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Mercoledì 28 NOVEMBRE 2018
Azienda condannata chiama in causa anche il medico coinvolto. Cassazione dice di no. Ecco perché
La Corte d’appello prima e la Cassazione poi (sentenza 30601/2018) hanno respinto il ricorso di un'azienda sanitaria che dopo essere stata condannata ha chiamato in giudizio per l’intervento non riuscito il medico che l’aveva eseguito. L’estensione automatica del giudizio nei confronti del medico sarebbe scattata se l'Asl non l'avesse chiamato” a garanzia”, ma indicandolo come unico vero responsabile del danno. LA SENTENZA
L’azienda sanitaria è chiamata in causa per danni da un paziente che in conseguenza di un intervento chirurgico per asportazione di una cisti parotidea aveva riportato postumi invalidanti: paralisi del nervo facciale destro.
E l’azienda sanitaria ha chiamato in giudizio per l’intervento non riuscito il medico che l’aveva eseguito.
Ma la Corte d’appello prima e la Cassazione poi hanno respinto il ricorso dell’azienda sanitaria, considerata dai giudici l’unica a poter essere chiamata in giudizio.
La sentenza
Il principio è quello che se l'azienda sanitaria chiama in giudizio il medico non scatta automaticamente l'estensione dell'azione giudiziale del danneggiato anche al terzo, cioè al medico a cui è ascrivibile l'errore.
Secondo la Cassazione (sentenza 30601/2018) non si determina un ”litisconsorzio necessario” che rende illegittima la decisione senza il coinvolgimento di tutte le parti necessarie alla definizione della causa. Ma si tratta di litisconsorzio facoltativo - originario o successivo - se il datore di lavoro (la Asl), primo responsabile verso l'utente dei danni per il “cattivo servizio”, chiama in causa il terzo (il medico) a garanzia dell'obbligazione di risarcire il danno.
“La vicenda dei rapporti processuali tra le tre parti del giudizio - si legge nella sentenza - esaminata dalle Sezioni Unite, evidenzia come la natura 'propria' o 'impropria' della garanzia risulti indifferente esclusivamente ai fini indicati (estensione al terzo degli effetti dell'accertamento del rapporto principale; legittimazione del terzo alla impugnazione dei capi di sentenza relativi al rapporto principale; estensione della impugnazione effettuata dal solo garante o dal solo garantito anche al litisconsorte necessario processuale ), non essendo dirimenti le osservazione propedeutiche, svolte in via di premessa generale nella medesima sentenza, secondo cui la distinzione predetta non trova riscontro negli artt. 32, 106 e 108 c.p.c., atteso che tali norme concernono aspetti processuali peculiari (competenza; potere di chiamata; estromissione del garantito), e dunque non consentono di risolvere affatto, come vorrebbe invece il ricorrente, la diversa questione della "automatica estensione" della domanda risarcitoria svolta dall'attore nei confronti del convenuto, anche al terzo chiamato in garanzia (propria od impropria) dal convenuto, ai soli fini della estensione soggettiva dell'accertamento del rapporto principale, ovvero ampliando l' oggetto originario del giudizio anche al differente rapporto di garanzia (di cui il chiamante chiede l'accertamento o anche l'adempimento)”.
“La nozione di garanzia propria e impropria – secondo la Cassazione - non assume nella fattispecie in esame alcun rilievo, in quanto la Corte d'Appello, diversamente da quanto ipotizzato dal ricorrente, non ha fondato sulla diversa natura della garanzia la regola della automatica estensione della domanda al terzo chiamato, quanto piuttosto sul contenuto della domanda proposta dal convenuto-chiamante nei confronti del terzo, venendo a distinguere tra chiamata in garanzia propria o impropria, alla quale la regola non si applica, atteso che la posizione assunta dal terzo nel giudizio non contrasta e anzi coesiste con la legittimazione passiva del convenuto-responsabile rispetto alla azione risarcitoria proposta dall'attore, e invece la chiamata effettuata al solo fine della indicazione del terzo (esclusivo) responsabile, che determina una posizione processuale del terzo oggettivamente incompatibile con quella del convenuto, ponendosi in termini di alternatività, in quanto l'accertamento della responsabilità dell'uno esclude quella dell'altro (aut-aut), ipotesi alla quale la regola della estensione automatica della domanda, invece, si applica, atteso che in tal caso l'originario oggetto del giudizio non viene ad essere modificato, unico rimanendo l' accertamento del rapporto principale, non essendo fatto valere nei confronti del convenuto "o" del terzo chiamato un distinto titolo di responsabilità”.
L’estensione al terzo (il medico) non scatta soprattutto nel caso in cui, come in questa fattispecie, lo stesso giudice di merito ha definito la chiamata della Asl contro il proprio medico come “azione di regresso verso il coobligato solidale”.
Secondo i giudici è sufficiente, per l'esercizio del diritto a ottenere un risarcimento di danni, anche la causa promossa contro solo uno dei coobligati, in questo caso l'Asl. Inoltre, fa notare la Cassazione che la stessa azienda sanitaria non ha contestato la propria legittimazione passiva nei confronti del cittadino danneggiato dal cattivo servizio reso al suo interno.
Per la cassazione l'atto di chiamata di causa:
a) non conteneva alcuna indicazione del terzo quale esclusivo soggetto tenuto a rispondere, nell'ambito del rapporto sostanziale dedotto in giudizio, alla pretesa risarcitoria dell' attore, venendo a veicolare l'atto di chiamata soltanto la domanda riconvenzionale di " regresso" proposta dalla Azienda, in via meramente subordinata, nei confronti del terzo, sulla prospettazione di una eventuale responsabilità solidale;
b) la indicata prospettazione di un concorso del terzo nella produzione del danno, escludeva la configurabilità di una situazione di " incompatibilità o alternatività", tra l'Azienda e il medico, nell'accertamento della responsabilità, tale da implicare necessariamente una estensione della domanda attorea al terzo.
L’estensione automatica della domanda nei confronti del medico sarebbe scattata se l'Asl non l'avesse chiamato” a garanzia”, ma indicandolo come unico vero responsabile del danno.
Di conseguenza, conclude la sentenza della Cassazione “il ricorrente non ha adempiuto a tali condizioni, e la censura deve pertanto essere dichiarata inammissibile. In conclusione il ricorso deve essere rigettato, e la parte soccombente condannata alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità che vengono liquidate in dispositivo”.
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