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Mercoledì 22 MAGGIO 2019
Cassazione. Anche se in grado di intendere e di volere, il paziente può scegliere comunque di nominare l’amministratore di sostegno al quale delegare le decisioni sulle sue cure future

A deciderlo è la Corte di Cassazione che, con l’ordinanza 12998/2019, ha respinto le sentenze del Tribunale prima e della Corte d’appello poi secondo cui la persona pienamente in grado di esprimersi, in questo caso un Testimone di Geova affetto da malformazione atero venosa che può provocare crisi emorragica e stato di incoscienza, non avrebbe potuto delegare qualcuno a decidere per lui. L'ORDINANZA.

L’amministratore di sostegno può essere nominato anche quando il soggetto che lo nomina è pienamente in grado di intendere e di volere, ma sa che per motivi di salute potrebbe non esserlo sempre. E a costui possono essere fin da subito delegati compiti di scelta sull’accettazione o il rifiuto delle eventuali cure salvavita da mettere in atto.

A deciderlo è la Cassazione che, con l’ordinanza 12998/2019, ha respinto le sentenze del Tribunale prima e della Corte d’appello poi secondo cui la persona pienamente in grado di esprimersi non avrebbe potuto delegare qualcuno a decidere per lui.

Il fatto
La moglie di un Testimone di Geova ha chiesto la sua nomina quale amministratore di sostegno del marito che l’aveva già designata a questa funzione con scrittura privata prima e procura speciale poi.

Motivo: l’infermità o menomazione psichica o fisica (il marito è affetto da malformazione atero venosa, MAV,  che può provocare crisi emorragica e stato di incoscienza) e l'incidenza di tali condizioni sull'impossibilità del soggetto di provvedere ai propri interessi.

La Corte d’Appello però ha ritenuto che il requisito soggettivo per l’amministratore di sostengo riguardi uno “stato di totale incapacità d'intendere e di volere”, mentre la norma contempla il concetto di "infermità", ossia una malattia o patologia fisica o mentale, “non necessariamente involgente una totale incapacità di provvedere ai propri interessi”, che può anche essere parziale e temporanea.
 
L’ordinanza
La Cassazione ha respinto l’interpretazione della Corte d’Appello "… laddove afferma che il presupposto essenziale dell'amministrazione di sostegno, costituito dall'impossibilità del beneficiario, anche parziale e temporanea, di provvedere ai propri interessi, per effetto di una infermità o di una menomazione fisica e/o psichica, sarebbe - nella specie - insussistente. E ciò sulla base del mero rilievo, evidenziato nel provvedimento impugnato, che - il richiedente, comparso personalmente all' udienza, è apparso allo stato pienamente capace di intendere e di volere".

La Cassazione precisa poi che l'art. 408 c.c (scelta dell’amministratore di sostegno) ammette la nomina preventiva dell'amministratore di sostegno in vista della propria futura incapacità, espressione "del principio di autodeterminazione della persona, in cui si realizza il valore fondamentale della dignità umana".

“Né il rifiuto delle terapie medico-chirurgiche, anche quando conduce alla morte – ricorda la Cassazione -  può essere scambiato per un'ipotesi di eutanasia, (omicidio del consenziente, art. 579 c.p., o aiuto al suicidio, art. 580 c.p.), ossia per un comportamento che intende abbreviare la vita, causando positivamente la morte, giacché tale rifiuto esprime piuttosto un atteggiamento di scelta, da parte del malato, che la malattia segua il suo corso naturale.

“Il consenso informato – sottolinea la Cassazione - ha come correlato la facoltà non solo di scegliere tra le diverse possibilità di trattamento medico, ma, atteso il principio personalistico che anima la nostra Costituzione (la quale vede nella persona umana un valore etico in sé e guarda al limite del ‘rispetto della persona umana’ in riferimento al singolo individuo, in qualsiasi momento della sua vita e nell'integralità della sua persona, in considerazione del fascio di convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofiche che orientano le sue determinazioni volitive) e la nuova dimensione che ha assunto la salute (non più intesa come semplice assenza di malattia, ma come stato di completo benessere fisico e psichico, e quindi coinvolgente, in relazione alla percezione che ciascuno ha di sé, anche gli aspetti interiori della vita come avvertiti e vissuti dal soggetto nella sua esperienza), altresì di eventualmente rifiutare la terapia e di decidere consapevolmente di interromperla, in tutte le fasi della vita, anche in quella terminale”.

Secondo la Cassazione “ciò assume connotati ancora più forti, degni di tutela e garanzia, laddove il rifiuto del trattamento sanitario rientri e sia connesso all'espressione di una fede religiosa il cui libero esercizio è sancito dall'art. 19 Cost”.

La Corte europea dei diritti dell’uomo, ricorda la Cassazione, ha riconosciuto il diritto di rifiutare le terapie salvavita anche in anticipo se il soggetto è pienamente capace di intendere e di volere.

Quindi secondo la Cassazione, la Corte d’Appello sbaglia rigettando il reclamo dei coniugi ritenendo necessaria un'autonoma azione di accertamento perché, “a causa della perdita di coscienza provocata dalle emorragie tipiche dalla MAV, egli non sarebbe in grado di esprimere un rifiuto o un consenso consapevole alle trasfusioni salvavita”.

Tutto questo anche alla luce del fatto che dalla certificazione il marito risulta "ben consapevole del rischio di morte che corre in caso di shock emorragico violento, e che - essendo Testimone di Geova fin dal 1982 - nell'evenienza tali crisi, in special modo se sedato, non potrebbe in alcun modo manifestare il proprio dissenso alla terapia trasfusionale".

“Peraltro – precisa la Corte nell’ordinanza -  la motivazione adottata dalla Corte d'appello appare anche contraddittoria nell'affermare che la procedura diretta alla nomina dell'amministratore di sostegno non sia funzionale alla tutela del diritto avente a oggetto il rifiuto di essere sottoposto ad un trattamento terapeutico, e che essa richiederebbe invece l'esercizio di un'autonoma azione di accertamento, in quanto tale azione, nella fattispecie in esame, seppure esperita dal marito, non garantirebbe, di per sé, la realizzazione del diritto fatto valere, poiché, nell'ipotesi dell'evenienza delle paventate crisi emorragiche, egli sarebbe verosimilmente privo della capacità di agire e necessiterebbe comunque della nomina di un rappresentante legale - anche nella qualità di amministratore di sostegno - il quale, in nome e per conto dell'interessato, esprima il diniego attuale del trattamento fondato su trasfusioni ematiche”.

Per questo la cassazione ha respinto la decisione della Corte d’Appello a cui ha rinviato, in altra composizione,  il ricorso, anche per quanto riguarda le spese del grado di legittimità.

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