambiare il loro significato con altri significati analoghi? (Maffei, QS 5 maggio 20121).
O addirittura ridurre le case di comunità agli interessi che esse soddisfano o danneggiano? (Scotti, QS 30 aprile 2021 e Mangiacavalli, QS 4 maggio 2021).
A me questa discussione sa di metafisica e delle discussioni metafisiche, non mi fido.
Il trionfo dell’ ambiguità
Nella missione 6 si propongono le case di comunità ma senza definirle, per cui ho cercato una definizione adeguata e confesso di non essere riuscito a trovata.
L’unica definizione che ho trovato è “casa della salute” che il ministero competente definisce così: “la sede pubblica dove trovano allocazione, in uno stesso spazio fisico, i servizi territoriali che erogano prestazioni sanitarie, ivi compresi gli ambulatori di Medicina Generale e Specialistica“.
Quindi come ho detto tante volte un banale poliambulatorio Inam come quelli nei quali ho lavorato da giovane ai tempi delle mutue. Un repechage nulla di più.
Prima di procedere alla ricerca di una definizione permettetemi alcune considerazioni preliminari al volo:
- non so voi, ma io considero un errore usare concetti ambigui in una norma, in un progetto, nel recovery plan, nella missione 6, per la semplice ragione che l’esperienza ci dice, che, la non chiarezza, è causa sempre di male interpretazioni, di tante interpretazioni, di tante ambiguità. E quel che è peggio a volte di nessuna interpretazione e di qualche fregatura.
- da parte di Speranza, quindi da parte del governo, trovo poco serio soprattutto quando si tratta di spendere soldi pubblici servirsi di concetti ambigui e trovo molto discutibile l’uso dell’ ambiguità come propaganda perché è evidente che se la casa di comunità non è connotata, l’idea di prossimità è propaganda.
Non so voi, ma a me rispondere ad una pandemia/sindemia, nel ventunesimo secolo riesumando il poliambulatorio inam del secolo precedente fa una certa impressione.
In parte perché è come riesumare una concezione di servizio del passato che corrispondeva ad un certo sistema di welfare che però abbiamo superato con una riforma, in parte perché proprio per questo è un chiaro segnale di regressività, e infine perché capisco che le idee non piovano dal cielo ma almeno ci si sforzi di cercarle esattamente come fa il velista quando cade il vento.
Le idee ci sono non c’è bisogno di tornare all’età della pietra.
La fuffa
Parlare di case di comunità senza conoscerne né la definizione né il significato è fuffa. Tanto per parlare quindi o peggio tanto per schierarsi o contro o a favore.
Il prof. Jorio parla di case di comunità dando per scontato che vi sia da qualche parte una definizione convenzionale che però non esiste. L’onorevole Carnevali non ci dice che cosa sia la casa di comunità ma tenta di definirla attraverso presunte funzioni (luoghi di accesso al sistema salute, e di integrazione tra la sanità territoriale e specialistica).
Il dottor Maffei alle critiche contro la casa di comunità risponde citando i risultati della casa della salute dell’Emilia Romagna, come se fossero la stessa cosa quando non è così. Perché mai distinguere nella missione 6 le case di comunità dalle case della salute se sono la stessa cosa?
Il segretario Scotti e la presidente Mangiacavalli definiscono la casa di comunità attraverso ciò che a loro conviene o non conviene.
A sentire le loro ragioni la casa di comunità è ciò che conviene agli infermieri e nello stesso tempo è ciò che non conviene ai medici di medicina generale.
Ma scusate non si era detto che con le case di comunità avremmo dovuto rispondere a quei bisogni di prossimità imposti dalla pandemia?
Una ipotesi di definizione
Tutti costoro difendono o contrastano qualcosa di indefinito e, come in genere succede per le anguille, pur di stare nel pantano fanno qualsiasi contorcimento retorico. E la pandemia che fine ha fatto? Ma è vero o no che sono morte 120.000 persone?
Se è così proverei io a fornire una definizione tentando di declinare il concetto di “comunità” su quello di struttura (casa) o se preferite di ambulatorio.
Per fare questo tentativo una strada percorribile è quella di dedurre la definizione di “casa di comunità” dalla sua probabile teoria di riferimento che è il “welfare di comunità”.
Il quesito di partenza è il seguente: supponiamo il welfare di comunità come teoria di riferimento cosa sono le case di comunità? La risposta più logica è la seguente: sono delle strutture (ambulatori sparsi nel territorio) gestite dalla comunità o per conto della comunità.
La grande differenza tra le case di comunità e la casa della salute ma anche tutti gli altri servizi del distretto è nella diversa gestione.
Perché? Perché il senso di fondo del welfare di comunità è l’apertura del servizio pubblico a soggetti esterni al suo classico perimetro gestionale. Questi possono provenire dalla sfera del mercato, delle associazioni intermedie e della famiglia (reti familiari e amicali) ma soprattutto dal terzo settore.
Questa ipotesi spiega perché Speranza abbini le case di comunità al concetto di prossimità, infatti una delle ragioni che giustificherebbe il welfare di comunità, a parte disporre di nuove forme mutualistiche, è quello di ritenere che il vantaggio del welfare “dal basso” è di essere “prossimo” agli individui e quindi meglio adattabile alle loro esigenze e preferenze rispetto a sistemi caratterizzati da una forte centralizzazione e standardizzazione.
Implicazioni
E’ del tutto evidente che se applicassimo la logica politica del welfare di comunità alle case di comunità si avrebbe:
- un cambiamento nel rapporto tra destinatari delle politiche sociali, decisori politici e fornitori di servizi,
- la necessità della messa in opera diun processo di co-produzione attraverso la partecipazione dei cittadini soprattutto nella costruzione di servizi di pubblica utilità,
- una riforma dell’idea di protezione sociale, essendo la logica di questa concezione di welfare definita proprio nell’offrire supporto a condizioni di fragilità individuale attraverso una mediazione collettiva.
Come è del tutto evidente che questo genere di servizio accentuerebbe il rischio di nuove diseguaglianze tra territori, sia tra città e provincia, ma soprattutto tra Nord e Sud. Ricordo le esperienze di cohousing, e degli empori solidali di fatto assenti nell’Italia Centro-Meridionale.
Come è del tutto evidente che con la scusa del welfare di comunità si accentua in forma subdola il processo di privatizzazione iniziato con le controriforme di questi anni. Sono anni che soprattutto i cattolici tentano di trasferire pezzi di sanità pubblica al terzo settore.
Mi sembra anche che nell’ipotesi di welfare di comunità non si possa escludere il welfare aziendale. Ormai i fondi sono in tutto e per tutto sostitutivi dei Lea, quindi come si può pensare di escludere dal welfare aziendale semplici forme di ambulatorietà? E di far gestire le case di comunità ai titolari dei contratti?
Ma a parte questo pongo io un problema di plausibilità: ammesso che la mia ipotesi interpretativa sia plausibile che senso ha fare un ambulatorio gestito dalla comunità in una azienda pubblica gestita in modo monocratico? Quale modello di governance si ha in mente? Ma non è meglio sbaraccare le aziende mettere la comunità al posto del territorio e mettere in piedi i consorzi (CSB - Consorzi per la salute di comunità) al fine proprio di avere una gestione partecipata tanto dai cittadini che dagli operatori ma di tutti i tipi di servizi? (QS, 17 settembre 2020)
Perché solo le case della salute devono essere a gestione delegata?
Si fa strada un sospetto
Da un po’ di tempo e esattamente da quando con il recovery plan si sente forte il profumo dei soldi (scent of money)
soprattutto tra i cattolici di sinistra quelli che come la Bindi in passato ci hanno regalato intramoenia mutue e fondi e ora come ci ricorda Geddes (QS 11 aprile 2021) si richiamano a un nuovo movimento che guarda caso si chiama “prima la comunità”.
E’ un movimento che promuove dal basso una nuova idea di welfare perfettamente in sintonia con la teoria del welfare di comunità di cui ho parlato prima e che specificatamente si è dedicato alla “case della salute” nel tentativo di superare la visione ospedalocentrica della sanità.
Non vorrei che l’ambiguità semantica di Speranza nella definizione delle case di comunità sia strumentale ad un disegno politico che pensa di appaltare parte dei servizi pubblici territoriali al terzo settore o se preferite alla comunità finanziandoli con una parte dei 20 mld.
Lo dico subito: se questo “ignobile” sospetto fosse infondato non solo chiederei scusa per aver pensato male ma sarei il primo a rallegrarmene. Come sapete sono io che sostengo che la pandemia è la prova che al paese serve più sanità pubblica, non meno.
Ma qualcuno cioè Speranza o i suoi sostenitori mi deve garantire che mi sbaglio e per farlo, ora che si stanno decidendo i giochi, mi deve definire con precisione cosa è la casa di comunità, chiarire in quale tipologia di servizi va inquadrata, chiarire come è diretta, come funziona quindi la sua organizzazione e puntualizzare i suoi rapporti con gli altri servizi territoriali e da ultimo le sue modalità di finanziamento.
Immagino l’obiezione di “prima la comunità”: scusi prof. Cavicchi . ma che problema c’è se le case di comunità sono gestite dalla comunità?
Nessun problema mi verrebbe di rispondere ma se è così perché non dirlo? Se non si discute alla luce del sole su cosa vuol dire gestire le case di comunità, allora sono autorizzato a non fidarmi di coloro che le propongono, in particolare di coloro che in sanità di fregature ce ne hanno già date tante.
Ivan Cavicchi
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