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Giovedì 30 APRILE 2020
Ora basta Rsa, si punti decisamente sull’assistenza domiciliare
Invece che investire sui servizi di sostegno alla domiciliarità ci troviamo ancora una volta di fronte a programmi che puntano ulteriormente ad incrementare il numero dei posti in RSA. La crisi Covid offre una chance di trasformazione per far maturare una svolta e dare finalmente sbocco ad una ricca riflessione sulla domiciliarità come luogo della cura e della protezione che matura da anni
La pandemia da COVID-19 ha messo in moto un’approfondita riflessione sul modello di cure extraospedaliere offerto soprattutto a soggetti anziani, per lo più con compromissioni più o meno gravi dell’autosufficienza. Il modello, come è noto, è articolato su un mix di assistenza domiciliare ed assistenza residenziale (Residenze Sanitarie Assistenziali e Case di Riposo) che varia da regione a regione, con una constante rappresentata dall’impressione di non riuscire a rispondere a tutte le persone che avrebbero bisogno di assistenza.
D’altra parte la diffusione del fenomeno delle “badanti” (che aiutano al loro domicilio un numero di anziani quasi quattro volte superiore a quello assistito nelle RSA) risponde sia ad una domanda di cura altrimenti inevasa che al diffuso desiderio, da tenere in attenta considerazione, di rimanere a casa propria anche quando si è non autosufficienti, conservando così un margine di gestione della propria vita che nelle istituzioni inevitabilmente si assottiglia con conseguenze spesso spiacevoli per la qualità della vita.
La gestione del modello è affidata un ulteriore mix di pubblico e privato, anch’esso molto differente da regione a regione, che rende tutto il panorama dell’assistenza socio-sanitaria extra-ospedaliera estremamente frammentata, ed aumenta le difficoltà di una gestione comune di un fenomeno quale un’epidemia, che richiede risposte pronte ed omogenee sul territorio.
Il dibattito di questi giorni nasce dal fatto che tali strutture, pensate per offrire una vita protetta a persone fragili, si sono rivelate contesti che hanno favorito la diffusione dell’epidemia tra le persone da proteggere come pure tra il personale dedicato alla loro all’assistenza. Le motivazioni per cui questo è successo sono ormai note: mancanza di protocolli atti a fronteggiare la diffusione di un virus quale il SARS-CoV-2 associata alla mancanza di Dispositivi di Protezione Personale.
Inoltre è molto difficile garantire il distanziamento fisico in luoghi dove vi sono tante persone che hanno bisogno di assistenza personale ripetutamente durante la giornata. Si aggiunga a questo la rotazione del personale (inevitabile se non con un aggravio di costi per le strutture) che agisce come potente fattore di rischio per la diffusione di un’epidemia. Infine luoghi pensati nella maggior parte dei casi per avere almeno due persone per stanza difficilmente possono rapidamente riconvertirsi in strutture che garantiscano un’efficace isolamento in caso di necessità.
L’inadeguatezza “strutturale” delle RSA a gestire pazienti altamente infettivi è stata accompagnata da provvedimenti che si sono rivelati altrettanto inadeguati. Ad esempio, la tempestiva chiusura agli esterni di queste strutture (avvenuta in molti casi già alla fine di febbraio) non ha avuto alcun effetto positivo, anzi ha aumentato la sofferenza di molti anziani (si pensi a quelli con compromissione cognitiva) che da due mesi non vedono nessuno dei propri cari e, in molti casi, non è neanche facile spiegare loro perché. Si moltiplicano racconti drammatici di morti in solitudine, di ultimi saluti mediati da un tablet, di attese che si trasformano in meste comunicazioni. Un fenomeno nazionale (ed internazionale) espressivo di uno dei peggiori aspetti della globalizzazione che ci saremmo potuti aspettare[i].
In questo quadro gli interventi di questi giorni tesi a proporre un ripensamento del sistema delle cure extraospedaliere centrato sul coniugare domiciliarità ed intensità di cura flessibili appare una più che opportuna boccata di ossigeno che permette di intravedere un futuro migliore. Crediamo che per ottenere il risultato di scendere rapidamente su un piano concreto sia necessario identificare i più rilevanti elementi di contesto
Il primo è che in Italia una famiglia su tre è costituita da una persona sola[ii] e più del 50% degli ultraottantenni a Roma ed a Milano vive solo. Si tratta di una popolazione che esprime già oggi una domanda di assistenza mentre si trova in una condizione di rarefazione delle relazioni sociali. La carenza di risorse sociali, dal vivere soli fino all’isolamento sociale vero e proprio, sono un fattore di rischio sia per la mortalità sia per l’uso dei servizi ospedalieri, dal ricovero all’accesso al Pronto Soccorso.
Un intervento in grado di sostenere le famiglie ed i singoli nel desiderio di rimanere a casa deve porsi come obiettivo il mantenimento e la generazione di reti sociali che rinforzino le appartenenze e l’attenzione agli isolati. I network di questo tipo hanno un fortissimo significato nell’ostacolare il dilagante fenomeno della trasformazione di una domanda sociale in sanitaria, con tutte le conseguenze del caso. Si pensi ad esempio al crescente problema dei frequent users[iii] presso i Dipartimenti di Emergenza degli ospedali, rappresentati spesso da anziani poveri privi di qualunque sostegno a livello territoriale, senza famiglia, con redditi inadeguati.
La risibile quota di ore in assistenza domiciliare in Italia – poco più di 20 ore anno per utente - esemplifica meglio di ogni discorso la scarsa presenza sul territorio e l’ancor più esiguo impegno sociale e sanitario per i soggetti fragili.
Il secondo elemento è la separazione tra sociale e sanitario che ancora caratterizza il nostro sistema dell’assistenza. Ne è testimonianza l’abitudine ad affrontare i problemi di assistenza socio-sanitaria partendo dalle patologie: l’assistenza per le persone affette da demenza senile; l’assistenza per le persone colpite da stroke e potremmo continuare.
Se è vero che esiste una specificità della clinica per ogni patologia, ed è bene che sia cosi, non è altrettanto vero che questa specificità si riverberi immediatamente in una particolarità assistenziale, soprattutto quando si tratta di persone anziane nella stragrande maggioranza dei casi affette da complesse multimorbidità. La domanda assistenziale si genera nel complesso interagire di condizioni psico-fisiche con la disponibilità o meno di risorse sociali ed economiche che possono permettere di fare fronte alle necessità assistenziali.
La possibilità di rimanere al proprio domicilio è sempre il frutto di un equilibrio individuale tra deficit psico-fisici e risorse socio-economiche; tale possibilità si è rivelata ancora una volta durante l’epidemia attuale un potente fattore di protezione se si considera che, a detta dell’ISS, nel mese di aprile il 44% dei contagi si è verificato nelle RSA e solo il 24% in ambito familiare[iv].
Il drammatico aumento del rischio è evidenziato dal fatto che solo il 3% circa degli ultrasettantacinquenni italiani è ospite di tali strutture ma ha generato quasi la metà di tutti i casi di malattia. Per sostenere la domiciliarità è necessaria una fortissima integrazione tra sociale e sanitario a livello territoriale che individui nelle varie forme dell’abitare e della aggregazione (incluso il co-housing, i condomini protetti, le case famiglia, i centri diurni) il luogo, fisico ed umano allo stesso tempo, all’interno del quale fornire servizi con l’intensità necessaria alle condizioni individuali, come peraltro già spiegato con chiarezza almeno da due interventi proprio su questa rivista[v],[vi].
Per superare la separazione tra sociale e sanitario è necessario partire dal basso, dalle esperienze che hanno dimostrato di funzionare.
La letteratura internazionale indica 4 elementi che le compongono:
- l’infermiere di comunità,
- un robusto servizio sociale che provveda a garantire lo svolgimento delle attività della vita quotidiana,
- un servizio di telemedicina in grado di limitare l’accesso ai servizi ospedalieri senza compromettere la qualità delle cure,
- un sostegno informatico in grado di facilitare i processi di integrazione trai diversi servizi ed il dialogo tra i diversi attori come pure con gli utenti stessi.
L’atteggiamento dei servizi deve essere un atteggiamento pro-attivo per andare a cercare le persone e valutare il loro grado di fragilità e proporre attività di prevenzione. Esistono diversi esempi di questa tipologia di servizi tra i quali quelli messi a punto dal progetto europeo CONSENSO in Piemonte (infermiere di Comunità in ambiente rurale)[vii], il programma ‘Viva gli Anziani!’ condotto dal 2004 dalla Comunità di Sant’Egidio in diverse città italiane che coniuga la lotta all’isolamento sociale con i servizi di telemedicina e l’infermieristica di comunità[viii], i programmi di infermieristica di comunità condotti dalle ASL di Rieti (in ambiente cittadino e rurale), Trieste[ix] e Bologna[x] (in ambiente cittadino), caratterizzati da una forte integrazione con i servizi sociali.
Probabilmente ne esistono altri, ma va sottolineato che in alcuni casi si è già avuta evidenza dell’impatto positivo di questi interventi sulla mortalità e sui tassi di ospedalizzazione e di accesso al pronto soccorso. Un ruolo non secondario lo giocano i caregiver informali, siano essi familiari o altro, che anche in questi giorni stanno mostrando su quale patrimonio di disponibilità al sostegno vicendevole può contare la nostra società in un momento di grande necessità.
Tale patrimonio esiste anche al di fuori di questi momenti: si tratta di creare le condizioni perché possa dispiegare la sua azione anche accompagnandola con adeguata formazione o semplicemente essendo i servizi formali aperti alla collaborazione. Si tratta di investire sui servizi di sostegno alla domiciliarità mentre in realtà ci troviamo ancora una volta di fronte a programmi che puntano ulteriormente ad incrementare il numero dei posti in RSA[xi].
L’inadeguatezza di questa soluzione, anche sul piano economico, in termini di costi per le Regioni, gli utenti ed i Comuni, è sotto gli occhi di tutti e pensare di rispondere con le residenze alla vertiginosa crescita delle cronicità (si pensi solo all’incremento del burden of disease dell’Alzheimer, cresciuto del 79% negli ultimi 20 anni) significa costruire un futuro insostenibile per la nostra sanità.
Viviamo, in questa crisi, una chance di trasformazione, per far maturare una svolta e dare finalmente sbocco ad una ricca riflessione sulla domiciliarità come luogo della cura e della protezione che matura da anni. C’è bisogno di decidere un orientamento e perseguirlo per il bene dei più anziani e di tutti noi che anziani speriamo di diventare.
Giuseppe Liotta1, Leonardo Palombi2, Maria Cristina Marazzi3
1 Comunità di Sant’Egidio - Programma “Viva gli Anziani!”
2 Università degli Studi di Roma “Tor Vergata” – Dipartimento di Biomedicina e Prevenzione
3 Università LUMSA, Roma
[v]G Labate. Siamo un Paese di vecchi, prendiamo finalmente atto. Quotidiano Sanita. disponibile all’indirizzo https://www.quotidianosanita.it/studi-e-analisi/articolo.php?articolo_id=84529dal 28.04.2020
[vi]M D’Innocenzo. Superare il modello delle Case di riposo e delle Rsa. Non più posti letto, ma intensità di cura applicata alla domiciliarità. Quotidiano Sanità.. disponibile all’indirizzo: https://www.quotidianosanita.it/studi-e-analisi/articolo.php?articolo_id=84463dal 28.04.2020
Marazzi, M.C. Social Interventions to Prevent Heat-Related Mortality in the Older Adult in Rome, Italy:
A Quasi-Experimental Study. Int. J. Environ. Res. Public Health 2018, 15, E715.
[ix]Redazione. Infermieri news. L’infermiere di comunità, dal Friuli un modello di assistenza per il resto d’Italia. disponibile all’indirizzo: http://www.infermierinews.it/2019/07/15/linfermiere-di-comunita-dal-friuli-un-modello-di-assistenza-per-il-resto-ditalia/
[x]OPI Bologna. Piacere, Sonia – Ecco l’équipe di promotori della salute per gli abitanti di Piazza dei Colori a Bologna disponibile all’indirizzo: https://www.ordineinfermieribologna.it/2019/piacere-sonia-ecco-lequipe-di-promotori-della-salute-per-gli-abitanti-di-piazza-dei-colori-a-bologna.htmldal 28.04.2020
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