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Martedì 23 MARZO 2021
Il suo nome è vaccino e non chiamatelo siero, per favore!
Gentile Direttore,
nell'assai funesta stagione della CoViD-19 che siamo costretti a vivere, con il pandemico virus SARS-CoV-2 che ha oramai spezzato oltre 2.700.000 vite nel mondo, 1.000.000 e più delle quali nella sola Europa, dove il nostro Paese già piange almeno 105.000 morti, non passa giorno senza che in almeno un TG nazionale e/o regionale si senta pronunciare la parola “siero” quale sinonimo di “vaccino”, il nostro miglior alleato nella lotta (anche) contro il famigerato beta-coronavirus responsabile della CoViD-19 (che si tratti del vaccino prodotto dalla Pfizer-BioNTech o da Moderna, così come di quello messo a punto dall'Università di Oxford e prodotto da Astra Zeneca).
Il termine “siero” indica, ove correttamente utilizzato in campo biomedico, la “componente liquida del sangue”, una volta che lo stesso sia stato privato del “fibrinogeno” e della cosiddetta “frazione corpuscolata”, rappresentata quest'ultima dai globuli rossi, dalle piastrine, dai granulociti, dai monociti e dai linfociti.
Ed è proprio nel siero ottenuto dai campioni di sangue prelevati ai nostri consimili che è possibile dimostrare la presenza di anticorpi nei confronti di SARS-CoV-2, sia che gli stessi siano stati prodotti a seguito di un'infezione naturale, così come a seguito della vaccinazione anti-CoViD-19.
Ne deriva che i sieri ottenuti da pazienti guariti o che si siano comunque immunizzati nei confronti del virus SARS-CoV-2, così come nei confronti di qualsivoglia agente patogeno (i cosiddetti “sieri iperimmuni”), possono trovare favorevole impiego nella terapia della CoViD-19 - in maniera largamente sovrapponibile a quanto avviene per le terapie a base di “anticorpi monoclonali” -, così come di altre patologie ad eziologia infettiva per le quali non siano ancora disponibili farmaci “ad hoc”.
Appellare un “vaccino” col nome di “siero”, il fluido biologico in cui è possibile documentare e quantificare, al contempo, la risposta immunitaria (anticorpale) elaborata dall'ospite conseguentemente alla vaccinazione, così come all'infezione, costituisce pertanto un grossolano errore.
E, purtroppo, non si tratta di una marchiana imprecisione che trova frequente riscontro nei soli TG nazionali e/o regionali, ma anche sulla carta stampata, così come in molti altri mezzi e strumenti di comunicazione rivolti al grande pubblico.
Questo “rituale” si perpetua di giorno in giorno e da più mesi a questa parte, nella pressoché totale indifferenza generale e nel segno di una preoccupante “deriva dell'informazione”, resa ancor più tale dalla colossale montagna di “fake news” che da oltre un anno fioriscono, in maniera quantomai rigogliosa, attorno alla “vicenda CoViD-19”.
Con il precipuo intento di definire tutto ciò, l'Organizzazione Mondiale della Sanità ha già da tempo coniato l'espressione “infodemia”, un oltremodo efficace neologismo che ci rimanda all'altra allarmante “epidemia” che si è sviluppata in seno alla “pandemia da CoViD-19”, quella delle “fake news” per l'appunto!
Giovanni Di Guardo
Già Professore di Patologia Generale e Fisiopatologia Veterinaria presso la Facoltà di Medicina Veterinaria dell'Università degli Studi di Teramo
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