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Martedì 12 MAGGIO 2020
I numeri del contagio in Europa. Quali comparazioni?
Gentile Direttore,
il Coronavirus si è rivelato un nemico invisibile, capace di attraversare confini e viaggiare da un Continente all’altro. Nel tentativo di smascherare, o meglio di tracciare, il passaggio di questo avversario, abbiamo iniziato ad evidenziare i numeri dei pazienti contagiati, dei ricoveri e/o dei deceduti, utilizzandoli per un confronto con quelli presentati dagli altri paesi europei. Questa comparazione è stata usata, anche a scopo politico, per supportare scelte difficili di lockdown, ma è il caso di iniziare a riflettere sul valore dei dati presentati, ora che assistiamo ad una parziale ripresa delle attività ed ad un calo dei contagi.
Le informazioni qui riportate sono state fornite dai delegati dei diversi paesi europei aderenti alla Fems, nel corso della Assemblea Generale che si è tenuta (via web) venerdì 8 maggio.
Il dato sconcertante, evidenziatosi nel corso del meeting, è che, a fronte di problematiche comuni (almeno nella fase iniziale) - quali la carenza di adeguati sistemi di protezione individuali, la bassa percentuale di test eseguiti, le deficienze croniche e strutturali dei diversi sistemi sanitari - i dati statistici riguardanti gli effetti del Sars-Cov 2 non sono tra loro sovrapponibili, e le differenze di morbilità e mortalità tra i vari Paesi, non sono giustificabili solo in base alla demografia o alla precocità delle misure di quarantena adottate.
In Francia, il Governo ha dichiarato (dati aggiornati al 7 Maggio 2020) circa 26.000 pazienti deceduti per Covid-19 (su 138.000 pazienti infetti), negli ospedali pubblici e privati, ma il Ministero della Salute non ha conteggiato circa 9.000 pazienti, deceduti in modo “sospetto”, residenti in strutture paragonabili alle nostre RSA.
D’altronde in Francia si contano solo 9 medici morti, di cui 6 ospedalieri, (mentre in Italia, 155) anche se tale numero è sicuramente in difetto perché oltralpe, nel conteggio, si annoverano solo le morti di personale sanitario che lavora attivamente in strutture dedicate alla gestione dei pazienti Covid. Per gli altri professionisti, si è supposto che il contagio sia avvenuto in altre occasioni, magari anche prendendo i mezzi di trasporto proprio per recarsi al lavoro! Una valutazione discutibile ed ingiusta, considerato che, soprattutto nella fase iniziale, ogni paziente giunto negli ospedali dovrebbe essere considerato potenzialmente infetto e che, stante le misure di quarantena, il personale sanitario non può che aver contratto il virus sul posto di lavoro, fino a dimostrazione del contrario.
In Austria, sono stati eseguiti 256.000 tamponi (in Italia 2.500.000) con un numero rilevato di 15.388 positivi (in Italia, 217.000). Anche facendo le dovute proporzioni tra i due paesi e la diversa numerosità della popolazione, i dati dimostrerebbero una maggiore resistenza degli austriaci all’infezione. Ma i dubbi sono numerosi: quanti tamponi eseguono i colleghi austriaci sui pazienti sospetti? Si fermano al primo tampone negativo o ne ripetono un secondo, come in Italia, in caso di presenza di sintomatologia? E stante la scarsa sensibilità del tampone nasofaringeo, ha senso continuare a paragonare il numero di test eseguiti per avere una idea del tracciamento e del monitoraggio della malattia? Inoltre, l’Austria riferisce solo 584 morti per Covid-19 ma non tutti i Länder hanno riportato i numeri dei decessi, per cui il dato è conteggiato al ribasso.
L’Olanda riferisce circa 39.000 casi di pazienti Covid, un numero complessivo di ricoveri pari a 11.000 e un numero di decessi pari a 4.711. Ad una lettura superficiale potrebbero sembrare numeri bassi, consoni con l’elevato standard del miglior sistema sanitario europeo ma, se si gioca un po’ con questi numeri, si evidenzia che i pazienti deceduti sono comunque il 12,2% dei pazienti confermati positivi e che oltre il 40% dei malati ammessi in ospedale è deceduto.
Per smentire quanto sopra, sarebbe necessario conoscere quali criteri sono stati utilizzati per considerare un paziente positivo al Covid e quale sia la gestione territoriale di questi malati, o il timing con il quale si esegue l’accesso in ospedale, precoce o tardivo, rispetto all’insorgenza della malattia.
La Spagna conta un bilancio drammatico al pari dell’Italia, se non più severo. I casi totali sono 221.447 e di questi ben 42.000 appartengono alla categoria dei professionisti sanitari. Questo valore rappresenta il 20% degli infetti, un numero molto elevato, superiore anche a quello registrato in Italia dove il personale sanitario contagiato è circa il 12% della popolazione positiva al Covid-19. È necessario però chiedersi se questa percentuale così alta, in Spagna, sia causata dalla carenza di DPI o dal fatto che in questo paese siano stati eseguiti più test nelle categorie a rischio evidenziando un maggior contagio tra medici ed infermieri. A propendere per questa seconda ipotesi è il dato che in Spagna siano deceduti “solo” 41 medici durante questa epidemia.
La stessa considerazione può essere fatta per il Portogallo che, nonostante sia stato investito dalla ondata epidemica per ultimo e abbia potuto attuare le misure di quarantena in anticipo (rispetto a quanto accaduto negli altri Paesi), presenta circa 3.500 lavoratori della sanità infetti (di cui 400 medici, 1 solo deceduto) su 26.182 casi confermati (13%).
Davanti a numeri e percentuali così distanti tra loro, è necessario interrogarsi su quali siano le informazioni che questi numeri dicono o non dicono.
Perché l’Italia ha riportato un elevato numero di infetti e di deceduti? È imputabile alla estesa ed esplosiva circolazione del virus, viste le strette relazioni commerciali con la Cina, al clima, alla densità di popolazione, alla elevata età media, all’inquinamento, alle abitudini sociali, alle caratteristiche di collasso imminente del nostro SSN ? E quanto hanno pesato sul tasso di contagiosità e mortalità del suo personale sanitario i livelli insufficienti di protezione indicati da protocolli dell’OMS mai messi in discussione dall’ISS e dalle Regioni, che hanno preferito ignorare la loro caratteristica di indicazioni di minima e non di massima?
Per rispondere sarà necessario, in attesa di una indagine sierologica che renda tracciabile questo nemico invisibile, identificare denominatori comuni con gli altri paesi europei, come, a titolo esemplificativo, lo scarto con la mortalità media degli ultimi 2-5 anni per identificare la mortalità COVID correlata. Ed adottare criteri uguali per la classificazione delle cause di morte.
Questo virus ci ha dimostrato l’importanza di una Europa connessa ed unita anche per la Sanità, per scambiare informazioni, ricerca, supporti, logistica, personale. E di una informazione tempestiva e onesta che avrebbe potuto evitare ad altri paesi le drammatiche conseguenze che hanno investito il nostro.
I linguaggi adottati per parlare della pandemia dimostrano oggi l’assenza di radici comuni. Davanti ad una Europa che balbetta nel dare una risposta coesa usiamo, quindi, cautela nel mettere a confronto i dati statistici dei diversi Paesi, per non rischiare di rendere ancora più confusa la lettura di un virus che, con molta difficoltà, stiamo, solo ora, cominciando a conoscere.
I problemi si sono rivelati comuni ma le soluzioni adottate diverse e distanti, in assenza di condivisione ed aggregazione dei dati. Nel prossimo futuro, il consenso sui protocolli clinici e sulle procedure regolamentari sarà decisivo per permettere ai vaccini e ai farmaci antivirali di attraversare rapidamente i processi decisionali.
Alessandra Spedicato
Capo delegazione Anaao in Fems
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