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Martedì 12 MARZO 2019
Alzheimer: scoperte 5 nuove varianti geniche che ne aumentano il rischio

Il rischio di Alzheimer ad esordio tardivo (LOAD) è in parte dovuto alla genetica. Un consorzio internazionale, l’IGAP, ha appena individuato 5 nuovi loci (che si aggiungono ai 20 già scoperti) che conferiscono un rischio aumentato, grazie ad una metanalisi di studi dagli studi GWAS che ha coinvolto oltre 94 mila soggetti. Uno sforzo collaborativo enorme, in parte finanziato dai National Institutes of Health americani, dei quali dà notizia il presidente dei NIH Francis Collins sul suo blog.

Riuscire a prevedere chi si ammalerà di Alzheimer più avanti, nel corso della vita e soprattutto capire come utilizzare queste informazioni per la prevenzione è il core business della ricerca. Nature Genetics di questa settimana dà un grande impulso in questa direzione, pubblicando i risultati del più grande studio genetico sull’Alzheimer mai realizzato finora.
 
Obiettivo di questo studio ambizioso non è stato solo quello scoprire quali sono i geni coinvolti in questa patologia ma anche capire come funzionino ed interagiscano uno con l’altro; e accanto a quanto scritto nel DNA, anche le complesse influenze biologiche, ambientali e di stile di vita implicate nel determinismo di questa patologia neurodegenerativa.
 
Lo studio è stato condotto da unteam di ricercatori internazionale, in parte finanziati dai National Institutes of Health americani, ed ha coinvolto oltre 35 mila soggetti con Alzheimer ad insorgenza tardiva (LOAD). Tra i risultati ottenuti, l’individuazione di nuove varianti a carico di 5 geni, che conferiscono un aumentato rischio di Alzheimer e la scoperta di alcune vie molecolari coinvolte in questa patologia, che potrebbero diventare nuovi target di prevenzione. Questo mega-studio ci consegna peraltro non solo novità, ma anche la conferma del ruolo di un’altra ventina di varianti geniche che studi precedenti avevano correlato all’Alzheimer.
 
“Questo che è il più grande studio genomico sull’Alzheimer mai realizzato – commenta  Francis Collins, direttore degli NIH nel suo blog - suggerisce un ruolo centrale dei geni coinvolti nel processamento dei peptidi beta-amiloide alla base delle placche cerebrali, che rappresentano un importante indicatore della malattia. Per la prima volta inoltre sono state scoperte le prove di un legame genetico con le proteine che legato la tau, cioè la proteina responsabile dei cosiddetti ‘grovigli’, quelle formazioni presenti nel cervello che aumentano di pari passo con il declino cognitivo dei pazienti con Alzheimer.”
 
Gli autori della ricerca fanno parte del consorzio International Genomics of Alzheimer’s Project (IGAP), che coordina a sua volte le ricerche di 4 consorzi sull’Alzheimer, tra Usa ed Europa, ed è stato varato nel 2011 con l’obiettivo di scoprire e mappare tutti i geni implicati nell’Alzheimer.
 
Un precedente studio dell’IGAP su oltre 25 mila persone con Alzheimer late onset aveva portato all’individuazione di 20 comuni varianti geniche che impatto sul rischio di sviluppare la malattia in tarda età. Un grande progresso, senza dubbio, seguito da una mezza doccia fredda: queste varianti rappresenterebbero infatti appena un terzo delle componenti genetiche implicate in questa malattia. Il lavoro insomma è solo all’inizio. Gli studio GWAS (genome-wide association) consentono di fare una rapida ‘scrematura’ delle varianti geniche più frequentemente associate con una malattia o con altri tratti; ma per scoprire le varianti più rare, il lavoro di ricerca deve essere più certosino e utilizzare un campione molto più vasto di popolazione.
 
Per questo, i ricercatori sono andati ad analizzare i dati genomici di oltre 94 mila soggetti, compresi 35 mila che avevano ricevuto una diagnosi di Alzheimer in età avanzata e di altri 60 mila non affetti da questa patologia. La ricerca ha portato alla scoperta di varianti a carico di altri 5 geni inediti (IQCK, ACE, ADAM10, ADAMTS1 e WWOX) associate all’Alzheimer ad esordio tardivo. Sono stati inoltre scoperti alcuni geni che influenzano il processamento della beta amiloide e l’accumulo delle proteine tau e, accanto a questi, altri che sembrano contribuire al determinismo di questa patologia attraverso il metabolismo lipidico e il funzionamento del sistema immunitario.
 
E’ chiaro che ognuna di queste nuove varianti contribuisce ad aumentare il rischio di malattia di pochissimo e dunque, presa singolarmente non è di grande aiuto nel contribuire a calcolare il rischio di un determinato soggetto. Il loro valore è invece enorme nell’aiutare a comprendere sempre meglio la patogenesi di questa malattia e nel suggerire nuovi potenziali target terapeutici. Le nuove scoperte ad esempio hanno messo in luce varie analogie tra l’Alzheimer ad esordio precoce e tardivo; ciò significa che i farmaci in sviluppo per le forme precoci della malattia, potrebbero funzionare anche sui soggetti ad esordio tardivo, che poi sono la maggior parte.
 
Maria Rita Montebelli

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