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Mercoledì 29 GENNAIO 2020
Fine vita. Perché non mi rassegno al ritorno di Sparta
Gentile Direttore,
negli ultimi tempi si sono verificati due episodi su cui ritengo non sia inutile fare alcune riflessioni. Mi riferisco alla vicenda della piccola Tafida Reqeeb e relativo commento del Dr. Riccio, e la sedazione palliativa profonda continuativa, attuata dall’ex calciatore Pietro Anastasi.
Riassumo la prima vicenda: La piccola Tafida è stata ricoverata in un prestigioso ospedale pediatrico londinese in gravissime condizioni. I medici, di cui non si può discutere la competenza, l’hanno giudicata in coma irreversibile e quindi hanno proposto la sospensione delle cosiddette terapie di sostegno vitale. I genitori della piccola non si sono arresi e hanno chiesto e ottenuto il trasferimento presso l’Ospedale Gaslini di Genova. Dopo un po’ di tempo la bimba è stata dimessa dalla terapia intensiva e trasferita in corsia. Ignoro la prognosi, ma non è questo il punto. Non intendo discutere degli aspetti clinici che non conosco.
Il Dr. Riccio si è chiesto se tutto questo fosse nel vero interesse della piccola Tafida e ha concluso di no.
La riflessione che l’episodio mi induce a fare è sul valore della vita. Si sta diffondendo l’opinione che la vita umana non sia un valore in sé con una propria sostanza, ma un valore dato dagli atti che compie. Per cui quando gli atti non ci sono ancora (feti e neonati malformati, etc.) o non ci sono più (coma profondo, etc.), o non si è ancora persona o non lo si è più. E allora sarà un giudice o le istituzioni o i medici a decidere se il soggetto debba essere soppresso, o direttamente, o con la sospensione dei sostegni vitali.
A me pare che si tratti di un ritorno all’inciviltà o alla logica spartana del Monte Taigeto, ma quella non era civiltà.
La brevità di un articolo non consente un’analisi approfondita del problema, ma può consentire una domanda: ma siamo certi che chi sostiene queste tesi, talora in modo aperto (e di ciò va data lode) o in modo subdolo e furbesco (capita anche questo) si renda conto delle logiche conseguenze a cui si va incontro? Cioè: al di là delle belle parole, la vita umana vale per quello che produce.
Deve pur esserci una differenza tra un ospedale per anziani e un allevamento di polli o la vita delle termiti descritta da Maeterlink, in cui il non abile viene soppresso. Certamente sì, ed è il rispetto per la vita umana.
Il secondo episodio riguarda Pietro Anastasi. Dico subito che io mi inchino, con pensiero riverente davanti alla memoria di Fabiano Antoniani (in arte Fabo) e di Pietro Anastasi, che meritano assoluto rispetto per la loro scelta. Hanno preso decisioni diverse per raggiungere un identico scopo: non soffrire più. Anche la morale cattolica sostiene che non c’è il dovere di soffrire.
Ma mi si permetta una domanda: come mai per Fabo si è mobilitata la stampa (e non solo) e per Anastasi appena un breve cenno di cronaca? Il problema è molto più complesso di quanto appaia. Ci ritorneremo sopra.
La mia contrarietà (è un eufemismo) alla nota sentenza della Corte Costituzionale (che deve essere rispettata e applicata ma non necessariamente condivisa) dipende dal fatto che ha aperto una breccia nella difesa della vita umana, ancorché sostenuta da dotte ma discutibili argomentazioni e tradotte in un italiano esemplare. Chi soffre come l’uomo Fabo o l’uomo Anastasi (che non sono casi ma persone) ha il diritto di chiedere la fine delle sofferenze (diritto oltre tutto riconosciuto dall’art. 32 della Costituzione). Ma perché considerare una prova di civiltà l’autorizzazione al suicidio medicalmente assistito, il che significa, al di là delle parole, autorizzare l’uccisione di una persona (omicidio del consenziente)? Il termine disturba, lo capisco, ma si tratta proprio di questo.
Il problema non si risolve con le parole: “verba sunt consequentia rerum”. Quando nel 1487 il grande navigatore portoghese Dias Bartholomeu annunziò alla regina Isabella che era riuscito a circumnavigare il continente africano incontrando terribili tempeste, aveva definito l’estremità “Cabo Tempestosa”. Ma nel clima di esaltazione per l’avvenuta reconquista, la Regina preferì chiamarlo “Capo di Buona Speranza”, ma questo non è valso ad eliminare le tempeste.
E’ necessario opporsi ai fondamentalismi delle religioni e a quelli della ragione (bomba atomica, manipolazioni genetiche e altri) come emerso dal famoso dibattito tre il Cardinal Ratzinger e il filosofo Habermas presso l’Università di Monaco nel 2004.
La scienza deve fare ogni sforzo per ridurre le sofferenze sapendo che è impossibile eliminarle del tutto, a meno che non si preferisca eliminare i sofferenti, sempre naturalmente per motivi umanitari (non li facciamo soffrire più). Vorrei che i miei ipotetici contraddittori trovassero il tempo di leggere il recente volume di Adrian Owen “Nella zona grigia” sottotitolo “Un neuroscienziato esplora il confine tra la vita e la morte”. Credo che vacillerebbero molte certezze.
E’ intollerabile l’ipocrisia di chi sostiene che in effetti è stato Fabo, tetraplegico, a premere con i denti il pulsante che ha consentito al veleno di ucciderlo rapidamente. Se un medico inietta endovena una sostanza venefica è omicidio (del consenziente) e come tale sanzionabile penalmente. Se gli porge il bicchiere che contiene il veleno è un benemerito che va lodato.
E l’allarme cresce quando si esulta per una sentenza di “civiltà”, che oltre tutto attribuisce al nostro Paese il non invidiabile primato di essere uno dei primi, se non il primo, ad aver legalizzato alcune forme di eutanasia, sia pure con stringenti paletti, considerandola il primo passo verso “le magnifiche sorti e progressive”? Quali?
La morte è sempre un dramma e l’esultanza è almeno fuori posto. E’ auspicabile che il Parlamento italiano, quando si deciderà di varare una legge sul “fine vita” (Giovanni Mammone primo Presidente della Corte di Cassazione, si è chiesto: “può un giudice regolare controversie implicanti principi etici di contenuto primario, ……. senza avere una diretta base normativa di natura legislativa?”), consideri i casi previsti dalla Corte Costituzionale non il primo ma l’ultimo passo per il futuro di una società civile, che tale è non solo perché non vi sono nelle strade cartacce o mozziconi di sigarette (vedi Nord Europa ove si auspica e si determinano le condizioni per la cosiddetta “down syndrome free”, praticando di fatto, una inaccettabile selezione eugenetica).
Io mi auguro di vivere e morire in una società in cui la sofferenza sia contrastata nei limiti del possibile, ma la disabilità sia rispettata e protetta, sempre ispirata dall’autodeterminazione del paziente (come prescritto dalla legge 219/2017).
Dr. Bruno Ravera
Già Presidente Omceo Salerno
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