quotidianosanità.it

stampa | chiudi


Lunedì 19 OTTOBRE 2020
Covid. Le polemiche sempre più inutili sul “chi fa cosa”

Occorre dire le cose come stanno, senza promesse mirabolanti o fuorvianti, per cui al Governo sono tutti cretini e nelle regioni c’è la crema della classe dirigente. Diamoci un metodo, dei tempi e degli obiettivi, chiamiamo a raccolta tutte le nostre migliori energie e lavoriamo a testa bassa per noi, i nostri figli, il nostro paese

La festa improvvisata a Liverpool, la sera prima della decisione del premier Johnson di avviare il lockdown, ha visto una grande moltitudine di persone, radunarsi senza mascherine e rispetto del distanziamento di sicurezza. E’ stato sorprendente da guardare, non c’era preoccupazione per il contagio, tantomeno per le persone che muoiono per questa malattia. Temo che ci stiamo dirigendo verso un disastro.
 
Vedendo le folle che si comportano in questo modo, ti domandi dove ci sta portando questo individualismo esasperato, che cosa si cela dietro l’ideologia della “libertà prima di tutto e faccio come mi pare ad ogni costo”.
 
Tutta la discussione in Italia sulle nostre misure, per controllare l’espandersi del virus e dei contagi, all’impronta dell’ironia, della superficialità, del pericolo dei DPCM per la nostra libertà e al tempo stesso la pazienza di Giobbe dei cittadini, alle lunghe file ai drive test, alle telefonate che durano una intera giornata agli studi dei medici di famiglia, i cui telefoni sono perennemente occupati, vuoi perché si somma la paura di Covid con le richieste per il vaccino antinfluenzale, o di ricette per farmaci con quelle di analisi per pato-logie pregresse o croniche.
 
Sono davvero sconcertata perché un po’ di sano concetto dell’organizzazione e dell’efficienza del nostro sistema sanitario, di libertà e responsabilità, di unità di intenti di una comunità che affronta una virulenza insidiosa e subdola, per sconfiggere un unico nemico, stenta appunto a farsi sistema. Il personale sanitario è già al colmo della preoccupazione e l’idea di dover far fronte come in marzo e aprile all’epidemia, non avendo ricevuto grossi aiuti, lo fa precipitare in una sindrome da epi-demia, umanamente comprensibile.
 
I nostri eroi possono soccombere, perché le altre patologie premono, l’epidemia avanza, i ricoveri pure e arriva il momento a cui non si sa a chi dare i resti.
 
Ovviamente, sconforto e indignazione sono piena-mente comprensibili.
In queste situazioni, l’amarezza ti porta a pensare male dell’intero genere umano, ma la ragione ti fa ca-pire che tale atteggiamento presuntuoso si deve a una reazione consolatoria di tipo narcisistico, che le-nisce il nostro fallimento, facendoci sentire speciali rispetto alla massa.
 
Del resto, la storia è ricca di tanti esempi di abnegazione e sacrificio (non entro nel merito delle cause per cui sono stati spesi) da parte dell’homo sapiens, e di identici ai festaioli di Liverpool, a tutti gli indifferenti alle norme anti-Covid o ai negazionisti perfino del collasso ambientale. Quindi, senza voler addurre alcun giustificazionismo o sminuire la gravità di certi comportamenti, mi sento di proporre una più attenta riflessione.
 
È come se la pandemia stia portando alla luce pericolose criticità del nostro malessere sociale. Nessuna società umana può creare un saldo vincolo tra i suoi membri, basandosi esclusivamente sulla sua riproduzione e sussistenza: occorre trovare un senso in grado di tracciare un orizzonte più vasto, che pur in presenza di forti squilibri interni, sia capace di indicare una via che faccia intravedere il superamento delle pericolose criticità che in presenza della pandemia permangono e si acuiscono .
 
Sicuramente, siamo immersi in una habitat sociale che attraverso l’elargizione di comfort e la ricompensa edonistica, di cui gli spensierati e ora tanto biasimati frequentatori della movida hanno sempre rap-presentato i cittadini ideali.
 
Quale autorevolezza possono vantare i governanti di una società basata sulla promessa del produci e con-suma senza limiti, possono ora pretendere sacrifici cercando oltretutto di fare leva sul moralismo spicciolo?
 
Insomma, ho l’impressione che si sia rotto il patto sociale governanti-governati che ha caratterizzato l’ultimo secolo, almeno per quanto riguarda l’Occidente. Ora nel bel mezzo della ripresa della pandemia occorre ritrovare le motivazioni per sopportare le nuove restrizioni, insieme ai probabili succes-sivi ‘giri di vite’. Come si può fare? Appellarsi all’incolumità individuale: vuoi evitare il rischio di una polmonite interstiziale? Pensi sia più scomodo indos-sare una mascherina o essere intubato? Preferisci vivere o morire? L’istinto di conservazione e sopravvi-venza ovviamente gioca un ruolo importante, ma non è in grado di costruire significato a livello sociale.
 
Promettere sacrifici temporanei per poi ‘tornare a correre’ e riconquistare il Bengodi perduto.
Ma è da ben prima del Covid, almeno dalla fine degli anni Ottanta, che fasce sempre maggiori di popolazione hanno ascoltato tante promesse, che non arrivano mai, finendo così per perdere fiducia.
L’apologia del neoliberismo ha prodotto prosperità solo nella mente dei suoi più fanatici apologeti. Dalla crisi del 2008 la gente se n’è accorta e si è fatta più diffidente ogniqualvolta deve barattare un bene, un diritto o una tutela per un ipotetico futuro rose e fiori.
 
Non ci rimane allora che far leva su il proprio impe-gno a rispettare le regole, facendo riferimento a una cultura profondamente diversa dall’ideologia sociale dominante, ponendo così questa scelta all’interno di una logica di opposizione a quel si-stema schizofrenico, a quel malessere sociale che il camaleontismo populista d’oltreoceano, alla Trump, o quello nostrano, sovranista d’accatto, propongono passando, senza soluzione di continuità, dal promettere Disneyland ad assumere atteggiamenti alla Robespierre.
 
L’accettazione di sacrifici che vadano a inficiare pe-santemente la vita sociale e affettiva sarebbe forse più semplice se, invece di proseguire con uno stato di emergenza a oltranza, si fissassero dei paletti tempo-rali. La popolazione va resa consapevole che si tratta di una misura limitata con un riferimento esplicito: lavorare tenacemente ad una terapia efficace e con-temporaneamente ad un vaccino sicuro. Vivremmo in maniera molto diversa la sopportazione delle regole del non contagio e perfino quelle del distanziamento fisico e affettivo. Ma bisogna dire la verità e fare chiarezza anche in campo scientifico. Ed anche qui il mio stupore e disincanto in questi giorni è arrivato alle stelle.
 
Sta circolando in Rete la cosiddetta Dichiarazione di Great Barrington, presa di posizione di epidemiologi delle malattie infettive e di scienziati della salute pubblica in favore di un sistema di protezione focaliz-zato, con lo scopo di ridurre al minimo la mortalità e i danni sociali fino a raggiungere l’immunità di gregge.
 
Un’analisi dell’evoluzione della malattia, delle mag-giori conoscenze sul virus, rispetto allo scoppio della pandemia, sull’aumento dei contagi, scoperti grazie a un maggiore numero di test, all’incremento proporzionale di ricoveri e di ingressi nelle terapie intensive e dei decessi, fa affermare a questi eminenti medici e scienziati americani, che va attuata una protezione mirata sulle fasce più a rischio e per il resto fare in modo che la popolazione raggiunga l’immunità di gregge.
 
Che l’immunità di gregge fosse balenata alla mente di governanti poi costretti a cambiare la pro-pria agenda è ormai storia: innanzitutto pensiamo al premier britannico Boris Johnson che a marzo insie-me al proprio entourage tecnico-scientifico aveva dapprima ipotizzato tale misura e conseguentemente era stato costretto a ritirare tale strategia delle lacrime, perché la curva dei contagi aumentava, le terapie intensive negli ospedali scoppiavano ed il nu-mero dei decessi incominciava a preoccupare. Poi si è ammalato lui finendo in terapia intensiva. Poi il fia-sco della Svezia. Poi la pandemia, il grande lockdown e la ricerca di un vaccino.
 
Ma quasi come un epife-nomeno che ritorna ad intervalli regolari, ancora una volta si ritorna a parlare di immunità di gregge, quan-do nel nord del mondo l’autunno incalza con le piogge ed i primi freddi. Se non ci fosse da piangere mi pare di assistere alle comiche tra scienza e politica.
 
Nel bel mezzo di una Casa Bianca infestata – come riporta il New York Times del 15 ottobre – sarebbero state ascoltate le dichiarazioni di personalità scienti-fiche, per le quali “le autorità dovrebbero consentire al Coronavirus di diffondersi tra i giovani sani proteg-gendo allo stesso tempo gli anziani e le persone vulnerabili”, ovvero la promozione di una diffusione del contagio organizzata, piuttosto che lavorare pancia a terra per la ricerca di una valida terapia e per la la ricerca di un vaccino efficace e sicuro. Per intenderci terapi anche di anticorpi monoclonali validati seriamente sul piano scientifico e fruibili da tutti, non solo dai “Capi” o dai “potenti”.
 
E ancora, secondo quanto riportano due fonti rimaste anonime ai cronisti del New York Times, starebbe emergendo come punto di riferimento generale il testo della petizione dello scorso 4 ottobre “Great Barrington Declaration”, cofirmato da una sfilza di specialisti in medicina e salute pubblica, molto affini al Presidente Trump e alle sue capacità taumaturgiche.
 
I primi estensori Dott. Martin Kulldorff, professore di medicina all’Università di Harvard, biostatistico ed epidemiologo con esperienza nell’individuazione e nel monitoraggio delle epidemie di malattie infettive e nella valutazione della sicurezza dei vaccini; Dott. Sunetra Gupta, professore all’Università di Oxford, epidemiologo con esperienza in immunologia, sviluppo di vaccini e modellazione matematica delle malattie infettive; Dott. Jay Bhattacharya, professore alla Stanford University Medical School, medico, epidemiologo, economista sanitario ed esperto di politica sanitaria pubblica, con particolare attenzione alle malattie infettive e alle popolazioni vulnerabili. Segue un elenco di circa 80 adesioni provenienti da diversi paesi.
 
“In qualità di epidemiologi di malattie infettive e scienziati della salute pubblica – è il testo del docu-mento – nutriamo gravi preoccupazioni per gli impatti dannosi sulla salute fisica e mentale delle politiche prevalenti nella gestione del Covid-19 e raccomandiamo un approccio che chiamiamo protezione mirata”.
 
Secondo gli scienziati firmatari, “man mano che l’immunità cresce nella popolazione, il rischio d’infezione per tutti, compresi i più vulnerabili diminuisce. Sappiamo che tutte le popolazioni alla fine raggiungeranno l’immunità di gregge e che questo può essere aiutato da un vaccino. Il nostro obiettivo dovrebbe quindi essere quello di ridurre al minimo la mortalità e il danno sociale fino a raggiungere l’immunità della mandria”.
 
Ma il testo è pieno di affermazioni quali, “In effetti, per i bambini, Covid-19 è meno pericoloso di molti altri problemi, compresa l’influenza”. Oppure “Coloro che non sono vulnerabili dovrebbero essere immediatamente autorizzati a riprendere la propria vita normalmente”. Perché, secondo tale frangia di epidemiologi firmatari, “coloro che sono ad un minimo rischio di vita, vivendo normalmente, costruiranno l’immunità al virus attraverso l’infezione naturale. E a beneficiarne saranno anche e soprattutto i soggetti più vulnerabili”.
 
Di fronte a ciò è partito un altrettanto autorevole documento il John Snow Memorandum. Un’altra prospettiva reca le perplessità ed i timori di altri scienziati, per i quali ancora la popolazione mondiale vul-nerabile o fermamente in forze, sarebbe comunque suscettibile di conseguenze non appena contratto il virus.
C’è un mondo di scienziati, esperti, preoccupato sulle conseguenze difficilmente prevedibili ed organizzabili dell’opzione chiamata “immunità di gregge”.
 
Ed in questa narrazione degli eventi che entra a pieno titolo il John Snow Memorandum, di cui Qs ha parlato giorni fa, quasi un omaggio al fondatore della epidemiologia moderna.
Il Memorandum – che ha avuto dignità di pubblicazione sull’eminente rivista scientifica The Lancet – raccogliendo le firme di ricercatori internazionali con specializzazioni che spaziano dalla salute pubblica al-la epidemiologia, e ancora dalla pediatria alla virolo-gia, invitando nuovi firmatari diventa vettore di un messaggio opposto, “basato sull’evidenza del Covid-19”.
 
“La sua elevata infettività, combinata con la suscet-tibilità delle popolazioni non esposte ad un nuovo virus – è il parere dei firmatari – crea le condizioni per una rapida diffusione nella comunità”. Poi sul tasso di mortalità “che è molte volte superiore a quello dell’influenza stagionale e l’infezione può portare a malattie persistenti, anche in persone giovani e precedentemente sane”.
 
Secondo gli scienziati questo rinnovato interesse per “l’immunità di gregge” a cavallo con la seconda ondata che si riassume in un’infezione incontrollata tra la popolazione a basso rischio rappresenta “un errore non supportato da prove scientifiche”.
 
La conclusione del documento è quasi scontata: rispettare le regole e sostenere con l’adozione dei dispositivi di sicurezza il contrasto alla diffusione del virus.
 
Responsabilità individuale e assunzione di responsabilità collettiva e politica sugli strumenti presenti e futuri in attesa di terapie efficaci per tutti e di un vaccino sicuro che ci immunizzi mi paiono le linee scientifiche e politiche europee e del nostro paese, che si apprestano a fronteggiare questo picco infettivo che avanza. Che cosa servirebbe per qui e adesso? Che evitassimo inutili ancorchè pretestuose polemiche nella comunicazione quotidiana sulla regola del “sei”, che se ci riflettiamo un momento e ragioniamo con un po’ di buon senso, sono certa che ne comprendiamo la ratio.
 
Che se dobbiamo affrontare la formazione a distanza e da remoto per gli studenti delle superiori e dell’università, non è una tragedia, purchè ci si doti di strumenti e piattaforme efficienti e funzionali, in grado di fare e seguire lezioni, avere tutoraggi in tempo reale, colloquiare e scambiarsi esperienze didattiche capaci di essere formative e di accrescere conoscenza. Che dobbiamo finirla di giocare al chi fa cosa, favorendo l’inefficienza e la disorganizzazione.
 
Occorre dire le cose come stanno, senza promesse mirabolanti o fuorvianti, per cui al Governo sono tutti cretini e nelle regioni c’è la crema della classe dirigente. Vorrei capire se è stato così difficile immaginare che con il rientro a scuola e al lavoro, fatto salvo lo smart working, con i 400 milioni di euro già stanziati da tempo e con i 350 milioni, che arrivano ora con questo DPCM, non si possano stilare contratti con i privati per autobus di linea e navette, per trasportare e mettere controllori alla salita e discesa, che evitino assembramenti e facciano rispettare capienze e distanze di sicurezza. Che le terapie intensive vanno approntate e subito. Che i medici di medicina generale e i pediatri di libera scelta dicano apertamente che cosa vogliono, per fare i tamponi veloci e i vaccini antinfluenzali, ora e subito perché le risorse economiche ci sono e se non dovessero ba-stare si prenderanno quelle del MES, che deve finire di essere un tabù divisivo, ma un tesoretto di ultima istanza, al quale attingere perché il 2021 sarà lungo e complesso da organizzare e riorganizzare, sia sul ver-sante sanitario che dell’economia.
 
Diamoci un metodo, dei tempi e degli obiettivi, chiamiamo a raccolta tutte le nostre migliori energie e lavoriamo a testa bassa per noi, i nostri figli, il nostro paese. Ce la dobbiamo fare.
 
Grazia Labate
Ricercatrice in economia sanitaria già sottosegretaria alla sanità
 
 
 
 

 

© RIPRODUZIONE RISERVATA