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Venerdì 05 LUGLIO 2019
La Cassazione conferma: il tempo dei vestizione/svestizione degli infermieri va retribuito come prestazione di lavoro. E spiega il perché
Per i giudici della Cassazione (sezione lavoro, sentenza 17635/2019) si tratta di attività svolte nell'interesse dell'igiene pubblica che vanno retribuite essendo un obbligo imposto da esigenze superiori di sicurezza e igiene. LA SENTENZA.
Per un infermiere indossare e togliersi la divisa di lavoro (camice, mascherina, protezioni ecc.) fa parte dell’orario di lavoro e come tale va retribuito.
E’ questa una diatriba che ormai va avanti da tempo e che tutti i tribunali coinvolti hanno riconosciuto ai professionisti, fino a essere inserita come parte integrante dell’ultimo contratto.
Ma se questo non bastasse ora interviene l’ennesima sentenza della Cassazione (17635/2019) con cui la Corte riconosce - e spiega e chiarisce il perché - che il tempo che gli infermieri impiegano per indossare e dismettere la divisa rientra nell'orario di lavoro va autonomamente retribuito, poiché si tratta di attività integrativa dell'obbligazione principale e funzionale al corretto espletamento dei doveri di diligenza preparatoria.
La Cassazione è intervenuta questa volta per mettere la parola fine al contenzioso sorto tra alcuni infermieri e una Asl abruzzese in relazione al riconoscimento del diritto alla retribuzione del tempo impiegato per indossare e dismettere la divisa.
Il fatto
La richiesta degli infermieri era stata accolta dai giudici del Tribunale secondo cui per i professionisti indossare e dismettere la divisa di lavoro (camice, mascherina protettiva e così via) rappresenta un'attività obbligatoria, accessoria e propedeutica alla prestazione di lavoro.
In questo senso, secondo il Tribunale, si tratta di attività dovuta “per ragioni di igiene”, da effettuarsi negli stessi ambienti dell'Azienda e non a casa, prima dell'entrata e dopo l'uscita dai relativi reparti, rispettivamente, prima e dopo i relativi turni di lavoro.
La sentenza
Sulla stessa lunghezza d’onda del tribunale, la Cassazione ha confermato il principio e respinto il ricorso della Asl, anche in continuità con altre precedenti pronunce (Cass. n. 3901/2019; Cass. n. 12935/2018; Cass. n. 27799/2017) in cui è stato ribadito che le attività di vestizione/svestizione sono comportamenti integrativi della obbligazione principale e funzionali al corretto espletamento dei doveri di diligenza preparatoria.
Si tratta di attività, secondo la Cassazione, che non sono svolte nell'interesse dell'Azienda, ma dell'igiene pubblica e come tali devono ritenersi autorizzate da parte dell'Azienda stessa.
Inoltre, per il lavoro all'interno delle strutture sanitarie, il tempo di vestizione e svestizione dà diritto alla retribuzione, essendo l’obbligo imposto dalle esigenze di sicurezza e igiene che riguardano sia la gestione del servizio pubblico sia la stessa incolumità del personale addetto.
“Il più recente orientamento – si legge nella sentenza - rappresenta uno sviluppo del precedente indirizzo (del tutto in linea con il principio) ed una integrazione della relativa ricostruzione, ponendo l'accento sulla funzione assegnata all'abbigliamento, nel senso che l'eterodirezione può derivare dall'esplicita disciplina d'impresa ma anche risultare implicitamente dalla natura degli indumenti - quando gli stessi siano diversi da quelli utilizzati o utilizzabili secondo un criterio di normalità sociale dell'abbigliamento - o dalla specifica funzione che devono assolvere e così dalle superiori esigenze di sicurezza ed igiene riguardanti sia la gestione del servizio pubblico sia la stessa incolumità del personale addetto”.
La sentenza, nel dare ragione agli infermieri, riconosce che “pur con definizioni non sempre coincidenti, essendosi fatto riferimento, in alcuni casi al concetto di 'eterodirezione implicita', in altri all'obbligo imposto dalle superiori esigenze di sicurezza ed igiene, discendente dall'interesse all'igiene pubblica, in altri ancora all'esistenza di 'autorizzazione implicita', l'orientamento della giurisprudenza di legittimità è, dunque, saldamente ancorato al riconoscimento dell'attività di vestizione/svestizione degli infermieri come rientrante nell'orario di lavoro e da retribuire autonomamente, qualora sia stata effettuata prima dell'inizio e dopo la fine del turno”.
Soluzione questa in linea anche con la giurisprudenza comunitaria in tema di orario di lavoro (direttiva n. 2003/88/CE).
Secondo la spiegazione che la Cassazione dà nella sentenza “ciò che rileva … è unicamente che le attività preparatorie di cui trattasi siano state svolte all'interno dell'orario di lavoro - e come tali retribuite - o piuttosto, come accertato dalla sentenza impugnata, in aggiunta e al di fuori dell'orario del turno, dovendo in tal caso essere autonomamente retribuite.
Quanto all'effettuazione delle indicate prestazioni al di fuori del normale orario di lavoro (secondo la sentenza impugnata 'prima e dopo i relativi turni di lavoro’) la censura della ricorrente scivola, in modo inammissibile, sul piano dell'appezzamento del merito”.
“Con riguardo, poi, alle invocate norme, di legge e di contratto collettivo, relative alla disciplina del lavoro straordinario – chiarisce ancora la sentenza - si è già evidenziato che si tratta di attività che, in quanto svolte nell'interesse del servizio pubblico oltre che a tutela dell'incolumità del personale addetto, devono ritenersi implicitamente autorizzate dall'Azienda ed anzi da essa imposte, potendo in mancanza l'Azienda rifiutare di ricevere la prestazione; dette attività avrebbero dovuto, pertanto, essere comprese all'interno del debito orario”.
E la Corte di Cassazione sottolinea, respingendo il ricorso dell’Asl e dando ragione agli infermieri, che “l'obbligo di tale pagamento aggiuntivo (del tempo di vestizione/svestizione, appunto)non è collegato alla condanna alle spese, ma al fatto oggettivo - ed altrettanto oggettivamente insuscettibile di diversa valutazione - del rigetto integrale o della definizione in rito, negativa per l'impugnante, dell'impugnazione, muovendosi, nella sostanza, la previsione normativa nell'ottica di un parziale ristoro dei costi del vano funzionamento dell'apparato giudiziario o della vana erogazione delle, pur sempre limitate, risorse a sua disposizione”.
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