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Lunedì 18 GIUGNO 2012
Intervista a Mons. Manto: "Equità, sostenibilità, centralità e dignità della persona". Ecco la sanità secondo la Chiesa Cattolica

Si apre oggi pomeriggio il convegno promosso dalla Cei sull'evoluzione del modello di salute. Il direttore dell'Ufficio per la Pastorale della sanità ci spiega in che modo la visione antropologica e la tradizione assistenziale della Chiesa possano essere protagoniste del cambiamento. Insieme ai professionisti del Ssn.

L’effetto combinato di fattori demografici, culturali e sociali e la crescente pressione determinata dalla situazione economica e dagli sviluppi tecnico-scientifici, ci mettono di fronte alla necessità di ripensare il modello di salute e l’organizzazione dei servizi di cura alla popolazione del nostro Paese. Un cambiamento a cui la Chiesa chiede di poter contribuire. E' a questo scopo che l'Ufficio per la pastorale della sanità della Conferenza Episcola Italiana (Cei) promuove oggi, fino a mercoledì, un convegno dal titolo "Un nuovo paradigma per la sanità in Italia. La Chiesa a servizio del cambiamento" (scarica il programma), che vedrà riuniti, per un confronto a 360°, esponenti della Chiesa e delle opere assistenziali di derivazione ecclesiastica con il mondo laico della sanità, rappresentanto da politici, esperti del settore, medici e professionisti sanitarie. Con lo scopo di trovare, insieme, la strada per realizzare una sanità più umanizzata, più equa e anche più sostenibile.

In questa intervista, Monsignor Andrea Manto, direttore dell'Ufficio per la Pastorale della sanità, ci anticipa i temi del convegno, al quale interverrà anche il ministro della Salute Balduzzi.

Mons. Manto, l’opera della Chiesa in ambito assistenziale ha una storia che dura da secoli. In che modo essa ha contribuito allo sviluppo del sistema sanitario?
Prima ancora di contribuirvi praticamente, lo ha fatto spiritualmente. L’idea che essere accanto a chi soffre sia un valore fondamentale si afferma con il Vangelo, in particolare con la parabola del samaritano. Ai tempi di Gesù Cristo c’era ostilità tra ebrei e samaritani, eppure Gesù indica come modello uno straniero che cura un uomo ferito, superando ogni pregiudizio religioso o di razza. L’icona del samaritano è quella di colui che si ferma a soccorrere ogni persona, senza giudicare chi gli è di fronte, senza chiedersi se sia prudente fermarsi a prestare aiuto e investendo tempo e risorse a questo scopo. Si afferma così il concetto di “prossimo” che interpella la coscienza e la responsabilità di ciascuno di noi e ha dato una spinta decisiva al riconoscimento della dignità di ogni uomo in qualunque condizione esso si trovi.

Nel tempo, però, c’è stata anche una specializzazione dei rappresentanti della Chiesa all’arte medica e anche un’organizzazione dell’opera assistenziale.
Il mandato che Gesù Cristo ha dato ai suoi discepoli inviandoli in missione è “Predicate il Vangelo e curate i malati”. Dietro il bisogno di salute esiste sempre, spesso implicitamente, una domanda di salvezza. Così, l’annuncio del Vangelo e la cura dei malati diventano segno di  speranza e di salvezza. A partire da questo mandato hanno inizio le opere di misericordia al servizio dei sofferenti. Si tratta di mettere in pratica nel migliore modo possibile la parola di Cristo, di portarla a tutti e di accogliere tutti, in una logica di inclusione e non di esclusione: in altri termini la comunità cristiana è ospitale, quella ospitalità che è alla base della parola stessa “ospedale”. Un’ospitalità verso i bisognosi e per di più universale, che poi è la traduzione dal greco dell’aggettivo “cattolica”.
Non è stato, però, un traguardo immediato. La Chiesa ci ha messo secoli per creare un “sistema di welfare”. Per molto tempo, infatti, chi stava male veniva assistito dalla propria famiglia e dalla propria comunità. Non esisteva un’assistenza, per così dire, esterna. L’idea di questa accoglienza universale è cresciuta pian piano, quando è sopraggiunta la necessità di spazi e organizzazioni per realizzarla. In particolare, il grande salto si compie con i Giubilei, cioè con il forte afflusso di pellegrini che arrivavano stremati a Roma. Per raggiungere Roma, infatti, i pellegrini compivano un cammino che poteva durare mesi, dormendo sotto ripari di fortuna e alimentandosi precariamente. Arrivavano a Roma stremati, e spesso anche feriti, deperiti o malati. Per offrire assistenza a un così alto flusso di persone, era necessaria un’organizzazione degli interventi e spazi pronti ad ospitarli. All’interno della Chiesa nascono anche le prime forme di ricovero ed isolamento in caso di epidemia. Per evitare il contagio, infatti, i malati venivano isolati nelle cellette dei conventi.

Oggi quanto è grande il contributo della Chiesa nel sistema sanitario?
La presenza di istituti e opere è molto forte. Nella recente indagine conoscitiva  sui servizi sociosanitari e assistenziali di diretta derivazione ecclesiale attivi in Italia (CEI- “Opere per il bene comune” edizioni EDB) abbiamo censito 14.300 opere diffuse capillarmente su tutto il territorio nazionale, che impiegano 421 mila persone, di cui 2/3 volontari e circa 1/3 (ben 135mila lavoratori) regolarmente assunte e stipendiate. Si tratta di una realtà viva e presente in tutto il Paese che offre servizi che vanno dall’emoteca ai centri diurni per Alzheimer, dai servizi di ambulanza agli ospedali e policlinici universitari. Se poi guardiamo fuori dall’Italia, e in particolare ai Paesi in via di sviluppo, la presenza della Chiesa in quei contesti è spesso l’unica risorsa sanitaria.

Il convegno che apre oggi a Roma servirà a presentare “un nuovo paradigma per la sanità in Italia” da parte dell’Ufficio nazionale della pastorale sanitaria. Quale nuovo paradigma la Chiesa intende proporre al sistema sanitario?
Il convegno promosso il 18 giugno nasce in ambito ecclesiale e si rivolge in primo luogo alla comunità cristiana per sottolineare la necessità di una sempre maggiore attenzione dei credenti al mondo della salute, investito da grosse criticità e da importanti cambiamenti.
Tuttavia non vogliamo fermarci solo al mondo sanitario cattolico e alle parrocchie, ma andare oltre e guardare al bene comune, quindi al sistema sanitario e alla società nella sua interezza.
I cattolici sono da sempre portatori di una forte attenzione alla fragilità, ai più deboli e agli ammalati, e del concetto di universalità dell’assistenza. Il convegno nasce dalla consapevolezza che la crescente pressione - dovuta alla difficile situazione economica, ai cambiamenti demografici e all’evoluzione delle pratiche e delle politiche sanitarie - ci mette di fronte alla necessità di ripensare le strategie di intervento e di organizzazione del servizio sanitario per i cittadini. La Chiesa vuole interrogarsi su questi cambiamenti e vuole farlo attraverso l’ascolto e il confronto con le professioni sanitarie, con la politica e con tutti gli stakeholder. L’obiettivo è creare una forza di pensiero e di innovazione che possa aiutarci a guidare questi cambiamenti per non subirli passivamente.

E questi cambiamenti in che direzione dovrebbero andare?
Nella direzione dell’equità, della sostenibilità e della centralità della persona con la sua inviolabile dignità. Non devono penalizzare le persone più fragili fisicamente, socialmente ed economicamente. Non devono svalutare o sottovalutare il dono della vita. Il valore della vita e la dignità della persona sono le fondamenta su cui si poggiano tutti i diritti. In economia come in sanità, lasciarsi guidare da una mentalità nichilista e tecnicista e non guardare con favore al dono della vita umana, innesca meccanismi potenzialmente distruttivi per tutti. Seppur non direttamente e a volte in modo apparentemente invisibile, la rottura dell’alleanza fondamentale tra operatore sanitario e paziente e la perdita della centralità della vita umana e della persona può distruggere i legami fondamentali che tengono insieme sia il servizio sanitario sia l’intero tessuto sociale. Così facendo si elimina ogni possibilità culturale di costruire un welfare e una corresponsabilità sociale che permetta di creare una rete di sostegno collettiva. Il rischio è di lasciare abbandonati i più fragili. Se si inizia a pensare che la vita dell’anziano o quella del disabile vale meno, si crea un vulnus profondo nell’umanità e nella civiltà.
Un altro aspetto su cui vogliamo attirare l’attenzione è quello dell’evoluzione tecnologica e del progresso scientifico, troppo spesso sopravvalutato rispetto a quello che è il nucleo essenziale della cura, cioè la presa in carico della persona e la relazione medico-paziente. Oggi la relazione terapeutica non è sufficientemente valorizzata e, nonostante le tante tecnologie e innovazioni messe a disposizione del malato, il cittadino non ha la sensazione di essere al centro del sistema e di essere davvero preso in carico. Tutto questo, oltre a generare insoddisfazione, sappiamo bene cosa ha innescato. Basti citare il contenzioso sanitario, che è solo un aspetto di una conflittualità più ampia e drammatica che esiste oggi tra sistema e cittadino. Forse andrebbe studiato anche il ruolo dell’ansia nel ricorso alle prestazioni sanitarie e vedere quanto le relazioni ricche di fiducia personale e di calore umano prevengano il ricorso inappropriato alla diagnostica e agli interventi sanitari e motivino ad assumere comportamenti e stili di vita più sani.

Sono dunque le tecnologie che hanno svuotato il rapporto medico-paziente?
Le tecnologie hanno dei meriti indiscutibili. Tuttavia, un certo modo di usarle (e di insegnare agli studenti ad usarle male) ha concorso a rendere freddo e impersonale il rapporto medico-paziente. Il medico oggi è più concentrato sulla malattia che non sulla persona. Si preoccupa di inseguire la guarigione o il caso clinico “sfidante”, ma non di prendersi cura. Il fatto è che le grandi tecnologie non sempre possono guarire. I professionisti sanitari questo lo sanno bene, ma spesso dimenticano che la cura è sempre indirizzata alla presa in carico del paziente, alla relazione di fiducia, al sostegno e alla consolazione, specie quando non c’è tecnologia che funzioni. Voler bene ai propri pazienti e sostenere la loro speranza è il primo compito di un medico e di ogni professionista sanitario.
Peraltro, dove la relazione di cura è impersonale e si pensa più alla singola prestazione che non alla presa in carico complessiva, aumenta la medicina difensiva.
Inoltre, se si insegue sempre e comunque l’ultima innovazione tecnologica si mette a rischio l’equità e la sostenibilità del sistema. Il che non significa non usare l’innovazione, ma usarla con saggezza. Ad esempio, è inutile ricercare l’ultima moda o l’ultimo grido tecnologico, che sovente genera piccoli guadagni di salute complessiva e molto business, per poi eliminare una cultura della prevenzione e della relazione che consentirebbero maggiori guadagni di salute per tutti e maggiori economie nel medio-lungo periodo. O, magari, non investire sulla qualità e sulla formazione del personale, non curare adeguatamente la comunicazione e l’educazione sanitaria.
Credo che i professionisti della salute e i responsabili delle politiche sanitarie dovrebbero interrogarsi di più su tutto questo.

In un momento di crisi della sanità la Chiesa vuole quindi diventare attore del cambiamento per salvare la sanità.
Non esattamente. Il mondo lo ha salvato Gesù Cristo, che attraverso la Sua morte e resurrezione ha reso possibile la vittoria della vita. Sì, vincerà la vita, vincerà il bene, vincerà l’amore! È questo il nucleo dell’annuncio cristiano che riscatta il Venerdì Santo nella gioia della Pasqua. A noi spetta solo il compito di continuare l’opera di Cristo smascherando le logiche della morte (egoismo, avidità, menzogna, sfruttamento..) e promuovendo le logiche della vita vera e piena (speranza, amore, fede, comunione tra persone..). Al di là di ogni considerazione teologica, però, è vero che vogliamo fare la nostra parte per aiutare tutti. Non vogliamo sottrarci al dovere di solidarietà e di umanità specie in un frangente così difficile. Vogliamo essere attori e promotori di un’innovazione autentica e sostenibile. Il nostro scopo è restituire al mondo della sanità una visione che ci permetta di mettere il paziente, la relazione e la comunità al centro del sistema. Questo sarà un tema forte delle giornate di lavoro promosse dall’Ufficio per la pastorale sanitaria. Siamo convinti, infatti, che oggi la prima emergenza sia quella di fare società, creare legami. Senza la società, senza un forte investimento su tutto ciò che ci tiene insieme e ci rende una comunità, peggiora la sanità, crolla il welfare e si spengono l’innovazione e la speranza nel Paese.

Una società basata sul welfare significa prendersi tutti cura di tutti? E questo può rappresentare anche una soluzione economica?
Assolutamente sì. Così si fa insieme una sanità umana e sostenibile. Nell’altro caso si fa una sanità speculativa, con sempre meno soddisfazione da parte della persona, sempre meno equità e sostenibilità del sistema.
Il primo cambiamento che proponiamo è quello di investire sulle persone, sull’educazione e sulla comunità per generare salute. Anche con progetti semplici eppure efficaci, come “il custode sociale degli anziani”, cioè qualcuno, all’interno di un condominio, che sia attento ai bisogni degli anziani più soli e più fragili, segnalando le criticità e intervenendo per tempo.
Se si crea un welfare sociale, i progetti realizzabili sono tantissimi, e a costo zero. Ci sarebbe un miglioramento globale della salute e del benessere della popolazione. Ma sono tutti progetti figli di una mentalità dell’accoglienza e del prendersi cura. Se non si sviluppa questa mentalità, non si sviluppa alcun progetto.
Bisogna investire anche sui medici e sugli infermieri, ricordandosi che non sono solo tecnici, ma persone. Occorre ridare senso e motivazione alle professioni sanitarie, anche attraverso nuovi percorsi formativi.

I professionisti sanitari oggi vivono un momento di grande crisi e demotivazione. Pensa che questo nuovo approccio alla salute potrebbe portare anche più gratificazione professionale?
Ne sono convinto. Un approccio diverso alla vita, alla malattia e alla morte permette di amare di più il proprio lavoro di assistenza al prossimo, ma anche di gestire meglio lo stress e il burn-out. Non vogliamo che medici e infermieri lavorino come macchine, ma che ritrovino la propria missione di servire la vita e di avere l’orgoglio e il piacere di servirla. Questo farà bene ai professionisti, ma anche ai pazienti. La prima richiesta che ogni paziente ha nel cuore quando si affida a una struttura sanitaria è quella di non essere lasciato solo e di sentire che qualcuno ha a cuore la sua situazione e sta lottando con lui per risolverla o alleviarla. Se l’organizzazione delle strutture e la formazione degli operatori riuscissero a far percepire questo impegno, credo che la conflittualità si depotenzierebbe, migliorando le condizioni di lavoro dei professionisti e anche liberando le risorse oggi sprecate nella medicina difensiva.

Il dialogo tra Chiesa e scienza non è sempre semplice. Crede che ora lo sarà?
Credo che ogni dialogo autentico non sia mai completamente facile o scontato, perché significa mettere in gioco se stessi, avere umiltà ed essere pronti a faticare per cercare insieme la verità. Non è certo facile, però è possibile e sono ottimista. Sono un medico geriatra, ho fatto ricerca, e sono convinto che si possa fare ottima ricerca, in maniera scientificamente rigorosa, senza per questo violare alcun principio etico o andare contro quello che è l’insegnamento della Chiesa sulla vita umana e sulla dignità della persona. E sono certo che questo approccio, superando preconcetti o rigidità ideologiche, possa essere ampiamente condiviso anche fuori dalla Chiesa da tanti uomini di buona volontà, saggi e onesti intellettualmente.
Riguardo ai problemi di dialogo tra Chiesa e scienza, credo che ci siano anche molti pregiudizi e che sia tempo di tornare a parlarsi, perché il bene comunque richiede anche la responsabilità di sedersi intorno a un tavolo e imparare a comunicare. Senza un processo comunicativo adeguato, tante questioni possono essere distorte o non essere comprese. Il dialogo deve esserci e può esserci. Chiaramente richiede ascolto, pazienza e impegno, da entrambe le parti.

Parlava di un nuovo approccio alla salute anche attraverso un nuovo percorso formativo. A cosa si riferiva nello specifico?
All’introduzione di nuove materie che vadano ad approfondire l’aspetto umanistico della medicina e la responsabilità culturale e sociale del medico, e di un nuovo modo di insegnare. Occorre superare alcune forme di riduzionismo e ricordare ai nostri studenti che il medico e l’infermiere sono persone chiamate a prendersi cura dell’altro come persona, prima ancora che della malattia. In sintesi, medicina narrativa, evidence based medicine e management possono utilmente coesistere in questo nuovo paradigma.
Bisogna peraltro ricordare che sempre più spesso la medicina cronicizza i problemi di salute. La cronicizzazione si traduce in un maggiore carico assistenziale per chi vive intorno al paziente e in un senso di dipendenza e spesso di isolamento e impotenza per il paziente che, una volta finita la fase acuta, si trova da solo a convivere con la propria malattia. Dobbiamo insegnare ai nostri studenti e professionisti sanitari a farsi, per certi versi, “compagni di viaggio” dei malati in un percorso che deve aiutare il paziente ad accettare la malattia rendendola una parte importante della vita, densa di significato e anche di bellezza, pur nella sofferenza e nel dolore.

Si chiede quindi ai medici di diventare anche “guide spirituali”?
Si chiede ai medici di ridare dignità alla loro professione, che non è soltanto tecnica. L’amore per il prossimo e la consolazione sono parti essenziali delle professioni sanitarie. Non sono elementi da introdurre, bensì da ritrovare. La professione medica è fatta di scienza e coscienza; quello del medico è un ruolo culturale di promotore della vita e della socialità, capace di accompagnare chi si trova nella sofferenza in una cornice di speranza, prossimità e saggezza. In tutte le civiltà, sin dall’antichità, la grande considerazione in cui era tenuta la professione medica nasce dal fatto che il medico è depositario di una cultura della vita e della sofferenza, del nascere e del morire, che sono i nuclei centrali dell’esperienza umana. Non stiamo dando compiti e pesi aggiuntivi ai medici. Queste componenti erano già nella professione sanitaria sin dalle origini, solo che nel tempo, inseguendo prometeicamente il mito positivista del progresso, sono state in parte dimenticate.

Quella del convegno è quindi una prima tappa di un percorso che intendete portare avanti?
Sicuramente. Il confronto è già in atto da tempo all’interno del mondo cattolico e dell’Ufficio pastorale della sanità, ora vogliamo condividerlo fuori dalla Chiesa, con gli operatori sanitari e con tutti i responsabili del sistema. È tempo di farlo ed è necessario. Peraltro, la Conferenza Episcopale Italiana ha deciso di dedicare il decennio 2010-2020 al tema dell’educazione. Il nostro Ufficio pastorale sta declinando il tema dell’educazione alla salute quale forma di educazione alla vita. L’obiettivo è proprio quello di aiutare a comprendere che la vita umana è un dono inestimabile e un’opportunità straordinaria, sempre, in qualunque condizione o contesto. Tuttavia, perché si sperimenti fino in fondo la verità di questa affermazione, sono necessari amore, accoglienza e comportamenti responsabili da parte di tutti. Di chi organizza l’assistenza, degli operatori sanitari e anche dei cittadini, responsabili della propria salute e di quella degli altri. La salute è dono a vantaggio di tutti e, insieme, impegno e responsabilità per tutti e ciascuno.

Un dono che si traduce in prevenzione?
Saper apprezzare un dono significa averne cura ed evitare che venga sciupato. Quando si parla di salute, questo si traduce in buoni stili di vita. Ma non solo. Significa anche dare un senso alla propria vita, trovare la propria missione e il proprio progetto di vita. Una buona salute ha bisogno di un progetto di vita buono. Se la vita non ha un senso, si va verso la depressione, il nichilismo e prevalgono atteggiamenti egoistici o autodistruttivi. La salute vera non è la chimera della fitness a tutti i costi, ma è l’armonia di tutte le componenti della persona ed è correlata alla ricerca di un senso nella vita. Di questo processo di ricerca e di condivisione l’ufficio nazionale per la sanità della CEI vuole farsi promotore e collaboratore, ascoltando l’esperienza e le testimonianze degli altri e offrendo il suo impegno e il suo contributo per il bene comune.
 
Lucia Conti

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