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Lunedì 10 FEBBRAIO 2020
Li Wenliang, un medico che ha fatto solo il suo dovere

Desidero rendere omaggio a Li Wenliang come medico cioè come colui che ha sentito il dovere di essere quello che ciascun medico deve e dovrebbe essere. Solo un medico. Null’altro che un medico

Mi ha turbato la morte di Li Wenliang, l’oculista cinese di soli 34 anni, prima nemico del popolo e dell’ordine pubblico, per aver denunciato inascoltato il virus infame e poi riabilitato, come eroe nazionale, solo perché era nel giusto. Alla fine, a ben guardare, questo giovane medico, a sua volta contagiato e ucciso dal virus, non ha fatto altro, in un paese difficile come la Cina, che il suo dovere di medico, lo stesso di cui Mori si lamenta quando critica lo “stampo ippocratico” dei nostri medici nella sua polemica noiosa e astiosa, contro la scelta della Fnomceo sull’art 17 del codice deontologia. (QS 7 febbraio 2020)
Mi turbano i contrasti:
tra le immagini dei medici dello Spallanzani  che leggono i loro comunicati giornalieri sulle condizioni cliniche dei malati, ripresi come star dalla televisione a gruppi interi, eleganti nei loro camici immacolati  e  ben stirati, e il volto  anonimo e morente coperto dalla mascherina di Li Wenliang,
 
tra la polemica sul suicidio assistito in atto nel nostro paese e la gente che in Cina muore a frotte uccisa da un virus ancora indomabile,
 
tra un medico che muore per fare il medico e i medici che a parte l’Oms, non dicono su di lui una sola parola, forse perché presi a inseguire una legge contro la violenza nei servizi.
 
Mutatis mutandis e con le dovute cautele e naturalmente con le giuste proporzioni, quanti Li Wenliang ci sono in Italia schiacciati dalla medicina amministrata, ingabbiati in standard ignobili, calcolati come se non fossero niente altro che dipendenti, contesi da altre professioni per loro competenze, spesso in difficoltà a svolgere financo il proprio dovere e pagati come mano d’opera a poco prezzo.

Quando penso a Li Wenliang e alla quasi indifferenza nei suoi confronti, mi turba il contrasto tra l’eroe e l’antieroe, tra medici in genere ignorati nella loro difficile quotidianità come gli infettivologi dello Spallanzani, resi improvvisamente eccezionali, da un virus implacabile quasi come se il virus,  fosse, come direbbe Hegel, l’espressione della necessità della storia e quindi i medici fossero per questo inevitabilmente spinti a compiere la loro opera dalla storia, cioè  ad essere per forza degli eroi e non degli anonimi poveracci, spesso costretti come Li Wenliang, a lavorare in condizioni avverse, a scontrarsi con chi li gestisce, e con chi li considera solo dei tecnici.

La concezione del virus come se accordasse ai medici il privilegio, di essere gli strumenti principali della salvezza del mondo, è falsa e romantica, e io desidero sottrarmi a questa sciatta mistificazione.
 
La realtà è un’altra:
i medici non sono né eroi e neanche antieroi sono solo medici fatti di scienza e di deontologia in genere trattati male e che tentano di fare con mille difficoltà solo il loro dovere,
 
il virus non è uno strumento della storia ma è come il cancro, l’inquinamento, il clima impazzito, il prodotto di un uomo irresponsabile che per inseguire il proprio sogno di dominio sulla natura ci sta ammazzando piano piano,
 
i medici non sono la giustificazione dell’uomo per creare prima malattie per curarle dopo, ma restano l’espressione della possibilità per l’umanità di governare al meglio la nostra vita e la nostra morte cioè il proprio destino. I medici sono i nostri coautori di escatologie.
 
Desidero rendere omaggio a Li Wenliang come medico cioè come colui che ha sentito il dovere di essere quello che ciascun medico deve e dovrebbe essere. Solo un medico. Null’altro che un medico.
 
Ivan Cavicchi

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