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Sabato 13 FEBBRAIO 2021
Forum QS/4. La sanità e il Governo Draghi. Cosa aspettarsi? Intervista a Magi (Sumai) e Volpe (Card)

Per Magi è fondamentale “mettere in sicurezza i cittadini dal Covid e garantire immediatamente a tutti i malati cronici il servizio di assistenza che è stato interrotto o erogato ad intervalli con liste d’attesa sempre più lunghe”. Per Volpe “occorre invertire radicalmente la tendenza degli ultimi anni durante i quali il SSN è stato depauperato di risorse umane”.

Il Governo di Mario Draghi è pronto e oggi il neo presidente si recherà insieme ai suoi ministri al Quirinale per il giuramento nelle mani del Capo dello Stato.
 
Roberto Speranza è stato confermato alla guida della Salute ma per il resto tutto, al di là dei nomi, è cambiato, con un nuovo Governo e una maggioranza inedita che abbraccia quasi l'80% delle forze presenti in Parlamento.
 
Ma pensiamo si possa però dare per certo che la Sanità resterà uno dei temi forti anche del nuovo Esecutivo, a causa del perdurare dell’epidemia, della necessità di accelerare il piano vaccini e poi di attuare quelle riforme di sistema delle quali il nostro SSN  ha certamente bisogno come già rilevato in questi mesi da moltissimi osservatori. 
 
In attesa di conoscere il programma del nuovo governo, Quotidiano Sanità prosegue il suo Forum con alcuni stakeholder della sanità per definire quale dovrebbe essere l'agenda ideale nel campo della salute.
 
Dopo la prima puntata, la seconda puntata e la terza puntata a intervenire sono il segretario generale del Sumai-Assoprof, Antonio Magi e il presidente della Card, Gennaro Volpe.
 
Quali dovrebbero essere a suo avviso le priorità dell’agenda sanità del futuro Governo?
Magi. Prioritariamente due e di pari importanza. La prima mettere in sicurezza i cittadini dal Covid: quindi campagna vaccinale importante e rapida; implementazione di tutte le terapie anticovid che permettono di ridurre i decessi e i ricoveri in terapia intensiva.
La seconda garantire immediatamente a tutti i malati cronici il servizio di assistenza che, a causa della pandemia, è stato interrotto o erogato ad intervalli con liste d’attesa sempre più lunghe. Questo ha determinato un aumento dei decessi no-Covid, quindi un’ulteriore emergenza nell’emergenza.
A quanto detto aggiungo la risoluzione delle Liste d’attesa, lo sblocco del turn over con la riapertura delle assunzioni a tempo indeterminato per coprire tutte le figure professionali che sono andate in quiescenza.

Infine, ritengo necessario ripensare l’organizzazione del Ssn che non può più essere regolato per categorie separate. Oggi il sistema funziona nel suo insieme se tutte le componenti sono coordinate senza che una prevalga sull’altra. Mi spiego: se il territorio non funziona l’ospedale va in crisi e viceversa. Inoltre vorrei si capisse una volta per tutte che il Territorio non è più solo la medicina generale ma che è composto anche da pediatri di libera scelta e specialisti ambulatoriali. Oltre a psicologi che lavorano nelle strutture, da veterinari, dai biologi, dai chimici, dagli infermieri e da tutte quelle professionalità che insieme, in equipe, lavorano in funzione del malato. Compresi gli stessi malati e i parenti che si devono sentire parte attiva per una migliore aderenza alla terapia.
 
Volpe. Se ci riferiamo al contesto generale, direi senz’altro che al primo posto deve stare il lavoro e l’economia, entrambi premesse per il superamento della gravissima crisi economica che sta generando povertà e annullamento della possibilità di ridurre le disuguaglianze di salute, tema prioritario per CARD.
Quando parlo di lavoro da salvaguardare e di posti di lavoro da creare, penso certamente anche all’ambito della sanità pubblica. Occorre invertire radicalmente la tendenza degli ultimi anni durante i quali il SSN è stato depauperato di risorse umane nella dimensione quantitativa ed anche qualitativa.  Molto più dell’ospedale ne sta patendo le conseguenze il “territorio”. A parte la mancata crescita della quantità di risorse umane, centrali ed indispensabili per il potenziamento del territorio (asserito, quasi mai praticato) è mancata anche la dovuta attenzione ed azione per la formazione di operatori “giusti” per le attività territoriali. Assistiamo quindi oggi a Distretti e Dipartimenti del territorio (Prevenzione, Salute Mentale, Dipendenze, per citare i più noti) talmente impoveriti che non hanno avuto mezzi sufficienti per fronteggiare l’epidemia COVID. 

Poi penso che tra le priorità debbano esserci senz’altro interventi di sostegno alla scuola, all’istruzione, alla cultura: devono diventare azioni prioritarie. Ancora, verso le politiche per la casa e l’ambiente. Come si vede, sto parlando non solo di sanità ma globalmente dei determinanti sociali della salute, che sono strettamente pertinenti con il lavoro di Distretto.
 
Pensa che i progetti attualmente inseriti nella Mission 6 del Recovery Plan con un finanziamento complessivo di circa 20 miliardi siano quelli giusti o servirebbe altro? E pensa che le risorse siano sufficienti?
Magi. Gli obiettivi sono sicuramente condivisibili poiché si prevede un cambio di paradigma nell’assistenza sociosanitaria che deve essere basato sullo sviluppo di una rete territoriale che, come dice il documento, parte dalla “casa come primo luogo di cura”, passando per le “Case della comunità” fino alla rete ospedaliera. Per quanto riguarda i fondi stanziati credo che se venissero gestiti bene potrebbero essere sufficienti. Il problema ripeto è il rispetto del programma e la sua attuazione.
 
Volpe. Osservo che dei 20 miliardi 9 sono destinati esclusivamente all’ospedale (tecnologie ed altro) e solamente 7 esclusivamente al “Territorio”: perdura uno sbilanciamento che mai porterà ad un vero potenziamento del “Territorio”. Dalle informazioni disponibili, sembra che i nuovi fondi possano essere impiegati, sostanzialmente, per quelle che noi denominiamo “spese in conto capitale”, ovvero per investimenti. In realtà il fabbisogno primario per i Distretti, ed i servizi territoriali in generale, è per le spese correnti, innanzitutto di personale, come accennato sopra. E quindi il Piano in questo senso non risolverà il nodo principale della questione “potenziamento del territorio”.  Ad esempio, CARD da tempo sostiene che un vero rafforzamento della home care richiederebbe almeno il raddoppio del personale oggi disponibile (includendo tutte le professionalità necessarie per assistere con appropriatezza le persone, nella enorme varietà di bisogni espressi ed inespressi, dalla short alla long term care).

In ogni caso, benvenuti i nuovi fondi per investimenti.  Il territorio ne ha certamente bisogno, ma la carenza da colmare urgentemente è nelle spese correnti, innanzitutto per il personale.  Ma seguiamo la logica delle tabelle del Piano, ed immaginiamo che quindi i fondi, per investimenti e non per spese correnti, siano pari ad un miliardo per la home care e due per le cure intermedie; sette per il potenziamento dell’assistenza territoriale e quattro per le Case della Salute.  Bastano? Dipende. Se prendiamo come punto di riferimento operativo i circa 550 Distretti (territori-aree distrettuali del Paese), possiamo dedurre che per alcune voci le risorse sarebbero congrue ma per altre certamente limitate. Sottolineo che l’integrazione, uno dei punti di debolezza del nostro sistema frammentato, si fa con e tra le persone, molto meno con tecnologie e logistica, che certamente servono, ma non bastano. Ci piace immaginare comunque che nelle voci includenti la digitalizzazione ed informatizzazione dei servizi troveranno posto la cartella elettronica personale del paziente (cosa ben diversa dal FSE), unica premessa per innovare e potenziare la presa in carico e la continuità. Quindi, rispetto alla domanda, risponderei “in parte siamo nel giusto, ma molto altro e di molto diverso serve”. Le risorse non sono sufficienti. 
 
L’ho anticipato prima: I Distretti sono state le vittime più colpite dal definanziamento del SSN. 37 miliardi perduti negli ultimi dieci anni (circa) hanno impedito la crescita dei Distretti e della sanità territoriale in generale, spesso addirittura facendola retrocedere. Del resto, ci sono indicatori precisi nel monitoraggio dei Lea e, per noi che viviamo ogni giorno con i problemi dei cittadini, nei riscontri ben percepbili nella real-life.  Ripeto: se in era Covid vi è consenso unanime che “occorre potenziare il territorio”, spero che pari consenso esista sul fatto che se l’ospedale deve puntare ad essere sempre più tecnologico, ma il territorio potrà rafforzarsi solamente se disporrà di maggiori risorse umane, che potranno arricchirsi di tecnologie a basso costo e quindi a larga diffusione (includo tutti gli strumento di ICT, di digitalizzazione dei servizi, ecc).  Ci fa piacere vedere che nelle tabelle della Mission 6 ci siano 1,5 miliardi per allargare “le competenze tecnico-professionali, manageriali, ed altro, ma mi domando se è chiaro che occorre riconoscere che molte di queste devono essere specifiche per chi opera nei Distretti, elementi quindi totalmente diversi da quelli, ad esempio, propri del contesto ospedaliero.  Da tempo CARD sostiene che siamo in grave ritardo nella formazione universitaria e post-universitaria di professionisti della PrimayHEalth Care (che non è solo la medicina generale)

Tra le riforme auspicate c’è in primis quella della medicina e dell’assistenza del territorio di cui si parla da anni ma senza molto costrutto. Perché a suo avviso finora non si è riusciti a cambiare e innovare questo settore? Quali sono gli ostacoli che ne hanno impedito la riforma?
Magi. Tra gli ostacoli c’è sicuramente una scarsa attenzione del territorio nei confronti dell’ospedale Poi quello che dicevo prima: il territorio non è solo la medicina generale. Aver puntato essenzialmente sulla medicina generale lasciando tutto il resto ha creato condizioni di difficoltà. Il territorio è come l’ospedale, ci sono varie figure che devono lavorare in equipe.

Se noi continuiamo a puntare prevalentemente sui medici di medicina generale il territorio non verrà mai lanciato. Risulterà sempre incompleto poiché mancante di altre parti fondamentali al suo funzionamento ovvero la specialistica ambulatoriale interna e la pediatria di libera scelta. Infine è necessaria una vera simbiosi tra ospedale e territorio. Quest’ultimo deve garantire l’accesso alla struttura solo quando è necessario, quando poi il paziente viene dimesso deve trovare sul territorio, esattamente come accade in ospedale, un’equipe di specialisti che lo seguono evitandogli un nuovo ricovero.
 
Volpe. Con tutti i limiti della schematicità, direi che i punti di debolezza li abbiamo visti nella frammentazione della programmazione regionale, poi delle architetture organizzative, degli equilibri tra ospedale-territorio. Manca una visione unitaria dei servizi di cure primarie nel Paese. Più in generale, troppo vistose sono le differenze interregionali si osservano nell’uso delle risorse, negli stili di conduzione e management aziendale, negli approcci alla adempienza dei Lea; il tutto conduce al risultato finale delle disuguaglianze di salute.  Il DL 229, legge dello Stato, sembrava dovesse creare ineludibili premesse perché i Distretti divenissero in tutto il Paese strutture forti, sempre presenti nelle Regioni, in cima alle risorse e strumenti delle Aziende Sanitarie; per rendere uniformi gli obiettivi di creare salute, oltre che buona sanità, non solo pareggi di bilancio, per i quali- tra l’altro - le cure primarie possono dare forti vantaggi.  Invece i Distretti oggi sono addirittura assenti in molte Regioni. Non esistono proprio.
 
Poi probabilmente in molte Regioni sono mancate le forze culturali che potevano imprimere il cambiamento, che oggi abbiamo capito può svilupparsi solamente nell’arco di molti anni. Alcune prime mancanze che mi vengono in mente sono la insufficiente o mancata capacità di condurre degli health need assessment  locali per mettere a fuoco i bisogni di salute delle Comunità locali; di creare reti di cure primarie in cui la medicina generale e quella convenzionata fossero guidate a sentire il bisogno, non il dovere, di porsi all’interno dei Distretti per transitare da una medicina individuale a quella in team multiprofessionale, da medicina di attesa a quella di iniziativa-proattiva; per partecipare come forza trainante all’integrazione tra cure primarie e specialistiche (secondarie, per seguire i termini anglosassoni), per la continuità terapeutica ed assistenziale; per incrementare l’appropriatezza prescrittiva; per dare concretezza ai PDTA. Ma soprattutto per dare valore ai PAI. Ed in questo senso, le questioni della cronicità e della non autosufficienza non sono state mai poste una accanto all’altra, riconoscendo affinità e differenze, per realizzare sistemi di home care forti, validi, rassicuranti, alternativi al ricovero in ospedale ed in casa di riposo per questi milioni (sic) di persone-pazienti.
 
Poco abbiamo visto nella realizzazione di forti sistemi di governo della domanda e dell’offerta. CARD non crede di essere partigiana nel dire che tutto questo doveva e deve essere di pertinenza del Distretto, dei suoi mandati istituzionali e vocazionali, troppo diffusamente disattesi. Temo di ripetermi: certamente le insufficienti risorse. Il paradigma del 55% dei bilanci sia per “territorio”, il 45% per l’“ospedale” credo sia molto più teorico che reale. Il territorio è sempre rimasto “povero”. La realtà operativa mostra che se tutto il sistema-sanità ha sofferto e sta soffrendo l’impoverimento progressivo, è il territorio e certamente i Distretti che hanno patito di più. Poi sicuramente è esistita l’incapacità di tradurre in azione piani e programmi-macro anche pregevoli. Dobbiamo riconoscere che interessi di parte professionale sono stati un freno al cambiamento. Negli ultimi anni si è resa palese nei Distretti e nei servizi territoriali l’assenza dei supporti informatico-informativi e di indicatori che misurassero non solo le performance di input ed output, ma gli outcomes.  Penso che i Distretti debbano riconoscere che manca un middle-management, che non abbiamo saputo creare ricambio nelle Direzioni distrettuali, nelle Strutture Complesse inserite nei Distretti.  Infine, la debolezza delle cure domiciliari e di quelle intermedie continuano a rendere poco visibile (e tangibile) il Distretto, che continua ad essere identificato in primo luogo come edificio, anziché come struttura di regia dei servizi territoriali nel loro insieme.
 
 
Un tema al centro di molte polemiche in quest’anno di pandemia ma anche prima, è senz’altro quello dell’autonomia regionale in materia sanitaria, Pensa che l’occasione di un Governo con una potenziale maggioranza parlamentare attorno all’80% possa prendere in mano la questione e riscrivere il Titolo V della Costituzione rivedendo l’attuale equilibrio dei poteri in materia di tutela della Salute? O, al contrario, ritiene che la “differenza” regionale nelle modalità di organizzazione e gestione della sanità vada salvaguardata?
Magi. Si, questa potrebbe rappresentare un’occasione unica per sedersi al tavolo e rivedere il Titolo V in genere. Non per ridurre banalmente il potere delle regioni ma per rivederne gli interessi e capire quali sono quelli da centralizzare per dare soluzioni univoche così da non creare diseguaglianze. Sia chiaro che un’azione centrale deve essere mantenuta per dare uniformità di risposte attraverso il Ssn.
Quest’ampia maggioranza parlamentare, ammesso che duri, è un’occasione ottima per rivedere il sistema fermo restando che le differenze tra regioni ci sono e vanno mantenute. Però come abbiamo un sistema di sicurezza che attraverso le forze dell’ordine è organizzato in maniera uniforme a carattere nazionale così la sanità deve offrire risposte univoche sul territorio. A volte invece oltre le regioni abbiamo differenza anche tra le stesse Asl e questo genera ulteriori diseguaglianze sul territorio.
 
Volpe. Il tema è delicato e non può essere liquidato in poche battute. Certamente sarebbe molto auspicabile un ritorno ad un SSN di impronta nazionale-uniforme, ma credo che ciò sia impossibile. L’Italia è ormai un Paese regionalizzato, irreversibilmente, del resto in accordo con la nostra Costituzione. CARD certamente è convinta che più chiari, incisivi, vincolanti documenti-accordi sottoscritti in Conferenza Stato Regioni potrebbero risolvere molte difficoltà. Una di queste è certamente l’interpretazione variegata, cui va posto rimedio, di cosa sono e cosa fanno i Distretti. Credo che su questo dovremo tutti adoperarci, anche perché chi crede, come noi di CARD, in un servizio sanitario pubblico, contestualmente crede che uno dei suoi valori fondanti e rafforzativi sia la partecipazione. Le Società Scientifiche come CARD credo che potranno apportare buoni contributi per il superamento delle difformità e differenze interregionali.  Un altro tema da affrontare sarà la ripartizione dei fondi del FSN, perché i vincoli di destinazione territoriali siano omogenei ed equi; perché siano radicalmente rivisti i meccanismi compensativi e totalmente abolito ogni spirito concorrenziale (opportunistico).
 
Infine, penso di non essere l’unico a pensare che una ri-centralizzazione della sanità deve accompagnarsi anche ad un potenziamento del Ministero della Salute, con contestuale disponibilità delle Regioni ad una interlocuzione che tenda più a creare solidarietà ed uniformità, nel senso di far elevare chi è più debole. In CARD da anni viviamo tra le differenze regionali, cercando di capire chi “è più avanti” e come si possa fare per “imitare” chi fa meglio. Se tutti noi ci ponessimo nell’ottica di ridurre le disuguaglianze di salute, in fondo il primo degli obiettivi di un SSN, le differenze regionali diverrebbero più stimolo a raggiungere chi fa meglio, che occasione di rammaricarsi o lamentarsi quando ci si accorge di essere “più indietro”. Confronto, dialogo, cooperazione, scambio ed interrelazione, reciprocità: questi i terreni su cui intraprendere nuovi cammini. L’epidemia è stata senza confini; la malattia ha colpito dappertutto, potrei dire “in modo democratico”.  Proviamo ad imparare a fare dappertutto degli Equity audit, in ogni territorio e, naturalmente, ad avviare azioni coerenti per l’equità.  In questo modo credo che molte dei dilemmi “centro o periferia” scomparirebbero.
 
Tra le prime questioni sul tavolo del nuovo Governo ci sarà certamente il Piano vaccini anti Covid. Cosa servirebbe secondo lei per accelerare le vaccinazioni?
Magi. Innanzitutto i vaccini, può sembrare una battuta ma non lo è. Poi sarebbe utile coinvolgere tutti i professionisti che possono vaccinare. La mia idea è, sentite le organizzazioni sindacali che rappresentano molti professionisti presenti nel Ssn, ampliamo l’offerta vaccinale coinvolgendo tutta la medicina generale, la specialistica ambulatoriale, gli ospedalieri, i liberi professionisti tramite gli ordini professionali.
Faccio un esempio: il SUMAI Assoprof ha circa 15mila iscritti, se ogni iscritto facesse una vaccinazione al giorno ecco che avremmo 15 mila vaccinati, se ampliassimo il ragionamento a tutti gli iscritti dei vari sindacati medici avremmo una campagna vaccinale davvero importante. Prima di tutto però dobbiamo avere la certezza dei vaccini, altrimenti ogni piano resta pura teoria…
 
Volpe. Consapevole delle difficoltà di conservazione dei vaccini tipo Pfizer-Biontech in sedi centralizzate per gli intuibili motivi, non avrei dubbi a sostenere che occorre realizzare una grande capillarità di sedi vaccinali. Ancora una volta, potremmo dire che deve essere un’operazione territoriale. Distretti e DIP, se rafforzati, possono trovare alleanze e risorse nei propri territori per dare un’offerta capillare di 14 ore/die, 7/7, con ineludibile possibilità di meccanismi pro-attivi in target prioritari.  Credo che sia importante rendere ben tangibile a chi vive nelle fasce di priorità che è il SSN che deve andare incontro a loro, non solo viceversa. Penso a quanti soggetti fragili corrono oggi il rischio, da evitare, di arrivare con ritardo o mai alla vaccinazione. Ecco un altro fronte immediato di disuguaglianze di salute da affrontare. Dove, se non con servizi distrettuali-territoriali?
 
 
Altra questione, riguarda l’azione di contrasto all’epidemia. Secondo lei il sistema a zone colorate funziona o va cambiato?
Magi. Si, ha funzionato anche se non sempre in maniera omogenea. Il problema è verificare che il colore corrisponde alla realtà epidemiologica. Se ci fosse piena corrispondenza sarebbe un grosso ausilio, sia per non chiudere le attività lavorative, sia per tutelare la salute.
Ribadisco l’importante è che i colori non subiscano pressioni a livello politico e che i dati vengano presi in maniera omogenea da tutte le parti.
 
In sostanza vorrei concludere ribadendo che questo governo è la dimostrazione che le competenze contano. Sempre e in ogni campo. Il Presidente incaricato Draghi è fuor di dubbio una persona molto competente e per questo chiamato a guidare il Paese in un momento di grande difficoltà. Vorrei che si tornasse a valorizzare le competenze in ogni ambito del nostro vivere civile.

Come sostiene il prof. Tom Nichols autore di un saggio sulla conoscenza e l’importanza delle competenze“Una società moderna non può funzionare senza una divisione sociale del lavoro e senza affidarsi a esperti, professionisti e intellettuali. Nessuno è un esperto di ogni cosa. Se non ammettiamo i limiti delle nostre conoscenze e non ci fidiamo delle competenze degli altri, un paese non può funzionare”.
 
Volpe. Sicuramente ci sono problemi, è evidente.  Va cambiato. È difficile, ma possiamo farlo. I lockdown devono avvenire in modo “chirurgico”, dove si individuano cluster, focolai identificati grazie a giuste metodologie di ricerca e attuazione.  Il sistema va cambiato anche in base alla considerazione attenta degli effetti collaterali delle misure restrittive, che devono essere - ripeto - molte precise e contenute in modo appropriato. Ad un anno di distanza non possiamo non tenere conto che molti determinanti della salute pesano e peseranno ancor più dei contagi e della malattia da Coronavirus: povertà crescente e drammatica; ridotte occasioni di interazione sociale; rinuncia o impossibilità alle cure (oncologiche, cardiovascolari); disagio psichico; aggravamento delle patologie croniche e della comorbidità; uso di psicofarmaci o sostanze. Come non tener conto anche di questi indicatori quando si deve decidere il colore che si associa alle misure restrittive? La salute è equilibrio.
 
Dobbiamo raggiungere diversi punti equilibrio. La dimensione regionale è troppo vasta, ormai. Occorre circoscrivere anche per rafforzare in modo specifico, capillare l’educazione all’uso di misure preventive-precauzionali nella popolazione, penso più ai giovani e giovani-adulti.  Se il contagio è intra-familiare, i tracciamenti devono essere coerenti. Infine, se il colore è stabilito in base alla preoccupazione sugli indici di occupazione di reparti ospedalieri e di rianimazione, perché non dobbiamo preoccuparci altrettanto di quanti NON sono seguiti adeguatamente a casa, curati bene, a causa di carenze nei servizi di home care, per cui la malattia peggiora, si aggrava e genera sofferenza, talora morte, con contestuale affollamento dell’ospedale. Contenere e mitigare i contagi e la diffusione del virus è doveroso, per molti versi è possibile e certamente migliorare. Ma puntiamo anche a rafforzare nel territorio la terza “T” della triade “testare-tracciare-trattare”. Oggi più che mai, da quando abbiamo capito quali farmaci possono conferire maggiore vantaggio anche nell’uso extra-ospedaliero, dobbiamo attivarci: in primis nei Distretti, per offrire a molte più persone COVID+ , a casa, cure adeguate.  Apriamo di più alla home care, non solo chiudiamoci di più in casa.

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