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Lunedì 17 FEBBRAIO 2020
Ddl anti violenza. Basteranno pene più alte e telecamere?
Gentile direttore,
solo nell’ultimo anno 1.200 sono state le aggressioni, una media di tre al giorno, più della metà nelle corsie di ospedale, il resto a danno degli operatori del 118. Nessuno esente, nessuno escluso. Dai ‘semplici’ insulti, fino a percosse con danni importanti (dati INAIL). È la conta, parziale, sottostimata dalle scarse denunce, delle aggressioni al personale sanitario.
Uno stato di emergenza nazionale che ha portato il Parlamento a rispondere, finalmente, alle richieste, annose e continue, degli operatori della sanità con la calendarizzazione per l’Aula della Camera del testo di un ddl già approvato dal Senato. Sono previste telecamere a circuito chiuso in ambulanze ed ospedali, l’inasprimento delle pene per chi commette atti di violenza ai danni del personale sanitario, procedibilità di ufficio e, nei processi per aggressione nei confronti dei propri dipendenti nell’esercizio delle loro funzioni, l’obbligo per le Aziende sanitarie di costituirsi parte civile.
Ma tutto questo basta? È la domanda che angoscia tutti.
Tutto questo serve ad eliminare un problema sociale ancor prima che professionale? Può essere la soluzione alla spirale di violenza che sembra essere ormai senza controllo e che non risparmia nessuno?
Ma cosa è successo negli ultimi anni? Cosa ha portato il paziente a non fidarsi più del medico, cosa ha portato il paziente a diventare solo un utente che ‘pretende’ la prestazione con tempi e modi propri di un acquisto di elettrodomestico? Siamo sicuri che sia solo colpa del cittadino?
Siamo certi che non ci siano responsabilità condivise tra politica e direzioni strategiche?
La risposta può essere cercata nelle risorse destinate agli interventi straordinari in sanità.
L’art.20 della legge 67 del 1988, che recita ‘investimenti in edilizia e tecnologie’ ha raggiunto oggi la seconda fase, che prevede l’ammodernamento delle strutture ospedaliere, dopo che nella prima fase (1996) sono stati stanziati 4.854.694.851,44 euro con una percentuale di autorizzazione media del 94,5%. La II FASE di detto progetto, avviata nel 1998, ad oggi registra una assegnazione di euro 18.145.305.148,56.
Inoltre, con la Finanziaria del 2010 è stato assegnato un ulteriore finanziamento di 1.000.000.000,00 di cui 820.000.000,00 ancora non ripartiti, per una dote complessiva pari a 24 miliardi di euro.
Ma tali finanziamenti non hanno prodotto ad oggi un miglioramento netto della qualità infrastrutturale degli ospedali italiani, soprattutto nel meridione, soprattutto per quanto concerne i presidi di pronto soccorso che oggi vivono nel sud una condizione disastrosa.
È una priorità investire nell’ammodernamento dei ps, dei presidi di guardia medica, nella ricerca di una nuova dimensione delle cure al passo con i tempi. L’assenza di un adeguato utilizzo FSE, nonostante la normativa lo imponga, le carenze infrastrutturali gravi, la ristrettezza di spazi, la mancanza di privacy, la carenza di medici, infermieri e posti letto caratterizzano un quadro allarmante.
Inevitabilmente tali disservizi ricadono sul cittadino, minando alla base quel rapporto di fiducia verso il professionista, che si trova ad essere, più o meno inconsapevolmente, capro espiatorio di disservizi di cui non è direttamente responsabile, e verso il sistema di cure che vacilla.
Ma forse una colpa al medico va attribuita. Quella di continuare a lavorare secondo etica, nel rispetto del giuramento di Ippocrate, con la abnegazione nell’erogare cure in posti non sicuri.
Mentre in altre realtà europee basta molto meno che stipendi bassi, poche tutele, turni massacranti, mancato rispetto di normativa europea dei riposi per far precipitare i medici in piazza e addirittura provocare dimissioni in massa, come avvenuto in Francia recentemente.
Ma per quanto ancora potrà continuare la pantomima dello scarico di responsabilità? Per quanto ancora i medici continueranno a voler espiare una colpa non loro?
La sensazione è che la misura sia colma, ed anche i medici italiani prima o poi cederanno alle pressioni sociali, personali, professionali e oltre al fenomeno della migrazione sanitaria, in crescita vertiginosa, assisteremo alla fuga dagli ospedali e probabilmente da una professione calpestata ormai da troppo tempo.
Occorre pertanto riformulare il paradigma di cure ed il rapporto medico paziente, che non può più essere basato su un mero rapporto medico/posti letto, ma deve necessariamente considerare le intensità delle cure stesse e la mutata domanda da parte di una popolazione che sente a rischio il diritto alla salute.
Pierino Di Silverio
Responsabile Nazionale Anaao Giovani
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