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Sabato 14 MARZO 2020
Coronavirus. Non facciamone un’altra occasione persa per la ricerca come fatto per Sars e Mers
La Sars e, 10 anni dopo, la Mers, per gli scienziati sono state due grandi occasioni perse. Superato il picco, è come se la paura avesse ceduto il posto all’oblio. Finanziamenti, progetti, sperimentazioni, e soprattutto vaccini, chiusi in un freezer. Inutilizzabili, perché mai giunti alla fase che li avrebbe resi disponibili per l’impiego sugli esseri umani. Possiamo solo immaginare cosa sarebbe cambiato se invece il rubinetto dei finanziamenti non fosse stato chiuso. Forse il Covid-19 non terrebbe in scacco le vite di milioni di persone, oggi
C’era quasi arrivato, il Dottor Peter Hotez. Lui e il suo team di scienziati, in Texas, sono arrivati molto vicini al vaccino per il Coronavirus. Ma i fondi per la sperimentazione umana no, quelli si sono fermati lungo la strada.
E no, non si sta parlando del Covid-19, questo mostro invisibile che sta terrorizzando, paralizzando e impoverendo il nostro Paese, così come numerosi altri Stati. Hotez, Condirettore del Centro per lo Sviluppo dei Vaccini presso il Texas Children's Hospital e Presidente della National School of Tropical Medicine presso il Baylor College of Medicine di Houston, lavorava sul virus responsabile della “sindrome respiratoria acuta”, nota come SARS. E sono passati anni: tra il novembre 2002 e il luglio 2003 la SARS colpì più di 8000 persone, con oltre 800 decessi in 17 Paesi.
Numeri che sembrano impallidire di fronte ai quotidiani bollettini della Protezione Civile italiana sul Coronavirus di oggi.
L’11 marzo, solo poche ore prima che l’Italia si fermasse, abbassando le saracinesche e lasciando aperti solo gli esercizi che vendono beni di prima necessità e farmacie, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha dichiarato che il Covid-19 è da considerarsi una pandemia. Una parola, ha spiegato il direttore generale dell'OMS Tedros Adhanom Ghebreyesus, che non può essere usata “con leggerezza o disattenzione”.
Immediatamente, la notizia ha fatto il giro del mondo, nel modo più virale cui i tempi presenti ci hanno ormai abituati. Per molti, sicuramente i più giovani, una parola e una situazione del tutto sconosciuta. Ma il mondo ne ha affrontate altre, di pandemie. La cosiddetta “peste di Atene” nel V secolo a.C. ha investito il Mediterraneo. Nel XX secolo, la Spagnola ha ucciso un numero di persone difficilmente stimabile, che va dai 25 ai 100 milioni. Ma la più recente, nel 2009, la pandemia scatenata dal virus A/H1N1, nota come influenza suina.
È così lontano, il 2009? Cosa hanno fatto Governi, Istituzioni e comunità scientifica per provare ad essere più preparati di fronte a minacce di questo tipo?
La SARS e, 10 anni dopo, la MERS, per gli scienziati sono due grandi occasioni perse. Superato il picco, è come se la paura avesse ceduto il posto all’oblio. Finanziamenti, progetti, sperimentazioni, e soprattutto vaccini, chiusi in un freezer. Inutilizzabili, perché mai giunti alla fase che li avrebbe resi disponibili per l’impiego sugli esseri umani.
Possiamo solo immaginare cosa sarebbe cambiato se invece il rubinetto dei finanziamenti non fosse stato chiuso. Forse il Covid-19 non terrebbe in scacco le vite di milioni di persone, oggi.
Siamo in grado di imparare dagli errori del passato? Forse non del tutto, forse non tutti, forse non ovunque. Altrimenti, probabilmente, non avremmo sprecato del tempo prezioso in sterili disquisizioni sul basso indice di letalità del Covid-19, che inizialmente veniva descritto come un qualcosa riservato ad anziani malati, come in una terrificante e angosciante selezione naturale. O, forse, non staremmo assistendo ammutoliti di fronte ad una linea di azione – o meglio, di inazione – britannica che sostanzialmente non intende agire per contrastare i contagi, puntando in questo modo ad ottenere l’immunità di gregge, a costo di molte vite e definitivo collasso di un sistema sanitario già non troppo in salute.
Nonostante la grande mobilitazione, trasversale a più Paesi, di Centri di Ricerca, Università, aziende farmaceutiche e Istituzioni, è improbabile auspicare la disponibilità di un vaccino contro la malattia respiratoria acuta da SARS-CoV-2 prima di un anno. Certo, a patto che, passata l’emergenza, cosa certamente auspicata da tutti, l’interesse non cali, e si predispongano finanziamenti necessari alla ricerca. A patto che l’ossigeno continui ad essere pompato sul lavoro degli scienziati.
Ma cosa possono fare nel frattempo scienziati e ricercatori?
La UE ha fornito una grande possibilità. Ha da poco pubblicato il bando IMI2 dal titolo “Development of therapeutics and diagnostics combatting coronavirus infections” mettendo sul piatto 45 milioni di Euro, un programma indirizzato a far progredire la nostra conoscenza del SARS-CoV-2 e della famiglia di coronavirus, allo scopo di contribuire a una gestione efficiente dei pazienti e fornire strumenti per affrontare i focolai attuali e quelli futuri.
Considerando che si tratta di un virus appena identificato, ogni informazione scientifica è importante. Lo stanno dimostrando i ricercatori cinesi che dal mese di dicembre 2019 continuano a pubblicare lavori sulle più importanti riviste del mondo e fornire dati che vengono utilizzati in tempo reale dalla comunità scientifica.
Non è comune questa prassi nella ricerca biomedica, dove sono necessari tempi di conferma e di sperimentazione ulteriore. Ma la drammaticità di questa pandemia non lascia molto tempo e bisogna agire con tutti gli strumenti possibili per il raggiungimento di obiettivi immediati quali:
a) Lo sviluppo di antivirali e di altri tipi di terapie anche con farmaci in fase di sviluppo, che potrebbero essere riproposti per l'uso nel trattamento di pazienti con coronavirus, come sta avvenendo per gli inibitori dell'enzima di conversione dell'angiotensina (ACE2, il recettore principale del virus), gli inibitori della proteasi e l’immunoterapia (in parte già impiegata clinicamente);
b) Lo sviluppo di nuovi sistemi diagnostici e di predittività per aiutare a stratificare i soggetti e monitorare eventualmente l’efficacia dei farmaci. Questi test sono essenziali per gestire l'epidemia, isolare i pazienti a rischio e curare le persone. Infatti, tra i numerosi problemi aperti riguardanti questa infezione, vi è l'estrema variabilità nella presentazione clinica, che va da sintomi sub-clinici molto lievi simil-influenzali a sindrome da distress respiratorio acuto (ARSD) associati all'ammissione in ICU (unità di terapia intensiva) e alta mortalità. Mentre queste differenze possono essere dovute all'età e alle comorbilità, una frazione che varia dal 5 al 10% di pazienti relativamente giovani (età 40-60) e in forma, sperimenta una condizione grave che progredisce fino a insufficienza multiorgano con necessità di terapia intensiva e ventilazione assistita.
Tra le ipotesi che possono essere formulate per giustificare questa variabilità fenotipica, c'è anche la variabilità individuale della risposta immunitaria al virus. È noto che la variabilità genetica individuale può rendere i soggetti più sensibili o più resistenti alle infezioni virali e alla progressione della malattia. È plausibile che le differenze genetiche nei geni della risposta immunitaria possano influenzare la capacità del virus di infettare, nonché la capacità dell'ospite di difendersi.
Sulla base dell'esperienza con altri agenti infettivi, come HCV o HIV, è plausibile che i polimorfismi nei geni che codificano per le proteine dell'immunità innata e adattativa o quelli che codificano per i recettori transmembrana che mediano l'ingresso del virus nelle cellule bersaglio possano essere responsabili di un diverso ospite risposta all'infezione e quindi alla progressione della malattia. Durante l’epidemia di SARS nel 2003 è emerso ad esempio che una variazione del gene HLA-B46 si ritrovava significativamente più spesso tra i pazienti più gravemente colpiti dalla SARS-CoV rispetto alle persone non affette. Questo gene si trova in circa il 15% degli asiatici, ma è raro tra negli Europei e negli Africani. Non sappiamo che questo gene influenza anche il “cugino” di SARS-CoV responsabile del COVID-19, ma dobbiamo studiarlo.
Così come dobbiamo investire nella ricerca su modelli animali. Negli ultimi due mesi il laboratorio americano che fornisce a tutto il mondo modelli animali per la sperimentazione, il Jackson Laboratory, è stato sommerso di richieste per produrre topi transgenici da utilizzare come modello in vivo per la ricerca di farmaci e vaccini. in grado di che gli scienziati sperano possano aiutarli a comprendere il virus. I topi normali sembrano resistenti alle infezioni compreso COVID-19.
Altri laboratori stanno testando scimmie, e persino furetti (questi animali sono buon un modello per l'influenza e altre infezioni respiratorie perché la loro fisiologia polmonare è simile a quella umana), per rispondere a molte delle domande chiave sulla malattia e per accelerare lo sviluppo di potenziali farmaci e vaccini per studi clinici. I primi risultati stanno emergendo in Cina, USA e Australia e sembrano promettenti. Non bisogna farsi illusioni, nessun modello animale è perfetto, e per questo è necessario ricercare a 360° anche utilizzando i pipistrelli che sono il serbatoio principale del virus.
La Dott.ssa Shi Zhengli dell’Istituto di Virologia di Wuhan, studia questi mammiferi da alcuni anni proprio per capire la biologia coronavirus. In una recente intervista, ha dichiarato: "I coronavirus trasmessi dai pipistrelli causeranno più focolai di infezione, Dobbiamo trovarli prima che ci trovino loro."
Prima che ci trovino dunque, dobbiamo studiare, studiare, studiare… è, questo l’unico vero antidoto.
Giuseppe Novelli e Francesca Zedda
Università di Roma Tor Vergata e Fondazione Lorenzini (Milano)
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