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Giovedì 04 APRILE 2019
La cultura medica e la pratica di cura
Non è necessaria una ridefinizione dei domini della medicina anche sul terreno delle conoscenze e del modo di usarle, che la questione medica fatta di tanti problemi che riguardano l’esercizio professionale non si risolve con la “libertà nel metodo” ma assicurando un buon bagaglio culturale al medico. La “questione medica”, che non nego, va risolta partendo dal contenitore ed è culturale, formativa, organizzativa e politica e guarda caso non interessa solo i medici
Vorrei ritornare sulla centralità del metodo clinico nell’esercizio professionale per discoprire la natura fondamentalmente interpretativa delle procedure cliniche. Ci sono tre generi di cultura che costituiscono il bagaglio del medico: la fisiopatologica che mira alla spiegazione, la cultura della clinica individuale che si qualifica soprattutto per l’aspetto descrittivo e infine la cultura statistico analitica che mira ad oggettive prove di efficacia. Tutte e tre sostengono l’opera del medico nella finalità propria della medicina.
La cultura fisiopatologica (R. Vircow) ha contribuito a creare la nosologia, per cui le malattie non sono entità naturali ma astrazioni costruite a fini pratici e come effetto di una causa specifica,per un pregiudizio di linearità, sono guaribili rimuovendone le cause. Ci sono in questa cultura diversi limiti. Sappiamo che è possibile che una singola causa provochi o favorisca più malattie in pazienti o contesti diversi, oppure, che l’inizio e la virulenza di una malattia dovuta ad una specifica causa possano essere favoriti da circostanze e condizioni particolari; ma anche che un fenomeno casuale può dare origine ad una malattia. La cultura fisiopatologica è espressione di un atteggiamento razionalistico e mira a delineare una cornice concettuale ed esplicativa dei dati clinici osservati. I medici, che si affidano a questo approccio, sono convinti che la terapia si deduca dalla spiegazione e non si preoccupano che le conseguenze siano confermate, poiché ritengono che la buona qualità della spiegazione possa essere compatibile con sempre possibili ed eventuali smentite empiriche.
C’è, come si capisce, una dose di dogmatismo, arbitrarietà e di scarsa controllabilità in questo approccio razionalistico,soprattutto se assunto come indirizzo primario da parte del medico. Non si può poi ignorare che parecchi eventi morbosi sfuggono alla classificazione nosologica a noi disponibile e la predizione dell’andamento delle malattie è difficile. Le proprietà di fenomeni complessi non possono essere spiegate sulla base delle peculiarità dei fenomeni più semplici. Sappiamo dalle scienze “omiche” che c’è una irriducibilità della proprietà dell’individuo alle proprietà delle parti. Le malattie non dipendono solo da “lesioni molecolari” perché il genoma è aperto verso l’esterno, influenzato dalle funzioni fisiologiche, dall’ambiente e dalle esperienze. Anche i geni non funzionano in isolamento, ma fanno parte di reti complesse a loro volta interagenti con le tappe metaboliche. La complessità dei sistemi biologici rimette pertanto in auge la prospettiva ontologica del malato. In conclusione, la cultura fisiopatologica favorisce e sostiene la classificazione nosologica con il fine pratico per il medico di porre la diagnosi e attuare una possibile cura.
La cultura clinica si fonda sul metodo clinico inteso come procedura o insieme di procedure basate sul riconoscimento della malattia. Il medico opera in un continuo andirivieni, alla ricerca di analogie, differenze, somiglianze, contraddizioni e sovrapposizioni, tra la costellazione delle informazioni raccolte e provvisoriamente “assemblate” (dati anamnestici e soggettivi, semeiotica fisica, esiti degli accertamenti etc..) e i “prototipi” di malattia raccolti e standardizzati nella letteratura scientifica (sintomi patognomonici, criteri di inclusione ed esclusione, stadiazioni cliniche, flow-chart, protocolli diagnostici etc..). Il processo di acquisizione ed elaborazione dell’informazione può essere lungo e anche passare attraverso la diminuzione della probabilità di certe ipotesi e la loro conseguente eliminazione (abduzione).
Nelle dispute tra metodologi emerge con chiarezza che il medico non procede per confutazioni ma solo per conferme e alla fine pone la diagnosi in assenza del massimo grado di affidabilità, limitandosi ad un grado di credibilità che gli permette di prendere immediatamente le opportune decisioni terapeutiche. Il modo di procedere non è quello previsto da Popper nella ricerca scientifica, perché è solo sufficiente un buon grado di certezza. La metodologia clinica, pertanto, si presenta come una disciplina autonoma e distinta, pur avendo alcune analogie con il metodo scientifico.
Alla fine del secolo scorso D.L. Sackett ha affermato che quattro sono le strategie utilizzate dal clinico nel procedimento diagnostico: la gestaltica (dal tedesco “Gestalt” che significa forma, schema, rappresentazione, riconoscimento dei quadri), quella ad albero decisionale (regole algoritmiche), la strategia dell’esaurimento (anamnesi ed esame fisico completi) e la strategia ipotetico-deduttiva (formulazione di un ristretto gruppo di ipotesi diagnostiche, seguite da “indagini” deduttive di verifica). È un procedimento logico che giunge a conclusioni di tipo pratico.
Ma c’è dell’altro; la Scienza moderna e la Filosofia moderna ci avevano sempre dimostrato la debolezza del metodo induttivopiù incline, invece, a considerare il malato nella sua singolarità (necessità di numerosissime osservazioni, nessuna garanzia che l’ennesimo fenomeno futuro debba presentarsi come i precedenti, arbitrarietà delle generalizzazioni ecc.), mentre la forza del metodo deduttivo (conservazione delle premesse date, coerenza con le premesse date, previsione logica dei fatti non ancora osservati, possibilità di riconoscere come false quelle conclusioni non in linea con le premesse ecc.) appariva più coerente con il pensiero medico scientifico moderno. Oggi la mole dei dati digitali costituiti dalle tracce rilasciate nell’ambiente mediante l’uso di tecnologie informatiche (big data) risolvono diversi problemi e portano nuova linfa al pensiero induttivo nell’esercizio clinico, anche nella variante bayesiana descritta da Cesare Scandellari.
Il teorema di Bayes può essere inteso come una descrizione del modo in cui dovrebbe cambiare l’opinione del clinico in seguito all’acquisizione di nuova informazione. Lo scopo del clinico non è quello di arrivare a nuove conoscenze, non di scoprire, ma di riconoscere una patologia (A. Murri). In queste considerazioni sta la ragione che le conoscenze di ordine generale, pur indispensabili, non potranno mai sostituire l’incontro epistemico con la singolarità del paziente.
Veniamo ora alla clinica sul versante umano. Nell’esercizio della medicina è stata sempre presente una circolarità tra fatti e valori anche in pieno positivismo (“unico libro è il malato, unico codice è il cadavere” affermava Antonio Cardarelli, cui rispondeva Achille De Giovanni “Non malattie ma individui malati si devono trattare”). Sara Ford nel 2003 scrive: “la scoperta dei valori del paziente precede il processo decisionale ed è necessaria prima di applicare le prove, la prospettiva del paziente è saliente anche quando si tenta di stabilire la natura del problema, analogamente il condividere informazioni basate sulle prove di efficacia è un prerequisito per poter prendere delle decisioni condivise”. Mario Austoni, maestro della scuola Padovana, in piena rivoluzione tecnologica della medicina soleva affermare che “la medicina è una sintesi felice di scienza, etica, pensiero esistenziale”.
L’esercizio clinico detiene costitutivamente già tutti questi concetti che stanno alla base di un giudizio clinico corretto; il medico prende coscienza al letto del malato dei problemi di salute spesso molteplici, considera la prognosi globale piuttosto di quella delle singole malattie, gerarchizza le sue decisioni e i momenti degli interventi terapeutici anche in relazione con la prognosi, si pone come obiettivo la qualità di vita del paziente oltre che la sua quantità, evita terapie futili o eccessive non volendo perseguire guarigioni improbabili, si confronta con la cronicizzazione frutto dell’efficacia solo parziale delle terapie. In tutto questo è fondamentale “l’ascolto” che permette di non separare nel giudizio i fatti dai valori che sono sicuramente fonte di conoscenza. Ecco la natura fondamentalmente interpretativa, ermeneutica dell’intero processo clinico.
Se questi aspetti sono stati oscurati negli anni recenti non sono di certo ascrivibili al paradigma della cura che questi limiti li ha sempre ricompresi, ma ad una scorciatoia intellettuale favorita da una cultura anche accademica, dove il rapporto con la scienza si riduce al prodotto tecnologico, alla tecnologia dell’ultima “App”, ovvero il rapporto tra soggetto e scienza passa attraverso la tecnologia. La scienza è considerata non un valore strumentale e ma un fine a se stessa. Non c’è nulla di nuovo nella clinica, dove la decisione finale scaturisce dal giudizio clinico in cui la verità scientifica si confronta con la specificità del malato (Austoni).
Per ultima la cultura statistico-analitica che mira ad oggettive prove di efficacia. In questa cultura che pone la propria fiducia nell’evidenza scientifica prodotta dai trial clinici pubblicati sulle riviste biomediche, si può cogliere l’idea di sfidare la complessità, consci della vulnerabilità della conoscenza imperfetta degli elementi e delle capacità razionali. Quanti l’hanno criticata, tra cui anche M. Austoni, C. Scandellari, G. Federspil, docenti e miei maestri della scuola medica di Padova, vedevano in questo approccio metodologico un mezzo incompleto soprattutto per la mancanza di riferimenti di fisiopatologia e di farmacologia, spesso necessari per adeguare i trattamenti alla variabilità clinica. Si faceva presente il paradosso che, nonostante il numero enorme di pubblicazioni attorno ai concetti e alla pratica dell’EBM, mancavano ancora prove conclusive che dimostrassero come l’applicazione di tale approccio migliorasse la qualità della pratica medica.
L’EBM aveva grossi limiti perché si poteva utilizzare prevalentemente per decisioni terapeutiche e soprattutto nella mono-patologia. Era di utilità se la patologia si presentava omogenea e settoriale (specialistica) ma non era ugualmente disponibile per la cronicità e per altri livelli delle cure (supporto psicologico, modalità di erogazione delle prestazioni, problemi legati alla deprivazione, reti di supporto sociale); presentava inoltre errori di selezione perché espressione di trials clinici controllati. Tutte critiche che ancora oggi mi sento di condividere e a mio avviso non sono confutabili. Penso, pertanto, che la proposta di linee guida che scaturiscono dalla EBM abbiano solo rilevanza descrittiva e non prescrittiva e questo vale nell’assistenza e cura al paziente anche in termini di rischi e benefici di scelte alternative. Pure raccomandazioni!
Queste tre culture summenzionate dovrebbero essere presenti in egual misura nel bagaglio culturale del medico, medico che dovrebbe prestare loro la stessa attenzione nell’azione di cura. Ma la realtà è, come sappiamo, ben diversa. La formazione del medico si propone ancora come una catena di montaggio fondata solo su evidenze e non si promuove invece un’educazione quale costruzione di significati. Nell’insegnamento si impiegano diversi concetti quali: fatto, oggettività, ipotesi, teoria, legge, prova, controprova, verifica, conferma, falsificazione, osservazione, probabilità, spiegazione, esperimento, determinismo, finalismo, riduzionismo, ma non si fornisce allo studente una informazione critica sul loro valore e sulla portata reale di ciascuno, per cui gli si negano gli strumenti metodologici per sottoporre ad analisi gli scopi e i valori della disciplina medica.
Lo studente apprende in modo acritico, e spesso in maniera approssimativa, concetti che dovrebbero costituire l’ossatura del suo modo di ragionare che lo dovrebbe condurre sempre a privilegiare il confronto, abbandonando assolutismi del sapere che spesso appaiono un ostacolo più che una risorsa terapeutica. L’EBM è stata adottata dalla sanità pubblica e dai suoi decisori con l’obbiettivo pratico di sfidare la complessità clinica con riflessi nell’organizzazione delle cure nelle tecnologie, nelle burocrazie, nei rapporti istituzionali e professionali. Sull’EBM si è impostata la ricerca di qualità nell’assistenza, il governo dell’informazione ai cittadini sull’efficacia degli interventi sanitari, il finanziamento delle cure e della ricerca cercando di realizzare un gioco a somma zero tra attivitàclinico-assistenziale, cooperazione scientifico-tecnologica e procedure organizzative e loro costi.
Mi sento pertanto di affermare che non è necessaria una ridefinizione dei domini della medicina anche sul terreno delle conoscenze e del modo di usarle, che la questione medica fatta di tanti problemi che riguardano l’esercizio professionale non si risolve con la “libertà nel metodo” ma assicurando un buon bagaglio culturale al medico.
La “questione medica”, che non nego, va risolta partendo dal contenitore ed è culturale, formativa, organizzativa e politica e guarda caso non interessa solo i medici.
Maurizio Benato
Componente Gruppo di lavoro Stati Generali e Consulta Deontologica Fnomceo
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