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Giovedì 24 SETTEMBRE 2020
Il dibattito sull’Ebm. Per il medico deve essere base di partenza per avviare la cura non un perimetro invalicabile

Proseguiamo il dibattito sollevato dall'ultimo libro di Cavicchi sulle evidenze scientifiche in medicina con Stefano Mantegazza. “Come suggerisce la seconda lettera di Ebm, le evidenze dovrebbero in effetti porsi alla base di ogni prassi scientificamente valida nel senso stretto di necessaria «base di partenza» o anche di «basamento» su cui innestare una strategia orientata al risultato migliore. Non dovrebbero invece porsi né come meta né come perimetro invalicabile di quella prassi”

In un film cult di alcuni fa si raccontava la vicenda di un soldato americano che si risveglia nell’anno 2505 e, per prima cosa, si reca in ospedale credendosi in preda alle allucinazioni. Lì un’addetta all’accettazione dallo sguardo inebetito ha il compito di toccare su una tastiera l’icona che meglio corrisponda alla descrizione dei sintomi: ferita da arma da fuoco, gravidanza, fulminazione, frattura, ecc. Non riuscendo a trovare un tasto che descriva il problema del protagonista, preme un punto interrogativo senza indagare oltre. Una voce elettronica invita quindi il paziente a raggiungere una macchina dove un infermiere ugualmente stralunato e confusionario gli applica alcune sonde sul corpo. Il calcolatore illuminerà l’icona associata alla diagnosi: epatite, pidocchi, gotta, tumore, sconosciuto. Seguirà un breve colloquio con un improbabile medico che, senza visitarlo e senza prestare ascolto al suo racconto, si limiterà a riferirgli i contenuti della cartella clinica: «qui dice che sei ritardato» (più avanti, un test attitudinale ugualmente automatizzato stabilirà invece… che è l’uomo più intelligente del mondo).
 
Nel futuro immaginato dagli autori di Idiocracy (letteralmente, «il governo degli idioti») le macchine hanno sostituito in tutto il lavoro intellettuale degli esseri umani. Ma le cose non vanno bene, anzi. L’umanità è regredita a uno stato semi-bestiale, le infrastrutture vanno a pezzi, la giustizia si è ridotta a unreality show e, se non fosse per l’intervento del protagonista venuto dal passato, anche i campi smetterebbero di dare raccolti. Alcuni anni prima una multinazionale ha infatti preso il controllo degli enti regolatori per far sì che l’acqua fosse sostituita in ogni suo utilizzo dalla bevanda analcolica di cui è produttrice, finendo così per avvelenare i terreni e causando una crisi alimentare.
 
Questi scenari distopici mi si affacciavano alla mente mentre leggevo l’ultimo libro di Ivan Cavicchi, L'evidenza scientifica in medicina. L'uso pragmatico della verità, che raccoglie e ordina le riflessioni più che decennali dell’autore sulla Evidence Based Medicine (Ebm). In medicina, l’Ebm è una corrente di pensiero che prescrive ai sanitari di attenersi a standard di diagnosi e intervento ricavati dall’analisi dei risultati della letteratura scientifica, secondo criteri formalizzati e replicabili. Cavicchi non usa naturalmente i toni catastrofici e caricaturali della fiction, ma conduce una minuziosa e pacata analisi filosofica del fenomeno, con il merito non comune di collocarlo nel più ampio contesto della storia delle idee.
 
Non sono un medico né un teorico della medicina, che ho conosciuto solo nel ruolo di paziente e di scrittore, essendomi occupato delle implicazioni ideali delle politiche sanitarie più recenti. Ho accolto di buon grado l’invito rivoltomi da Ivan Cavicchi, di commentare il suo ultimo lavoro, perché l’ampiezza della ricognizione che ha svolto getta luce non solo sui destini di un settore specialistico, ancorché fondamentale per la salute e la vita di tutti, ma offre anche un modello interpretativo per comprendere alcuni snodi fondamentali del pensiero moderno e porvi rimedio.
 
Nel testo, l’autore non nega affatto l’importanza delle evidenze in medicina, senza le quali sarebbe anzi «impensabile avere una medicina scientifica» e per il medico «sarebbe impossibile fare il suo mestiere». E, aggiungo io, non si potrebbe d’altronde neanche insegnarglielo. La sistematizzazione dei risultati pregressi è la condizione inderogabile per progredire – o anche solo per non regredire – in ogni disciplina.
 
Ciò che Cavicchi deplora è invece la tentazione o in certi casi l’intenzione di conferire all’evidenza uno statuto epistemico privilegiato al punto di trasformarla da riferimento indispensabile alla «navigazione» in norma cogente: di farne una «morale», un «dovere», un «comando» e una «giustizia» da anteporre a ogni altra istanza decisionale. Sarebbe impossibile affrontare qui tutti gli argomenti messi in campo nel libro per ridiscutere questo preteso primato, sicché mi soffermerò solo sui temi che mi sono più cari.
 
La critica centrale si indirizza al tentativo da parte di alcuni fautori dell’Ebm di fare dell’evidenza una sorta di metafisica in grado di descrivere infallibilmente – o comunque con il minor grado possibile di fallibilità – ogni realtà successiva a cui possa analogicamente applicarsi. E che pertanto quelle descrizioni debbano convenzionalmente trasformarsi nella sola realtà possibile. «Il punto – scrive Cavicchi, – è che per il medico, fissata l’evidenza da usare, ciò che era solo probabile, persuasivo, verisimile, diventa, al momento dell’uso, magicamente certezza, nella speranza che funzioni». Sono però molte le criticità sollevate da un’adesione dogmatica a questa idea. Per parafrasare molto in breve le obiezioni sollevate nel libro, la numerificazione della medicina (o di qualsiasi altra prassi o realtà) porta con sé almeno tre ordini di problemi: di misura, di misurazione e di misurabilità.
 
Nel primo caso (misura), il medico non si confronta mai con un campione statistico di malati, ma con un singolo malato la cui singolarità può collocarsi in qualsiasi punto della gamma statistica che sostanzia l’evidenza, anche al più estremo. Può, ad esempio, ricadere nel 5% di casi resistenti a un trattamento con un’efficacia provata del 95% e, al contempo, trarre potenzialmente vantaggio da un trattamento poco «evidente» perché caratterizzato da bassi o bassissimi tassi di successo.
 
Per definizione matematica, il malato singolo nel suo contesto singolo rappresenta il 100% dei casi, è perciò «necessario considerare la singolarità non più come una condizione di eccezione, ma come una condizione ordinaria». Sacrificando le «eccezioni», la scelta vincolante del trattamento secondo tende a includere istanze estranee al malato, quali ad esempio l’ottimizzazione e il risparmio delle risorse. Istanze probabilmente nobili, che però non dovrebbero mai precedere lo scopo principe dell’atto terapeutico.
 
Scrive Cavicchi: «quando le evidenze non danno risultati per un certo malato non sono giuste anche se definite nel modo teorico più corretto. Cioè le definizioni veramente giuste di evidenza sono [solo] quelle pragmatiche». E ancora: «[le evidenze] che risultano non vere, sono fallaci, ma non perché sono false, anzi al contrario, esse teoricamente non sono mai false, perché costruite sempre sulla base delle conoscenze disponibili, ma perché spesso sono, rese false dalle circostanze, spesso sono usate male, concepite in modo improprio, considerate quello che non sono, smentite da inattese complessità, spiazzate da contesti difficili». Pertanto, «se un’evidenza è vera solo rispetto a un malato allora, senza rinunciare al metodo scientifico, si deve pragmaticamente dare la possibilità al medico di verificarne la coerenza e la rispondenza e di decidere sulla base della sua ricognizione come usarla e se usarla».
 
Nel secondo caso (misurazione), va riconosciuto che le evidenze poggiano, sia pure criticamente, su una produzione scientifica caratterizzata a monte da una scelta del suo oggetto e cioè prima ancora da una visione della disciplina («paradigma»), del suo ruolo e delle sue premesse in un preciso contesto storico, ideologico e sociale.
 
Questa scelta di campo, che Mario Giampietro definisce «pre-analitica» perché precede appunto la definizione del perimetro dell’analisi, non coincide necessariamente con la scelta del paziente e/o del medico. Come minimo, il «mondo» espresso dall’evidenza non intercetta tutti i «mondi possibili» di questi ultimi. Non si tratta solo dei risultati direttamente viziati dall’interesse industriale (che l’Ebm è, almeno in teoria, attrezzata a respingere, salvo il caso sempre possibile di caderne essa stessa vittima), ma di un più fitto e sfumato reticolo di presupposti culturali che, nell’accogliere e promuovere un «paradigma» su tutti, riducono le possibilità del conoscibile e dell’esperibile, e quindi del curabile.
 
Cavicchi fa l’esempio del «concetto di malattia: la letteratura Ebm accentua, suo malgrado, una lettura prevalentemente biologistica. Le misurazioni riguardano tutte le caratteristiche biologiche di un atto clinico e di fatto esse sono ridotte a processi fisico-chimici. Cosa cambierebbe nell’organizzazione di medline, quale fonte di dati, se introducessimo per la selezione delle evidenze l’intera letteratura che privilegia nel concetto di malattia i problemi psico-somatici? O quelli behavioristici connessi agli stili di vita? O, ancora, quelli sociali riconducibili alle condizioni economiche e sociologiche dei malati? O i caratteri dell’infermità? Non vi è alcun dubbio che si dovrebbe cambiare completamente algoritmo».
 
Un discorso a sé andrebbe dedicato alle ricadute della politicalato sensu sulla ricerca, su come cioè il paradigma sotteso alla cernita di ciò che può e deve essere indagato si lasci plasmare dagli obiettivi e dai modelli promossi dai centri di potere, istituzionali e non. Ciò avviene sia in modo diretto, ad esempio modulando l’allocazione delle risorse economiche verso determinate aree di studio (con l’ulteriore equivoco di etichettarne poi i prodotti come «indipendenti», per il solo fatto di essere finanziati con il denaro dello Stato), sia indirettamente con la diffusione di target e linee guida globali. In una fase storica di forte conflittualità ideologica tra governi e governati come è l’attuale, l’oggettivizzazione delle evidenze rischia perciò di diventare un’oggettivizzazione dell’agenda politica del momento, cioè un veicolo «tecnocratico» per giustificarla ad excludendum.
 
Già ora, osserva Cavicchi, «il malato rientra nelle evidenze scientifiche come oggetto biologico, ma come soggetto sociale ne resta fuori». Ne restano ugualmente fuori le convinzioni e le intenzioni del medico, perché «ciò che la medicina protocollare intende fare è ridurre l’intenzionalità e le preferenze del medico a pura conoscenza, in ragione di una concezione efficientistica di bene… Ma ridurre coscienza a conoscenza è un bel problema. L’obiezione di coscienza non ha nulla a che fare con la conoscenza ma ha a che fare solo con la morale cioè solo con la coscienza».
 
Non potendosi produrre un atto – incluso quello medico – senza prima definirne le premesse, i limiti e gli scopi in una cornice morale e ideale che lo trascenda, il rischio è che l’Ebm, trascurando quella cornice dal lato di medici e pazienti in quanto «arbitraria» e incommensurabile, la faccia rientrare dalla finestra accogliendo solo i paradigmi scientifici e culturali selezionati da una ricerca condizionata dai tempi, perché figlia dei tempi. Cavicchi non affronta diffusamente le conseguenze estreme di questo rischio, ma avverte che «quando la scienza si presta per tante ragioni a farsi usare dalla politica essa degenera in ideologia aprendo un varco all’antitesi dell’evidenza, vale a dire all’oscurantismo, all’irrazionalità, all’autoritarismo».
 
Il problema pre-analitico della misurazione espone ancora più in generale quello di una concezione acritica e idealizzata di scienza che si è purtroppo molto diffusa in questi anni, come un esercizio disinteressatamente e illimitatamente dedito a indagare lo «scibile», ignorando così i macroscopici condizionamenti che nella realtà indirizzano, comprimono e sorvegliano il recinto possibile dei suoi oggetti e dei suoi metodi. È una concezione romantica prima ancora che positivistica, da cui nasce l’illusione di una scienza/evidenza ab-soluta dal contesto e quindi fonte superiore, insospettabile e imperativa dell’agire: «lo dice la scienza».
 
Il terzo problema, della misurabilità, chiama in causa il rapporto convenzionale tra astrazione e realtà. Si tratta invero di un problema antico, se già nell’applicazione della matematica allo spazio fisico gli antichi ritenettero di dare alla geometria una fondazione postulata, e quindi non empirica, per l’impossibilitàdi sovrapporre perfettamente i due domini. «Le astrazioni – spiega l’autore – sono procedimenti razionali che tendono a sostituire con una formula o con simboli, o con standard, o con rappresentazioni sintetiche, o con numeri, la concreta molteplicità del reale. Per loro natura esse sono, rispetto alla realtà approssimative, cioè sono misure incomplete e a volte poco esatte».
 
Le rappresentazioni astratte sono un «come se», un’ombra che segnala la presenza e il perimetro di un corpo ma non può sostituire lo sguardo, fosse anche il più fugace e confuso, sulla cosa reale. Si tratta perciò di una visione parziale e propedeutica al tutto: «l’evidenza... non è un quadro ma una sineddoche che, per definizione, pretende di definire il tutto, definendo solo una minima parte, o di definire il malato definendo solo la malattia».
 
Cavicchi ricostruisce la storia di questa illusione, di ridurre la realtà al numero o comunque di assegnare un rango ontologico inferiore all’innumerabile, collocandone il momento di maggior gloria nell’epoca barocca. Da allora è stata ridimensionata e integrata da altre concezioni, trovando infine le condizioni di un rilancio in grande stile negli ultimi decenni. La digitalizzazione non è in effetti altro che l’anglizzazione di quella illusione (digit significa appunto «cifra») sostenuta dalla potenza di calcolo di cui oggi disponiamo. L’avvento dei computer ha riacceso nei nostri contemporanei la speranza dubbia di sciogliere il groviglio delle qualità del reale esprimendole come quantità e di scongiurare così la crisi del positivismo portandolo alle sue conseguenze estreme.
 
Questa tentazione, argomenta giustamente Cavicchi, riflette il tentativo per certi versi eterno di disporre di un passepartout per abbracciare senza residui il reale e di affrancarsi così dalla frustrazione di non poterne afferrare ogni mistero: «il punto è comprendere che, dietro all’avversione per la riflessione filosofica sui problemi della medicina, si nasconde la tentazione metafisica di risolvere tutto con le evidenze statistiche, cioè attribuendo ad esse un valore euristico di tipo metafisico». Qui «si nasconde quasi la voglia di una verità irrefutabile, di assoluto, di certezze, di sicurezze, stanchi di fare i conti con tutto ciò che è terribilmente relativo, contingente, singolare. La voglia in sostanza di trascendere, una volta per tutte, la complessità inevitabile con una semplificazione la più scientifica possibile».
 
Lo stesso uso disinvolto che si fa oggi del termine «intelligenza artificiale» tradisce anche letteralmente la credenza di potere replicare, magari migliorandolo, il nostro comprendere, il nostro «guardare dentro» (intel-ligere) la realtà, comprimendolo nelle procedure di una macchina. In un mio articolo di qualche tempo fa (http://ilpedante.org/post/l-uomo-artificiale) osservavo che questa credenza è sconfessata tanto nella pratica quanto nella teoria. C’è, e va riconosciuta, l’incapacità oggettiva dei nostri pur potentissimi calcolatori di integrare i tanti livelli di analisi della realtà di un essere umano, di andare oltre la crosta della complessità e quindi di emanciparsi credibilmente dal mero ruolo di magazzini ordinati di informazioni.
 
Se a questo limite si risponde di norma con una professione di fede nel progresso tecnico («non siamo ancora in grado di...» ma «un giorno si riuscirà...»), va invece detto che il problema è irrisolvibile perché ontologico, perché non si può separare l’intelligenza dal suo soggetto. La nostra comprensione della realtà rispecchia ciò che siamo e offre soluzioni e visioni nell’ambito della nostra singolarità e contingenza: giovane/vecchio, uomo/donna, ricco/povero, ateo/credente, sano/malato ecc. Se non può darsi un’intelligenza unica – men che meno artificiale! – non può darsi un’evidenza unica.
 
Nei fatti, accade quindi che «la tentazione metafisica di risolvere tutto con le evidenze statistiche, cioè attribuendo ad esse un valore euristico di tipo metafisico» deve autoavverarsi costringendo l’unico polo malleabile (e quindi davvero intelligente) della dialettica: l’essere umano. Se le evidenze non vanno agli uomini, gli uomini vanno alle evidenze. Le si trasforma in legge e si esclude per postulato tutto ciò che potrebbe dimostrare la loro insufficienza: in primis l’operatore umano, che ne diventa mero esecutore e, rinunciando ai propri contributi pratici e intellettuali, rinuncia a gettare ombre sul metodo.
 
È, in fondo, lo stesso modus operandi della digitalizzazione, dove per avverare l’auspicio improbabile delle macchine intelligenti stiamo costringendo gli uomini a farsi essi stessi macchine, a parlarne il linguaggio (code), a sconvolgere il proprio modo di lavorare per adattarsi alle procedure informatiche, a produrre e scambiare i dati nei formati accettati daisoftware e a dotarsi di codici e identità digitali per entrare nel mondo delle macchine: per non ammettere che le macchine non sanno e non possono entrare nel nostro. Nell’articolo citato concludevo che «l'intelligenza artificiale è la nostra intelligenza, l'intelligenza artificiale siamo noi. Non ci parla dei progressi dell'ingegneria e della scienza, ma di un auspicato progresso dell'uomo chiamato a spogliarsi dei suoi difetti – cioè di se stesso – per rivestirsi della stolta obbedienza, della prevedibilità e della governabilità dei dispositivi elettronici».
 
Alle stesse conslusioni sembra giungere Cavicchi quando scrive che l’Ebm tende a farsi «quasi una ideologia, nel suo rapporto con il mondo, in ragione della quale il malato viene trasceso attraverso delle astrazioni che ne annullano addirittura la fisicità, rischiando di ridurre il medico a una trivial machine».
 
Da saggista, apprezzo e pratico la statistica. Da paziente, mi rincuora ritrovarmi nei suoi risultati e scoprire, da un lato, di non essere «né il solo né il primo», e dall’altro di non dovere far dipendere il mio benessere dalla sola buona volontà e dalla sola intelligenza del sanitario di turno. Non rinuncerei mai alle evidenze, né accetterei – come purtroppo mi è capitato! – di farmi curare da chi pensa di poterne fare a meno. Le riflessioni sviluppate da Ivan Cavicchi mi hanno tuttavia reso più consapevole della loro parzialità in senso sia epistemico (non potendosi misurare tutto) sia eziologico, esprimendo in origine obiettivi e paradigmi sempre relativi e suscettibili di essere ridiscussi e integrati nel contesto singolare di ciascun atto clinico.
 
Come suggerisce la seconda lettera di Ebm, le evidenze dovrebbero in effetti porsi alla base di ogni prassi scientificamente valida nel senso stretto di necessaria «base di partenza» o anche di «basamento» su cui innestare una strategia orientata al risultato migliore, secondo i criteri stipulati tra gli attori coinvolti e attingendo a tutte le risorse conoscitive, relazionali e intuitive dell’operatore. Non dovrebbero invece porsi né come meta né come perimetro invalicabile di quella prassi. Il sovvertimento della logica relazione tra uomini e tecnica, la trasformazione cioè dei primi in strumenti della seconda in ogni campo – dall’economia alla medicina, dalla politica all’istruzione – è il segno distintivo di un’epoca che spera di superare la fallibilità umana elidendo il fattore umano dall’equazione.
 
Non può però funzionare. Non solo perché nel fare ciò si avvale… di strumenti umani, spostando così il problema solo più a monte, ma più ancora perché così facendo elide l’evidenza stessa, cioè le esperienze singolari e all’occorrenza anche «eretiche» che arricchiranno e correggerano il patrimonio delle conoscenze disponibili. Rimossi i suoi destinatari, il sapere tecnico languirebbe in una staticità irriformabile o, peggio, si autoriformerebbe secondo criteri non più asserviti alla complessità delle aspettative umane, creando così il presupposto di scenari distopici che vorremmo vedere solo nei film.
 
Stefano Mantegazza (il pedante)
Saggista editorialista blogger

 
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