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19 APRILE 2020
Il salto di specie dei virus e l’approccio One health
Come fare a conciliare l’incremento della popolazione, l’aumento della necessità delle risorse cui attingere, l’inquinamento ambientale, il cambiamento climatico, l’alterazione dell’ecosistema, il rischio zoonotico degli spillover e la sanità pubblica veterinaria? La soluzione univoca e definitiva probabilmente non esiste ma è certo che il ruolo primario debba essere giocato dalla politica internazionale e dalla medicina preventiva in un’ottica One Health
Più del 60% delle malattie infettive emergenti (EIDs - Emerging Infectious Diseases) identificate a partire dal 1940 hanno un’origine zoonotica (cioè sono trasmesse dagli animali) e, tra queste, i due terzi derivano dagli animali selvatici (Jones et al. 2008). Le malattie infettive emergenti possono essere definite come malattie che appaiono in una popolazione per la prima volta, che potrebbero essere esistite in precedenza senza essere riconosciute, o quelle la cui incidenza o range geografico sta rapidamente aumentando (WHO 2017).
Sin dal Pleistocene (tra 2,58 milioni e 11.700 anni fa) e forse dall’epoca della comparsa dell’australopiteco (5 milioni di anni fa) l’uomo si è co-evoluto insieme ad animali selvatici e virus (si pensi che l’antenato ancestrale degli influenzavirus si ritiene si sia differenziato in Influenzavirus tipo C e tipo A/B oltre 8000 anni fa) ma negli ultimi 100 anni una serie di fattori hanno facilitato l’insorgenza di quello che viene definito “spillover” cioè il “salto di specie” di un patogeno dai suoi ospiti ricettivi ad un nuovo ospite. Gli eventi di spillover sono definiti come trasmissione di agenti patogeni da una popolazione ospite del serbatoio a una nuova popolazione ospite (Lloyd-Smith et al. 2009; Plowright et al. 2017).
Il superamento della barriera di specie. Molti virus, soprattutto quelli a singolo filamento di RNA, ma anche batteri, funghi e protozoi sono in grado di attraversare la barriera di specie grazie alle mutazioni (come antigenic drift e soprattutto i più decisivi antigenic shift) del proprio genoma che darwinianamente possono portare il patogeno ad un successo riproduttivo o ad un vicolo cieco (il che per fortuna si verifica il più delle volte). Solo i patogeni con elevata “plasticità d’ospite” – cioè con genomi in grado di adattarsi con grande facilità a nuove specie – riescono ad effettuare il salto. Per sopravvivere nel nuovo ospite devono però anche trasmettersi con efficienza nella nuova popolazione.
Moltissimi spillover sono avvenuti – e avvengono tutt’oggi – tra specie non umane, soprattutto tra specie animali che vivono in contesti ecologici ben diversificati, dove rimangono silenti il più delle volte poiché non causano un danno diretto né all’uomo né agli animali da lui addomesticati nel corso dell’evoluzione. Succede però che dagli animali selvatici un virus “salti” negli animali domestici (per lo più suini e pollame) e da questi ultimi salti ulteriormente agli esseri umani, oppure salti direttamente all’uomo.
Sono noti anche casi di spillover dagli animali domestici a quelli selvatici, come il coronavirus dei suini domestici (PEDV) che nel 2013 ha raggiunto i suidi selvatici permettendo la circolazione continua del virus. Durante i passaggi in una o più popolazioni nuove, il patogeno ha modo di arricchire il proprio genoma grazie a fenomeni di ricombinazione e riassortimento genomico, moltiplicando in tal modo le proprie chance evolutive. L’incremento della popolazione suina e avicola degli ultimi decenni ha sicuramente contribuito alla diversità genetica degli influenzavirus tipo A (IAV) che circolano negli animali domestici e negli uomini (Reperant and Osterhaus 2012).
Capita talvolta – come nel caso dell’IAV H5N1 HPAI del 2002 – che i virus tornino al proprio reservoir, cioè l’ospite serbatoio che non presenta segni clinici e che permette il mantenimento del virus nella popolazione, facendo un “salto all’indietro” dal nuovo ospite: in tal caso si ha uno spillover inverso ed è ciò che avvenne nel 2002 tra il pollame e alcuni uccelli selvatici.
Si ritiene che gli uccelli selvatici rappresentino il reservoir principale di tutti gli influenzavirus tipo A in quanto quasi tutti i sottotipi noti (144 combinazioni di 16 tipi di emoagglutinine HA e 9 di neuraminidasi NA) si trovano negli uccelli, ma molti sottotipi sono diventati ormai endemici nell'uomo, nei cani, nei cavalli, nel pollame e nei maiali. Resta da approfondire il significato evolutivo ed il rischio zoonotico dei nuovi sottotipi H17N10 e H18N11 scoperti nei pipistrelli. I roditori rappresentano invece il serbatoio principale di virus emergenti come hantavirus e arenavirus, responsabili negli ultimi cinquant’anni di numerosi eventi spillover, dovuti a morsi o al contatto diretto e indiretto con escreti dei roditori.
Un altro fattore che permette ai virus della fauna selvatica di raggiungere l’uomo sono i vettori come zecche e zanzare, che si configurano come ponti in grado di connettere il reservoir e l’ospite-spillover. È stato però l’uomo a gettare le basi della connessione. Si pensi al Plasmodium knowlesi trasmesso da zanzare Anopheles che hanno permesso il salto dal macaco cinomolgo (Macaca fascicularis) nel Borneo: l’uomo a colpi d’accetta e piantagioni di palma si è sostituito gradualmente alle scimmie, consentendo alle zanzare di effettuare il pasto di sangue prima sui primati e poi sulle popolazioni ai margini delle foreste.
La diffusione di alcuni patogeni emergenti appartenenti agli arbovirus (virus trasmessi da artropodi) come West Nile, Zika, Chikungunya, Dengue, Rift Valley fever e Ross river, è possibile che sia da attribuire invece agli effetti indiretti dell’uomo sulla natura. Da tempo sono stati correlati gli effetti del cambiamento climatico (inondazioni, uragani, aumento delle temperature etc.) con la proliferazione e lo spostamento geografico dei vettori, cui contribuisce non poco lo stato socio-economico delle popolazioni colpite. Oltretutto si ipotizza che queste malattie siano emerse secoli fa ma che negli ultimi anni le isole dell’Oceano Indiano e Pacifico abbiano assunto il ruolo di potenziali hub (depositi) di arbovirus, facilitando la dispersione verso la terraferma e alimentando le epidemie globali.
Un virus per sopravvivere al salto di specie deve potersi trasmettere molto facilmente tra i nuovi ospiti e non causarne subito la morte per non finire in un vicolo cieco. La trasmissibilità uomo-uomo è la chiave del successo riproduttivo di molti virus: alcuni si diffondono tramite droplet, altri si trasmettono per via oro-fecale, altri per contatto diretto con fluidi corporei, altri ancora hanno bisogno di un vettore etc. Molti virus tendono ad esaurire il proprio ciclo vitale nel nuovo ospite creando epidemie locali per poi sparire dalle scene fino alla successiva epidemia, nascondendosi nel frattempo nel reservoir (si vedano i focolai di Ebola e Marburg in Africa) e probabilmente così avrebbe fatto CoV-2 se non ci fosse stato un wet market di grande dimensioni in una città di oltre 6 milioni di abitanti fortemente connessa al resto del mondo globalizzato.
I mercati di animali vivi. Gli ormai famosi mercati di animali vivi della Cina meridionale rappresentano – non a caso – i luoghi ideali per un salto di specie: animali selvatici provenienti da nicchie ecologiche diverse, vengono detenuti in condizioni di scarsa igiene e fortissimo stress per essere macellati al momento. Si può obiettare che molti di questi animali, così come i primati antropomorfi del Congo, vengano cacciati per esigenze nutritive da parte della popolazione, per tradizioni culinarie o ancora per l’espletamento di riti etnico-religiosi.
Si tratta però di un luogo comune che diverse Associazioni anti-bracconaggio tentano da anni di sfatare in quanto la caccia per questi motivi è essenzialmente ridotta a poche realtà. Nella maggior parte dei casi – come racconta anche David Quammen nel libro “Spillover” – si tratta più banalmente di moda.
Le mani di scimpanzé o il cervello di gorilla sono prelibatezze costosissime per pochi facoltosi. C’è però una differenza tra la caccia delle scimmie antropomorfe africane e quella dei pipistrelli in Cina: la prima è quasi sempre regolata da una legge – di fatto ignorata dai bracconieri – la seconda è legittimamente perpetrata da cacciatori col beneplacito delle Prefetture locali e del Governo. L’economia, ovviamente, è la sovrastruttura alla base di queste scelte.
Alla fine di gennaio si è avuta notizia di un divieto temporaneo di vendita di animali selvatici in Cina ma si ritiene che un approccio proattivo sarebbe ben più efficiente: aumento degli standard di igiene e benessere animale, dell’igiene della macellazione e della conservazione di alimenti, istituzione di turni di alternanza e contingentazione delle specie animali da macellare (come si stabilì per un periodo per l’IAV H5N1). In poche parole non servono divieti ma regole che tengano conto della salute pubblica e degli stakeholder.
Quando lo spillover provoca epidemie. Capita talvolta che i virus riescano a conseguire un successo riproduttivo tale da diventare endemici nei nuovi ospiti. È stato così per l’HIV, il cui insediamento nella popolazione umana è stato ricondotto al 1908 a partire dagli scimpanzé (Pan troglodytes) attraverso uno spillover cui sono seguiti altri 11 “salti” dando origine a 4 gruppi HIV-1 e 8 di HIV-2; per il vaiolo giunto dai roditori più di 10.000 anni fa; per il rhinovirus del raffreddore comune “saltato” dai bovini 4.000 anni fa (Hughes 2010); per il morbillo “tracimato” dal virus della peste bovina tra l’XI e il XII secolo d.C (Furuse et al 2010) e nel 2019 si è assistito allo spillover epocale del COVID che con tutta probabilità rimarrà nella popolazione umana per lungo tempo. È probabile che persino l’influenza stagionale nell’uomo sia il risultato di uno spillover molto antico che deriverebbe dagli uccelli acquatici selvatici, reservoir naturale degli influenzavirus A.
Ma come è accaduto che un fenomeno tutto sommato raro, sia diventato sempre più frequente? Anzi, questi “salti interspecifici” sono sempre stati comuni ma nell’ultimo secolo sono stati tali da provocare danni all’uomo o agli animali da lui addomesticati. Solo negli ultimi vent’anni ben 3 coronavirus hanno effettuatouno spillover che ha avuto successo: SARS nel 2002 dalle civette delle palme (Paguma lavata) a loro volta contagiate dai pipistrelli ferro di cavallo (Rhinolophus), MERS nel 2012 da dromedari (ai quali il virus sarebbe giunto dai pipistrelli in un tempo remoto, essendo stati riscontrati campioni di sangue di dromedari positivi risalenti al 1983), e COVID 19 di origine ancora incerta ma si è supposto provenga dai pipistrelli, dai pangolini (importati e venduti illegalmente in Cina) o da un animale ancora non identificato. Per dare una risposta secca: la resilienza del sistema-natura è stata vinta dall’uomo.
L’equilibrio sinergico di tutte le specie animali esistenti è stato rotto, superando un’invisibile soglia ecologica. La popolazione umana, cresciuta in maniera esponenziale in un arco temporale relativamente breve, ha invaso le nicchie ecologiche degli animali selvatici, frammentando gli ecosistemi per creare insediamenti abitativi e produttivi, allevare in maniera intensiva gli animali domestici, praticare agricoltura intensiva (come le palme da olio e la colza), sacrificando spesso la biodiversità nativa. I 7,7 miliardi di persone che abitano il pianeta – che nel 2050 si prevede arriveranno a 9 miliardi – sono alla costante e necessaria ricerca di proteine (per lo più animali) e grassi, da doversi garantire a tutta la popolazione per il proprio sostentamento.
Il problema di sfamare 9 miliardi di persone. Qui sorge la grande domanda che si pongono molti zootecnici: come si sfamano 9 miliardi di persone? La risposta risiede forse nell’allevare e coltivare intensivamente ma in questo modo si determinano co-fattori che facilitano il diffondersi di nuove zoonosi e la ri-emersione di zoonosi già conosciute. In molte epidemie di influenza aviaria gli allevamenti intesivi di pollame e suini hanno fatto da “miscelatori” e “amplificatori” dei virus, fenomeno che è stato correlato anche ad alcuni focolai di Nipah virus nel sud est asiatico. I sistemi intensivi dovrebbero dunque insistere su terreni già a disposizione dell’uomo, senza incentivare un’irragionevole deforestazione, utilizzando sistemi di biosicurezza efficaci e implementando le biotecnologie zootecniche per migliorare la produttività senza ledere (eccessivamente) il benessere animale.
Come fare dunque a conciliare l’incremento della popolazione, l’aumento della necessità delle risorse cui attingere, l’inquinamento ambientale, il cambiamento climatico, l’alterazione dell’ecosistema, il rischio zoonotico degli spillover e la sanità pubblica veterinaria? La soluzione univoca e definitiva probabilmente non esiste ma è certo che il ruolo primario debba essere giocato dalla politica internazionale e dalla medicina preventiva in un’ottica One Health, permettendo a biologi, agronomi, ecologi, epidemiologi, medici, veterinari e ricercatori di lavorare insieme per elaborare strategie di gestione di un problema multidisciplinare e transfrontaliero.
Non a caso Ilaria Capua, nota virologa e medico veterinario che oggi dirige il One Health of Centre Exellence in Florida, in un editoriale della rivista «Viruses» parla di “One Health (r)Evolution”, e sprona la comunità scientifica a dotarsi di studiosi in grado di lavorare in quest’ottica per far fronte alle insidie del sistema interdipendente uomo-animale-piante.
Già da alcuni anni in letteratura scientifica iniziano a comparire suggerimenti per attuare “interventi ecologici” volti ad aumentare le barriere che i patogeni devono superare per giungere all’ospite-spillover. Tali interventi andrebbero così ad integrarsi ad interventi di tipo medico o veterinario (vaccinazione, disinfezione, lotta agli infestanti, stamping-out etc). Un esempio di intervento ecologico può trovarsi nella gestione del Nipah virus, trasmesso dalle volpi volanti (Pteropus) direttamente all’uomo contaminando con urina, saliva e feci le palme da dattero (il cui nettare viene bevuto fresco) o indirettamente attraverso il contagio dei suini che amplificano e trasmettono il virus agli uomini. In quell’occasione si decise di distanziare gli allevamenti dagli alberi da frutto, cingere le palme con reti di bambù e obbligare la pastorizzazione del nettare di palma.
Altro esempio è rappresentato dalla gestione della Malattia di Lyme, trasmessa da zecche Ixodes che proliferano in piccoli boschi frammentati che si infettano su peromischi e toporagni, per la quale si è dimostrata efficace la strategia di aumentare gli spazi verdi riducendo la popolazione-reservoir sfruttando il conseguente sviluppo dei loro competitori biologici. In ultima analisi si vedano alcune strategie adottate temporaneamente nei wet market: si è visto che una riduzione del tempo di permanenza degli animali riduce la possibilità di riassortimento genomico.
Ruolo della sanità pubblica e ruolo della popolazione. Se da un lato il lavoro che la Sanità Pubblica è chiamata ad intraprendere per prevenire futuri eventi spillover appare sempre più chiaro, dall’altro il ruolo di tutto il resto della popolazione umana risulta indefinito. Si potrebbe sostenere che qualunque azione tale da contrastare gli effetti nefasti dell’uomo sugli ecosistemi, possa agire positivamente sulla riduzione del rischio di emersione di nuovi salti interspecifici.
Solo a partire dagli anni ’60 si è assistito alla nascita di una “coscienza ambientale”, grazie all’analisi delle interconnessioni dei sistemi naturali nel cosiddetto “eco-mosaico”, all’osservazione puntuale della progressiva riduzione nella biodiversità animale e vegetale, nonché all’alterazione dei sistemi preda- predatore. Nel 1962 la biologa e zoologa Rachel Carson scrisse ciò che sarebbe diventato il manifesto della lotta all’inquinamento ambientale: Primavera Silenziosa. Carson denunciò l’uso indiscriminato di pesticidi ed erbicidi in agricoltura – spesso oltre che nocivi anche controproducenti come dimostrato dalle equazioni Lotka-Volterra –, ipotizzando come conseguenza a breve termine la scomparsa di molti uccelli canori (da qui il titolo).
A ben pensarci, in tutte le stagioni i richiami animali sono stati spezzati dagli interventi umani, dai canti delle balene disturbati dai lavori edili sulle coste ai ronzii delle api, magnifici disseminatori di biodiversità vegetale, sterminate da irrorazioni di insetticidi ad ampio spettro. Ed oggi, ad oltre cinquant’anni da quelle denunce del mondo scientifico, ancora si stenta a dare un freno alla hybris, l’arroganza dell’uomo, e all’iperimpero, scenario postulato dall’economista Jacque Attali nel 2007, dove la natura viene depredata e sacrificata in nome del mercato e del profitto, mettendo a rischio la sopravvivenza dell’umanità. Si dovrebbe, suggerisce Carson, instillare nelle nuove generazioni il “senso di meraviglia” nei confronti nella natura e delle cose del mondo.
Chiunque provi ammirazione e stupore per ciò che ha intorno (‘ambiente’ deriva dal latino ambire, girare intorno) si suppone possa vivere rispettandolo, difendendolo e sentendosi parte di esso: Yo soy yo y mis cimcumstancia ovvero «io sono io e ciò che mi sta intorno», per dare una sintesi con le parole del filosofo Ortega y Gasset. Se il senso di meraviglia è facile da far scaturire nei bambini, più difficile è far breccia negli adulti. Serve una rivoluzione culturale universale, guidata dalla ricerca e dall’intelligencija dei singoli Stati.
Si verrebbe così a creare la necessità di un’educazione ambientale capillare, gestita in modo uniforme sui territori da professioni afferenti all’approccio One Health, un’educazione che sia innanzitutto civica e che permei tutti gli strati della popolazione in egual misura. L’istituzione in Campania del Polo Didattico Integrato – costituto dalla condivisione di conoscenze ed esperienze tra ASL, Istituto Zooprofilattico Sperimentale del Mezzogiorno e Università Federico II –, ha già iniziato questo complesso processo culturale diffondendo nozioni di sostenibilità ambientale, buone abitudini alimentari (si pensi ai concetti fondamentali della Dieta Mediterranea), riduzione dei cibi in eccesso, lotta allo spreco di alimenti, acqua, carta e imballaggi, equilibrio nutrizionale tra le fonti di carboidrati, grassi e proteine, consumo “consapevole” di alimenti con maggiore aderenza al territorio e alle tradizioni locali, incentivo alla raccolta differenziata e al riciclo dei materiali etc.
La breve disamina condotta sin qui induce a supporre che uno stile di vita improntato alla difesa degli ecosistemi sia imprescindibile per la lotta dell’uomo agli spillover, che si configurano dunque come “occasioni” colte dai patogeni per replicare e diffondersi in una nuova popolazione, ma che è stato proprio l’uomo con le sue azioni ad offrire senza immaginare le conseguenze che le sue scelte avrebbero comportato.
Giulio Grossi, Giuseppe Pezone, Maria Triassi
Centro di riferimento regionale per la sicurezza della ristorazione della Campania (Cripat)
Alcuni eventi spillover conosciuti, disposti in ordine cronologico secondo l’anno di isolamento o la ricostruzione filogenetica o documentale:
• 1879: Chlamydophila psittaci, Psittacosi
• 1908: HiV-1 gruppo M, AIDS
• 1930: Coxiella burnetii, Febbre Q
• 1932: McHV-1, Herpes B
• 1965: Plasmodium knowlesi, Malaria delle scimmie
• 1967: Marburg virus
• 1970: Monkeypox virus, Vaiolo delle scimmie
• 1975: Borrelia burgdoferi, Malattia di Lyme
• 1976: Ebola virus
• 1994: Virus Hendra
• 1995: Virus schiumoso delle scimmie
• 1997: Influenza Aviaria H5N1
• 1998: Nipah Virus
• 2002: SARS-CoV-1, SARS (Sindrome Respiratoria Acuta Grave)
• 2009: Influenza Suina H1N1 pdm09
• 2012: MERS CoV, MERS (Sindrome Respiratoria Mediorientale)
• 2019: SARS-CoV-2, Covid-19
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