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Lunedì 13 GENNAIO 2020
Le professioni sanitarie e la via obbligata del dialogo
Il mio auspicio, confermando il mio compiacimento per il decreto del ministro Speranza istitutivo della Consulta delle professioni, come potete immaginare, è che la Consulta non si limiti a gestire il conflitto ma si adoperi per superarlo, facendo in modo che prenda forma quanto meno una ipotesi di riforma del lavoro senza la quale sono convinto che si resterebbe tutti nel flipper a sbattere come palline impazzite litigando tra di noi
Il ministro Speranza, su proposta del presidente della Fnomceo, e, naturalmente, con il consenso implicito di tutte le federazioni ordinistiche, con decreto, ha istituito la consulta permanente delle professioni sanitarie e socio sanitarie.
Sull’opportunità del decreto sono del tutto d’accordo con quanto dichiarato, soprattutto dalla Federazione Tsrm-Pstrp che, senza se e senza ma, a differenza di altri, non ha esitato a definirla:
• una "iniziativa straordinariamente innovativa",
• “una grande opportunità” offerta alle professioni...
...sottolineando, nello stesso tempo, la necessità fin da subito :
• di dotarsi di un “metodo” iniziando a definire le premesse di partenza,
• di chiarire quale dovrebbe essere la stella polare da seguire vale a dire gli interessi e i diritti “degli individui assistiti” e l’interesse generale della collettività. Quindi giustamente l’art 32 della Costituzione.
La natura politica del conflitto
L’istituzione della consulta si è resa necessaria in ragione dei conflitti sempre più crescenti tra professioni quelli che da anni tormentano la sanità e l’esercizio corretto della medicina.
I conflitti tra professioni, con relazioni obbligatorie di complementarietà di reciprocità e di contiguità, non sono antichi, ma abbastanza recenti. Essi dopo un periodo di latenza legati a tanti cambiamenti culturale e sociali, prendono forma, in modo sempre più visibile, a partire dagli anni 90, quando la stessa idea storica di “complementarietà” inizia ad essere ridiscussa, cioè quando, almeno sulla carta, inizia a cambiare:
• la classica forma storica di cooperazione tra le professioni basata sull’ausiliarietà di certe professioni rispetto ad altre,
• il percorso formativo.
Non serve chiarire per l’ennesima volta l’origine di questi conflitti, basti dire che:
• se per via normativa cambia la forma storica di cooperazione tra professioni, (legge 42) senza che subentri una nuova idea di prassi e di organizzazione della prassi, quindi un nuovo modo di operare e di cooperare delle professioni,
• inevitabilmente si crea uno jato tra la normativa, quindi la definizione formale delle professioni e i suoi percorsi formativi, e la realtà di lavoro degli operatori, che non cambia mai.
La conseguenza è che:
• la realtà di lavoro tende a negare la normativa o a renderla del tutto inutile,
• le professioni “ingannate” dalla realtà che non cambia mai tendono a trovare soluzioni in altro modo quasi sempre per via normativa soprattutto forzando gli schemi fino a parlare di “contendibilità e fungibilità dei ruoli”.
Aggirare l’ostacolo
Non da ora, sostengo che le “competenze avanzate”, intese come trasferimento di compiti da una professione a un’altra, sono alla fine un ripiego strategico per aggirare il nodo politico che sino ad ora non si è riusciti a sciogliere, che resta quello della riforma del lavoro. Quindi esse sono una grossolana semplificazione del problema.
La loro pretesa, a lavoro invariante, organizzazione del lavoro invariante, servizio invariante, (particolarmente l’ospedale) è di ridurre tutto a “compiti” riproponendo di fatto una logica mansionistica di vecchio stampo.
L’effetto politico di questa pretesa, irresponsabilmente strumentalizzata dalle regioni, per motivi di risparmio, è:
• la crescita della conflittualità tra professioni,
• il venir meno, a danno del malato, del valore della complementarietà delle diverse professionalità,
• l’affermarsi di una sorta di solipsismo professionale in ragione del quale una professione non può che affermare che la propria singolarità operatività in quanto ogni altra realtà professionale si risolve solo nel suo proprio interesse,
• l’affermarsi di uno spirito corporativo a dispetto dell’interesse del malato che per sua natura tende a contrapporre il proprio interesse sempre contro altri interessi.
Controriformare per non riformare
Ho già fatto notare (QS, 10 dicembre 2019) che alcune professioni si sono affrettate a sostenere il regionalismo differenziato, cioè una vera e propria controriforma di sistema, perché ritengono di poter avere, dai nuovi poteri regionali, maggiori vantaggi professionali di tipo corporativo. Nessuno di costoro ripeto nessuno però ha detto una sola parola contro il dm 70 cioè contro l’invarianza dell’ospedale.
Il dm 70, come ho chiarito anche di recente (QS, 9 gennaio 2020), non è altro che la definizione dell’ospedale minimo consentito, attraverso la trasposizione, sotto forma di regolamento, dei principali parametri organizzativi della riforma Mariotti del 1968, arricchiti con alcune variabili, ma i quali si fondano sulla vecchia divisione del lavoro tra medici e altre professioni ma soprattutto su una idea superata di lavoro ospedaliero. Quello che ruota esclusivamente intorno al posto letto.
Si può essere diversamente ospedalieri a prescindere dall’ospedale?
Chiedo a costoro: come pensate di risolvere i vostri problemi evolutivi con un ospedale che tende a ridursi come “volume” ma il cui paradigma non cambia mai?
Cioè voi volete, essere altro da quello che siete sempre stati in passato, ma in un ospedale che resta, come organizzazione tale e quale all’ospedale definito da Petragnani nel 1938 e poi da Mariotti nel 1968 e che, ricordo a tutti, si fonda sull’ausiliarietà delle professioni.
La formula è quella canonica: le attività e le funzioni assistenziali sono esercitate esclusivamente nei limiti di una consuetudinaria divisione del lavoro.
Il dm 70, come ho scritto, insiste a organizzare l’ospedale sulla base del posto letto ma, nessuno fino ad ora, neanche il ministero della salute, ha concepito la possibilità di ri-organizzarlo a partire dal lavoro, dalle professioni, dal grado di complessità, da una nuova idea di cura, da nuove prassi e da nove modalità relazionali.
L’integrazione “ospedale/ territorio”, quindi il sistema duale, che prende forma con la nascita contestuale delle condotte mediche e dell’ospedale moderno, non è un problema di strutture ma è un problema di lavoro. Se non si integra il lavoro in qualche modo riunificandolo almeno giuridicamente, non riusciremo mai a mettere in piedi un sistema integrato. Per integrare l’ospedale con il territorio, il lavoro va ripensato, secondo me, se fosse possibile, anche nelle sue forme contrattuali.
Non si tratta più di dedurre il lavoro dal posto letto ma di fare il contrario: dedurre da una idea nuova di lavoro una sua nuova organizzazione.
Il valore politico della consulta
Per comprendere il valore politico della consulta non è possibile ignorare i nodi mai sciolti che si nascondono dietro le competenze avanzate e che ho appena tentato di segnalare.
Oggi le professioni sono come in un flipper nel senso che come tante palline di acciaio impazzite sbattono di qua e di la con gran fracasso e senza che nessuno, a partire dal malato, ne abbia veramente un vantaggio.
Il primo merito che riconosco al ministro Speranza è quello, diversamente da tutti i ministri che lo hanno preceduto, di farsi carico per prima volta del grande problema della conflittualità tra operatori o quanto meno di non ignorarlo.
In ragione della complessità di tale questione che, ribadisco, richiama l’urgenza di una riforma del lavoro, fino ad ora, cioè in questi anni, la politica, più specificatamente il PD, ha fatto due gravi errori:
• ha assecondato per ragioni di consenso politico e in mancanza di una nuova idea di lavoro, le spinte corporative delle professioni incurante di creare una conflittualità pericolosa(comma 566),
• nel momento in cui la conflittualità è esplosa, il PD incapace di governarla se l’è data a gambe levate abbandonando le professioni ai loro conflitti e passando la palla alle regioni.
Il significato politico della consulta è quello, da parte del governo, di riprendere in mano la questione con l’evidente obiettivo di trovare un accordo per uscire dal flipper.
Il valore supremo della pace
Il secondo merito che riconosco al ministro Speranza e al presidente della Fnomceo è la scelta politica di rispondere al conflitto con il dialogo.
Mi ha molto colpito l’appello alla pace del presidente Anelli (QS, 8 gennaio 2020) in riferimento ai nuovi venti di guerra che soffiano in medio oriente, ma in realtà quello che mi ha colpito, ancora di più, è la coerenza nel contrastare, nello stesso modo, qualsiasi tipo di guerra, sia quella che avviene nel deserto sia quella che avviene nelle nostre corsie e nei nostri servizi. Sempre di guerra si tratta.
La guerra per un epistemologo è null’altro che una relazione di opposizione il cui campo è fatto dall’insieme dei dominanti e dei dominanti inversi, e che proprio perché ha una forma oppositiva, ha sempre delle vittime per definizione “innocenti”.
Per noi, per le nostre deontologie, il malato, rispetto alle nostre guerre interne, è sempre per definizione “innocente” anche se tutti per farsi i fatti propri dicono di farlo in nome del malato(sic). Il dialogo come condizioni di pace e la pace come condizione per il dialogo mi sembra una intuizione politicamente molto significativa. Chapeau.
Il significato di dialogo
Nell’art. 1 del decreto è chiaramente scritto che lo scopo della consulta è favorire il dialogo tra le professioni, tra le professioni e le istituzioni, tra le professioni e i cittadini. Quindi la consulta rifiuta a priori il conflitto come soluzione ai problemi delle professioni.
In tutta franchezza, leggendo certe dichiarazioni, non so quanto saranno sinceramente contenti coloro che fino ad ora, hanno basato la loro azione rivendicativa sui colpi di mano, sulle forzature istituzionali, sugli escamotage contrattuali, sui rapporti consociativi con la politica (con chiunque dia loro retta) e le regioni.
Non so quanto saranno contenti, del metodo del dialogo, coloro che in questi anni, per perseguire i propri interessi hanno cercato di evitare qualsiasi forma di concertazione. Dialogo e concertazione non sono la stessa cosa ma ci si augura che alla fine grazie alla consulta lo diventino.
“Se faccio di più sono di più”
Vale la pena di chiarire che, per la medicina e imparando dai filosofi del nostro tempo, il dialogo:
• non è semplicemente una conversazione tra la Mangiacavalli, Beux e Anelli cioè tra punti di vista diversi,
• ma dovrebbe essere un momento di elaborazione interprofessionale, tramite il quale, qualsiasi professione si avvale, per la sua propria definizione, delle altre professioni.
Questo è il senso profondo della mia idea di “coevoluzione” che alcuni commentatori a margine dei miei articoli, faticano a comprendere e che nel decreto è indicata, nelle premesse, in termini di “intensificazione della sinergia multi-professionale”.
In medicina, soprattutto nel processo di cura, ogni professione, per essere compresa, deve definirsi sempre in relazione ad altre professioni.
E’ la questione moderna del rapporto tra l’io e l’altro (Derrida, Levinas, Gadamer, Foucault, Hiedegger ecc). Altrimenti addio complementarietà.
Rammento, ma solo per deformazione professionale, che l’idea di complementarietà tra professioni si oppone:
• al solipsismo cartesiano tipico delle competenze avanzate di un “cogito” unicamente soggettivo (faccio di più quindi sono di più cioè solo se faccio di più sono di più),
• alla visione cartesiana che riduce il malato a macchina che in quanto tale si può smontare in pezzi e quindi in competenze o in mansioni.
Senza dialogo quindi non può esserci coevoluzione. Dialogo coevoluzione e concertazione, pace, sono praticamente la stessa cosa.
Dissento dalla Fials
Dopo aver letto la lettera al direttore a firma del presidente della Fials (Qs, 10 gennaio 2020) mi preme di chiarire, che da quello che ho capito, la consulta non surroga nessuno ne i sindacati ne le istituzioni. La Cimo quindi ha tutto il diritto di fare ricorso contro la delibera del Veneto anzi, per quello che mi riguarda, considero il suo ricorso, un importante elemento di chiarezza e un avvertimento alle regioni di ponderare meglio ciò che fanno (QS, 8 gennaio 2020).
La consulta come è ben definito nell’art. 2, opera nell’ottica dell’integrazione e dell’interdipendenza delle diverse professioni, collabora con le istituzioni, presumo e spero anche con il sindacato, per applicare le norme esistenti al meglio, propone studi e ricerche e formula proposte in materia di formazione per cui si pone un problema di rapporto con il Miur.
Suggerisco alla consulta, sia nei confronti delle regioni che del Miur di definire, a proposito di professioni, una preventiva procedura di consultazione.
Conclusioni
“Dialogo” quindi “nulla di più”, ma aggiungo anche, “nulla di più difficile”. Vale il detto che non c’è maggior sordo di chi non vuol sentire e temo che, i sordi, scusate il gioco di parole, in questa consulta, si faranno sentire o diserteranno le riunioni della consulta. Staremo a vedere.
Il mio auspicio, confermando il mio compiacimento per il decreto, come potete immaginare, è che la consulta non si limiti a gestire il conflitto ma si adoperi per superarlo, facendo in modo che prenda forma quanto meno una ipotesi di riforma del lavoro senza la quale sono convinto che si resterebbe tutti nel flipper a sbattere come palline impazzite litigando tra di noi.
Ivan Cavicchi
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