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Sabato 18 APRILE 2020
Contro Covid l’ospedale non basta, serve la sanità territoriale. Ma con nuove regole organizzative
E questo si potrebbe fare con una vera e propria Intesa tra Ministero della Salute, Regioni e Sindacati per la gestione uniforme delle USCA sul territorio nazionale. Perché un'intesa che coinvolga tutti gli attori della medicina del territorio, con il supporto di Aran e Sisac, avrebbe una valenza maggiore di una circolare ministeriale come avvenuto per le terapie intensive
Introduzione
I servizi sanitari di gran parte dei paesi del mondo hanno mostrato una estrema fragilità nei confronti della diffusione del Virus Sars-CoV 2. Largamente insufficienti, infatti, si sono dimostrate le misure di contrasto alla diffusione del contagio adottate; e questo anche a causa della mancata implementazione di quanto previsto nei piani pandemici elaborati dai diversi paesi, su indicazione della OMS in risposta alle epidemie da Sars e Cov 1 Mers.
Nel nostro paese l’infezione, che ha già causato oltre 21,000 decessi ufficiali (a cui si deve aggiungere un numero imprecisato ma probabilmente elevato, di deceduti a cui non è stato praticato il tampone) non si è trasformata in una vera strage solo perché l’epicentro ha interessato le tre regioni (Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna) da tempo considerate le eccellenze in campo sanitario; ben diverse sarebbero state le conseguenze se l’epicentro sI fosse invece verificato nelle regioni del centro sud.
Eppure, laddove l’epidemia è stata più virulenta, la regione che ha riportato un numero di contagiati e di decessi più elevato (questi ultimi in numero di 11,400 corrispondente al 50% del totale), è stata proprio quella con il servizio sanitario considerato tra i più “efficienti” dal punto di vista dell’assistenza ospedaliera, ma con un sistema di cure primarie e di servizi di prevenzione assolutamente carente. Un dis-equilibrio tra medicina dell’attesa e medicina dell’iniziativa, denunciato con forza anche dal segretario generaledella FIMMG, Silvestro Scotti, che è stata la conseguenza di ben precise scelte del decisore politico regionale.
Le altre due regioni Veneto ed Emilia Romagna, dove invece il sistema di medicina dell’iniziativa non è stato sacrificato sull’altare di quello ospedaliero, caratterizzato da una componente privata paritaria, hanno saputo invece contenere la diffusione del contagio limitandone i danni in termini di numero di ricoverati e decessi.
Di questa evidenza bisogna tenere massima considerazione, non per attribuire patenti di responsabilità a chicchessia, ma per impedire che i prossimi interventi necessari alla gestione dell’epidemia nella cosiddetta Fase 2, si dimostrino di scarsa utilità.
La gestione dello sciame epidemico
E’, infatti, oramai chiaro come l’epidemia da SarS COV-2 non possa essere considerata un evento isolato e limitato nel tempo, ma piuttosto come uno sciame infettivo con cui dovremo convivere per un periodo che potrebbe andare anche oltre il 2021. Serve allora una strategia di lungo respiro e scegliere dove indirizzare le risorse che saranno reperite, con i mezzi che il governo riuscirà a reperire in sede europea, MES o non MES permettendo.
Abbiamo più volto denunciato come i tagli perpetrati in questi ultimi 15 anni al nostro SSN ne abbiano fortemente compromesso le capacità di offrire servizi adeguati in grado gestire le patologie correnti e ancora meno, come dimostrano i fatti odierni, quelle emergenti (che pure erano largamente prevedibili).
I tagli tuttavia hanno inciso in maniera diversa sui due sottosistemi in cui si articola il nostro servizio sanitario nazionale. Il Prof. Mapelli ha recentemente sostenuto (Quotidiano sanità del 27 marzo 2020) affrontando la “questione ospedaliera” come il nostro sistema ospedaliero non possa essere considerato “in declino” e come il “ridimensionamento della rete ospedaliera sia la conseguenza” non del sottofinanziamento ma “dei profondi cambiamenti introdotti dalla nuove tecnologie sanitarie (farmaci, diagnostica, chirurgia) e dell’organizzazione dei servizi intra ed extraospedalieri che hanno indotto un crollo della domanda di ricovero”. E a riprova di ciò apporta il dato di come “gli stessi cambiamenti hanno attraversato altri paesi che non avevano problemi di deficit o debito pubblico come il nostro”.
Pur tenendo in considerazione tale posizione, su cui è lecito comunque avanzare dubbi sulla eccessiva repentinità della riduzione di posti letto e presidi, lo stesso non si può invece sostenere nei confronti del secondo sottosistema: quello delle cure primarie e degli interventi di promozione della salute e di prevenzione delle riacutizzazioni nei pazienti affetti da patologie croniche.
Nel settore della medicina dell’iniziativa, in cui rientrano a pieno titolo gli interventi di promozione di corretti stili di vita e di presa in carico dei pazienti con polipatologie, il regresso è stato particolarmente significativo e le conseguenze sono state ben visibili in quello che sta accadendo sotto i nostri occhi; e a tale proposito basta il dato che molti dei 126 medici deceduti in servizio seganalati dalla Fnomceo appartenevano alla medicina generale sia a causa della mancanza di adeguati mezzi di protezione e sia a causa della mancanza di chiare indicazioni operative su come approcciare i pazienti.
Quale deve essere allora la nostra strategia per affrontare l’imminente fase di uscita dal lockdown che non significa, come abbiamo già rimarcato la fine dell’epidemia?
Di sicuro non dobbiamo ricadere nell’errore di considerare la risposta ospedaliera quella in grado di contenere e risolvere la diffusione dell’epidemia. Il confronto tra quanto avvenuto in Lombardia rispetto a Veneto ed Emilia Romagna infatti dimostra infatti il contrario. Un potenziamento esclusivo dell’assistenza ospedaliera rischia di essere di nessuna utilità e controproducente per lo spreco di risorse che comporta.
Al contrario riteniamo che quella da rafforzare in modo sostenuto sia la fase territoriale di gestione dell’epidemia, anche perché oltre l’80% dei pazienti non necessita di ricovero ospedaliero potendo essere trattato a domicilio. Questo pone l’ulteriore problema di come organizzare un sistema efficace di assistenza nei confronti di questi malati (la stragrande maggioranza) che, pur non necessitando di ricovero ospedaliero, hanno comunque bisogno di un adeguato livello di cure; un’assistenza spesso loro negata come dimostrano le drammatiche testimonianze dei parenti di molti anziani deceduti a casa nel Bresciano e totalmente abbandonati a loro stessi.
Le proposte del Ministro della Salute Roberto Speranza
Il ministro Speranza ha proposto 5 direttive per affrontare la fase 2 del contagio ma nulla ha ancora detto sull’integrazione tra gli ospedali COVID (che sono stati definiti in tutte le regioni), le equipes territoriali che dovranno assistere i pazienti USCAR, attivate finora purtroppo solo in una parte delle regioni, e i Medici di famiglia dei singoli pazienti.
Ancora una volta senza precise indicazioni si corre il rischio della frammentarietà degli interventi. Sarebbe invece fondamentale immaginare un centro unico di coordinamento tra questi diversi soggetti e tra i diversi momenti della cura dei pazienti (dall’ospedale al territorio o viceversa) per evitare di ripetere gli errori perpetrati nella regione Lombardia.
L’apporto della telemedicina nella gestione delle cure domiciliari
L’ISS (Istituto Superiore di sanità) ha recentemente licenziato delle linee guida per la gestione domiciliare dei pazienti affetti da COVID tramite gli strumenti della telemedicina. Possono essere utilizzati a tale scopo una serie di device altamente versatili, di basso costo e semplicità d’uso che consentono la trasmissione a remoto di numerosi parametri vitali (pressione arteriosa, frequenza cardiaca, concentrazione dei gas del sangue, emoglobina, ECG).
La telemedicina, di cui il nostro paese dispone dei più importanti progettisti e già utilizzata con successo dalle associazioni di volontariato in molti paesi africani (MsF, Comunità di Sant’Egidio), ma largamente assente nelle nostre strutture pubbliche, consente un effettivo monitoraggio delle condizioni cliniche dei pazienti e un loro controllo a remoto. E, dunque, un tipo di assistenza particolarmente utili per pazienti COVID e più in generale per tutti quelli, come gli anziani e i pazienti con pluri-patologie che non hanno assoluta necessità del ricovero (spesso fonte di infezioni ospedaliere) ma non possono gestire da soli la propria condizione di salute.
Le informazioni veicolate dagli strumenti devono essere valutate e gestite da personale dedicato e che l’ISS identifica, a seconda della complessità del caso trattato, nell’infermiere o nel medico. Si tratta dunque di costituire equipes di infermieri e medici con competenze informatiche (dipendenti dal distretto, dall’ospedale COVID o in convenzione) che dovrebbero entrare a fare parte a pieno titolo delle equipes delle cure primarie per la gestione dei pazienti COVID, con il necessario e previsto supporto psicologico, da remoto, svolto dagli psicologi dipendenti e convenzionati dell’ASL di riferimento, per loro e per i pazienti.
Una proposta operativa per la gestione territoriale dei pazienti COVID
Per rendere omogene tale equipes lo strumento migliore sarebbe avere a disposizione una intesa programmatica unica ed unitaria, concordata, condivisa e concertata sottoscritta con le OO.SS. e le Regioni, da sviluppare nella sede del Ministero della Salute, con il supporto di ARAN e SISAC, nella quale concordare ruoli e competenze professionali sulla base della convergenza delle normative previste dai vigenti CCNL del personale dipendente del SSN e dagli ACN del personale a convenzione (medici di famiglia, pediatri di libera scelta e specialisti ambulatoriali): una vera e propria Intesa tra Ministero della salute, Regioni e Sindacati per la gestione uniforme delle USCA sul territorio nazionale, strumento normativo ed operativo che avrebbe una valenza maggiore di una circolare ministeriale come è avvenuto per le terapie intensive; se questo, malauguratamente, non fosse possibile a livello nazionale comunque dovrebbe essere previsto un analogo accordo a livello regionale.
Dovrebbe essere questa la metodologia da adottare per i rinnovi di contratti e convenzioni cioè un’intesa propedeutica per concordare, insieme, quali strumenti adottare per realizzare le scelte indicate dal Patto per la Salute e dai conseguenti Programmi attuativi (cronicità, prevenzione…) facendo di contratti e convenzioni lo strumento attuativo e funzionale delle scelte strategiche della programmazione sanitaria e sociosanitaria, favorendo il protagonismo attivo e consapevole di chi, i professionisti della salute, dovranno realizzarle con le proprie competenze.
Se poi si unificassero tutti i contratti e convenzioni presenti tra il personale del SSN in un unico grande accordo di filiera contrattuale, articolato nelle necessarie specificità, ma in una logica unitaria, unificante ed armonica…sarebbe cosa buona e giusta…per lo stesso personale, per i decisori ma soprattutto per il mitico individuo dell’articolo 32 della nostra Costituzione detentore del diritto alla salute, una volta si sarebbe detto “unità nella diversità”.
La parte pubblica ovviamente metterebbe a disposizione i device, la piattaforma informatica, il personale con competenze informatiche, il personale infermieristico e delle altre professioni sanitarie necessario, le strutture fisiche dove organizzare il servizio e i protocolli operativi per la gestione assistenziale dei pazienti.
In tale modello un ruolo altrettanto importante svolgerebbero i medici del lavoro sia pubblici che privati a rapporto di consulenza con le aziende a cui il governo sembra volere affidare il compito di certificare l’idoneità delle aziende alla ripresa delle attività produttive, in presenza ovviamente di idonei standard di sicurezza.
Un ruolo altrettanto importante potrebbero svolgere i rappresentanti della sicurezza RLS di ogni singola azienda chiamati a validare quanto certificato dal medico del lavoro.
Un tale sistema avrebbe due caratteristiche fondamentali: una operatività altamente decentrata a livello territoriale, con il Distretto quale sede naturale di indirizzo e coordinamento sia delle strutture territoriali che dello stesso Covid Hospital; una direzionalità di tipo accentrato per quanto riguarda la gestione dei dati, il monitoraggio dei pazienti e il loro tracciamento attraverso l’App “Immuni” scelta dal governo per la precoce identificazione dei contatti di soggetti positivi.
Potenziamento delle cure primarie e contrattazione unitaria del personale della sanità
La rinascita del SSN è profondamente legata a un cambio sostanziale del paradigma assistenziale seguito in questi ultimi 15 anni. È indispensabile uscire da una visione ospedalo-centrica e puntare al potenziamento dei servizi di prevenzione, di promozione della salute e di cure primarie. Oggi, per dare assistenza ai pazienti ambulatoriali affetti da COVID; domani, per una presa in carico sostanziale e non formale dei pazienti con patologie croniche al fine di prevenirne le riacutizzazioni e per lo sviluppo di politiche pro attive sui corretti stili di vita.
Ripercorrere vecchie strade, ripuntando tutto sull’assistenza ospedaliera (come dimostra la fallimentare vicenda dell’ospedale alla Fiera di Milano costato 21 milioni e rimasto fino ad ora quasi inutilizzato) o lasciando i servizi territoriali nella situazione attuale di non governo senza sfruttare i vantaggi che la tecnologia ci offre sarebbe un errore imperdonabile che non possiamo assolutamente permetterci.
Ripensare i contratti di lavoro ai fini di una loro omogeneizzazione è l’altro obiettivo da perseguire. Non ha più senso avere personale che opera in contesti istituzionali altamente integrati e che ha istituti contrattuali diversificati e spesso contraddittori al loro interno. In questa ottica puntare a un contratto se non unico di tutto il personale della sanità ma almeno in una filiera contrattuale unitaria dell’insieme del personale del SSN articolato al suo interno in aree e sezioni contrattuali che esaltino e valorizzino le diversità ma in una logica non divisiva ma inclusiva, significherebbe la possibilità di utilizzare al meglio la più preziosa delle risorse in nostro possesso: quella professionale, rendendo la loro rinnovata soggettività, insieme armonico di saperi e competenze, il protagonista principale e quello determinante nella difesa ma soprattutto nel rilancio e nel potenziamento del Servizio Sanitario Nazionale, pubblico, solidaristico ed universale.
La crisi sarà dura e per certi versi devastante con una perdita stimata del PIL del 9%. Dobbiamo attrezzarci per ripartire quando le condizioni ce lo permetteranno, ma dobbiamo soprattutto fare tesoro degli insegnamenti che questa drammatica vicenda in ogni caso ci lascia.
Saverio Proia e Roberto Polillo
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