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Lunedì 26 NOVEMBRE 2018
La violenza contro i medici e la “legge del taglione”
Le soluzioni in circolazione per affrontare il fenomeno è come se rispondessero ad un conflitto sociale, perché tale è la violenza, nulla di più, contrapponendogli un “modo di pensare” inevitabilmente “contro” cioè a sua volta conflittuale. Cioè al conflitto con il cittadino si tende a rispondere con il conflitto contro il cittadino. Quindi accettando, secondo me sbagliando, la logica del conflitto e la legge biblica del taglione
Sabato scorso ad Empoli grazie ad una idea dell’associazione dei medici cattolici (Diocesi di S. Miniato, Misericordia di Empoli) si è svolto un convegno davvero di livello: “Perché la violenza nel sistema sanitario”. Quando mesi fa mi contattarono per invitarmi mi dissero che, a loro, sarebbe piaciuto che qualcuno spiegasse il “perché” del fenomeno, dal momento che dopo aver raccolto tutto il materiale possibile a loro parere, la spiegazione restava inesplicata. Credo che avessero ragione. Sulla violenza in sanità tutti si sono affrettati a condannare ma ben poco si è fatto per capire.
Attenzione al fenomenismo
La prima cosa che colpisce, nel consultare tutto il materiale raccolto dai promotori del convegno, è, a proposito di violenza, l‘atteggiamento di chi si preoccupa di ciò che immediatamente appare, sotto forma di aggressioni, ponendo in secondo piano o anche trascurando del tutto, la realtà complessa che ci sta dietro. Questo atteggiamento si chiama fenomenismo. Esso si limita a condannare a invocare soluzioni immediate ma senza porsi il problema dei perché.
Siccome non è possibile che un fenomeno, come la violenza, appaia come dentro un vuoto sociale, l’errore che fanno i fenomenisti è:
- di ridurla a puro fenomeno condannabile tout court,
- di limitarsi a ciò che appare e/o sembra,
- a considerare irrilevanti le complessità che la spiegano.
Ma in questo modo la realtà che esprime la violenza, pur esistendo, al di la delle sue apparizioni esteriori, risulta inattingibile. E questo per rispondere a dei “perché” è davvero un grande ostacolo.
Medici contro cittadini
E’ da atteggiamenti fenomenisti che nascono le proposte semplificatorie contro la violenza come i fischietti da dare in dotazione ai medici, la definizione di sanzioni a carico degli aggressori, l’adozione di sistemi di vigilanza, e via di seguito.
Senza chiedersi “perché”, i fenomenisti si illudono:
- di mettere fine alla violenza con soluzioni contingenti come se la violenza fosse un temporale di passaggio e che, quindi bastasse aprire l’ombrello,
- di risolvere il problema conun principio di rivalsa proporzionale al danno possibile cioè al rischio che si corre (“occhio per occhio, dente per dente”),
- di rispondere alla violenza con delle soluzioni puramente difensivistiche o dissuasive, intendendo le sanzioni, a carico del cittadino violento, alla stregua di un deterrente nucleare,
- di difendersi ricorrendo a strategie molto simili a quelle del “contenimento del danno” cioè mettendo in campo un principio precauzionale.
Rammento e faccio notare che:
- il principio precauzionale vale come norma in materia di sicurezza rispetto ad un ambiente di lavoro,
- tutte le soluzioni contingenti difensive e dissuasive che sono in circolazione sono indistintamente tutte smaccatamente anti- cittadino.
La legge del taglione
In questo modo, le soluzioni in circolazione, è come se rispondessero ad un conflitto sociale, perché tale è la violenza, nulla di più, contrapponendogli un “modo di pensare” inevitabilmente “contro” cioè a sua volta conflittuale. Cioè al conflitto con il cittadino si tende a rispondere con il conflitto contro il cittadino. Quindi accettando, secondo me sbagliando, la logica del conflitto e la legge biblica del taglione.
Questo “modo di pensare”, che finisce fatalmente con il considerare il cittadino nei confronti del medico, come una minaccia ambientale, nel caso dei medici, è un problema, prima che politico, epistemico (quindi culturale) perché, secondo me, esso ha origine da un modo tipico di pensare del medico.
I medici, in genere, tutto quello che pensano lo fanno in un “modo tipico” e, davanti alla violenza, cioè davanti ad un fenomeno sociale, si pongono come se si trovassero davanti ad una patologia da curare finendo per prescrivere alla società delle terapie. In genere so per esperienza che le soluzioni dei medici riguardano sempre gli altri. Loro sono i terapeuti.
Questa tendenza nasconde un gigantesco problema che è quello di trasformare la clinica. quindi una visione scientifica, in una weltanschauung e questo di certo non giova ai medici dal momento che non si può pensare di “curare” le complessità politiche, con le quali da anni hanno a che fare, curando esclusivamente il mondo che sta loro davanti considerandolo perciò stesso l’unico ammalato da trattare.
Cioè tirandosi fuori da una relazione dialettica con il mondo che cambia. Siccome la questione è tutt’altro che banale e anche al fine di prevenire malintesi, vorrei spiegarmi meglio.
Fenomenismo contro fenomenologia
Il fenomenismo in generale è un atteggiamento epistemico tipico dei medici cioè tipico del paradigma positivista dal quale essi derivano le loro prassi professionali. La medicina scientifica si definisce tale perché il suo essere scientifico vale come essere soprattutto antimetafisico. Essa per essere scientifica cioè anti metafisica si limita ai famosi “fatti” (un modo diverso per definire i fenomeni) ritenendo con ciò impossibile conoscerne la natura complessa ed estesa di un malato e della sua realtà esistenziale.
Di contro, il malato, oggi, cioè il cittadino e la società, è tutt’altro che fenomenista, ma è fenomenologico, cioè per lui, esattamente come un hegeliano, i fenomeni, compresa la malattia, hanno a che fare con l’esperienza e la coscienza della persona, con la sua storia, la propria cultura, con la propria individualità, quindi con una complessità e vanno interpretati in un certo modo, cioè in modo anti- riduzionista, usando e integrando tutte le conoscenze disponibili perché:
- ciò che appare non è detto che sia vero,
- ciò che può essere non vero va interpretato,
- ogni interpretazione vale come l’assunzione di una responsabilità prima di tutto intellettuale.
Mentre per:
- il medico (fenomenista) essere malato significa il fenomeno della malattia,
- il cittadino di oggi (fenomenologico) essere malato vuol dire andare oltre la propria malattia,
- per il primo il malato è riducibile ad un fenomeno,
- per il secondo il malato è irriducibile al fenomeno, per cui è impossibile conoscere il malato riducendo la sua realtà a fatti o a fenomeni.
In sintesi per:
- un medico la spiegazione delle malattie è sempre una riduzione della realtà del malato. Cioè è sempre fenomenista,
- un cittadino è esattamente il contrario. Quindi sempre fenomenologica
- il medico (fenomenista), la violenza è riducibile ad un comportamento sbagliato del cittadino,
- per il cittadino (fenomenologico) la violenza è ciò che co-emerge da una complessità tutta da interpretare.
Oggi i medici rispondono alla violenza contro di loro, in modo fenomenistico quando la violenza andrebbe interpretata in modo fenomenologico. Quindi fenomenismo contro fenomenologia. Secondo me questo è un grave errore strategico.
La violenza quale malessere sociale
Oggi il fenomenismo dei medici, quindi la loro tipica weltanschauung, sul piano sociale, è pagato da loro a caro prezzo, (contenzioso legale, responsabilità professionale, comportamenti opportunistici, sfiducia nei loro confronti, svalutazioni di ogni tipo, violenza) perché il cittadino non è più d’accordo ad essere considerato un “fenomeno” per quanto patologico esso sia. E quindi li contesta. I medici sono in crisi semplicemente perché nessuno, Stato compreso, fino ad ora, li ha mai contestati.
Questa società vuole fare esattamente il contrario, cioè vuole restituire i fatti o i fenomeni alla loro realtà e alla loro complessità. Compresa la violenza.
La violenza, in sé deprecabile, immorale e inaccettabile (sia chiaro, senza se e senza ma), ha tuttavia, nonostante quello che pensano i medici, dei significati sociali e culturali e antropologici che se non compresi fino in fondo impediranno loro di trovare davvero delle efficaci soluzioni, ammesso e non concesso, che il problema della violenza sia riducibile a problem solving. Personalmente ho molti dubbi.
Paradossalmente, attraverso la violenza, questa società o alcuni suoi settori o se preferite alcune sue componenti, esprimono un malessere davvero profondo. Se i medici, prima di ogni altro, questo malessere non si sforzeranno di comprenderlo non andranno da nessuna parte. Il rischio che corrono secondo me è anche a causa di soluzioni poco meditate quello di una cronicizzazione del fenomeno violenza, che faccio notare, per ora, è solo all’inizio ma che, per come si stanno mettendo le cose, sembra destinato a crescere.
Vorrei ricordare che dopo la legge sulla responsabilità dei medici (L.24) il fenomeno del contenzioso legale anziché scendere sembrerebbe in aumento. E’ illusorio pararsi le terga, come medici, nei confronti dei cittadini, senza fare con loro, accordi consensuali. La mia paura è che fra un po’ la violenza contro i medici non faccia più notizia.
Criminalizzare è un altro sbaglio
La soluzione non è nella criminalizzazione degli aggressori come se fossero dei virus da combattere con degli antivirali, ma è nella comprensione di quel malessere che esattamente in modo fenomenologico le aggressioni nascondono.
Pare che il 30% dei medici vittime di violenza non segnali nulla e ovviamente non denunci nessuno. Questi medici probabilmente esprimono paternalisticamente la loro difficoltà di medici a criminalizzare qualcuno che comunque sta male o è in difficoltà. Per un medico criminalizzare il proprio malato è come negare la propria deontologia quindi se stesso.
Per la deontologia il malato è, come si legge nel lavoro di Trento, un archè. Ma se è così come è possibile andare contro il proprio archè? Tutti ripetono su questo giornale in modo noioso, quindi in modo tutt’altro che originale, il solito refrain: mettere al centro il cittadino. Mi si spieghi come si fa difronte alla violenza mettere il cittadino al centro. Al centro di che?
Aggressioni legali e aggressioni illegali
La violenza in sanità non è un fenomeno a sé stante ma è l’espressione esasperata di un fenomeno molto più grande e che ha che fare con un processo di delegittimazione del medico che è in piedi da quasi mezzo secolo e che alla fine riguarda la sua mutata percezione sociale.
Vi sono cittadini che, a parità di problemi, vanno dall’avvocato ed altri che picchiano il medico. In tutte e due i casi, pur con forme diverse, i cittadini “aggrediscono”, in un caso in forma legale e nell’altro in forma illegale, il medico, mentre fino ad ora, cioè fino a un paio di decenni fa, non l’hanno mai fatto anche se le ragioni per farlo sono sempre esistite. Provate a parlare con gli anatomo-patologi, questi vi diranno quanto sia vera la fallibilità della medicina.
L’errore che fanno i medici è quindi di scorporare la violenza dal più grande problema della delegittimazione della loro professione. La violenza fa parte della “questione medica” non può essere vista come separata da essa.
Quindi l’aggressione:
- ha la stessa natura conflittuale del contenzioso legale anche se espressa fuori dalle regole e in forma esasperata. Ma essa resta una relazione conflittuale tra medico e cittadino, quindi oppositiva,
- è una forma esasperata di contestazione ma ha la stessa natura della sfiducia che ampi strati della popolazione nutrono nei confronti della medicina scientifica.
Si rammenti che, nel mondo, l’omeopatia, ormai, è considerata la seconda grande medicina e che essa si sta espandendo soprattutto come medicina alternativa a quella scientifica.
Non possiamo sperare di governare il fenomeno della violenza senza porci il problema di come si redimono i conflitti tra medicina e società e tra medico e cittadino.
Dal benefattore al nemico
Aggredire un medico è come infrangere un tabù, è come aggredire un prete, o un farmacista, o i propri genitori, cioè è come aggredire il proprio benefattore.
Per aggredire un medico, quindi infrangere un tabù:
- è necessario revocargli il rispetto e l’onore dovuto, negargli il suo rango professionale non nutrire nei suoi confronti sentimenti di gratitudine,
- ci vogliono dei motivi e a parte l’impulso ostile, ci vuole il terreno sociale e culturale giusto.
Quando si aggredisce un medico o in modo legale o in modo illegale, costui smette di essere visto come un benefattore cioè come colui che fa il bene agli altri. Ma il passaggio dal benefattore al nemico non può avvenire solo segregando il fenomeno della violenza nell’ambito della psico-patologia o in quello ancor più semplificante dell’ignoranza o peggio ancora in quello sanzionatorio.
Violenza sfiducia inaffidabilità
La figura del “benefattore” tramonta con la crisi della carità pubblica, del paternalismo sociale, con la nascita dei diritti, del welfare, con l’espandersi della cultura dell’auto determinazione, con Google, ma anche con uno Stato che per ragioni economiche non esita ad amministrare il medico, a impoverirlo professionalmente, a svalutarlo in ogni modo anche non rinnovandogli per anni il contratto, o pagandolo come un impiegato della pubblica amministrazione ben al di là del concetto di “onorario” e del valore sociale di quello che fa.
Fa impressione che professionisti che salvano la vita alla gente oggi siano trattati dallo Stato così male cioè in modo così ingrato e così palesemente indecoroso.
Mentre è cambiata la percezione sociale del medico, lo Stato per primo ha messo in dubbio la sua credibilità sociale sottraendogli autorità e poteri cioè riducendo in tutti i modi la sua irrinunciabile autonomia professionale senza la quale, si sappia, nessun malato può ritenersi davvero ben curato.
La violenza, prima di essere ostilità, è quindi anche sfiducia cioè inaffidabilità preconcetta, la stessa, non meno violenta nelle sue varie forme e non meno illegale, se pensiamo agli attacchi che quotidianamente subisce la deontologia, di uno Stato che ormai non delega più il medico (prestazione d’opera) a curare le persone ma pretende per ragioni economiche di dire al medico come curarle
La profezia
Devo a un libro di Sandro Spinsanti (Guarire tutto l’uomo. La medicina antropologica di Viktor von Weizsacker 1992) la citazione che sto per proporvi.
Essa appartiene ad un grande medico considerato il padre della medicina antropologica, morto nel 1957 che, personalmente, considero un precursore del discorso dell’umanizzazione della medicina, di quello della personalizzazione delle cure, e nello stesso tempo uno dei primi critici importanti della concezione positivista della medicina scientifica.
Ecco cosa ha scritto Weizsäcker a proposito della violenza contro i medici: “Se si va avanti così per un certo tempo potrà succedere un giorno che una intera corporazione, la corporazione dei medici o degli scienziati, diventerà l’oggetto di una grave aggressione. Non mi meraviglierebbe se come la rivoluzione francese ha ucciso gli aristocratici e i preti, un giorno fossero uccisi i medici e i professionisti e non perché si sono irrigiditi mettendosi dietro alla scienza impersonale, bensì proprio per questo motivo”
Weizsacher con grande lungimiranza, nella prima metà del 900:
- pone il problema del conflitto sociale tra medicina e società accentuando quello tra la medicina impersonale e una società fatta tuttavia da persone,
- paragona i medici agli aristocratici e parla di rivoluzione come iperbole di conflitto.
Ma soprattutto Wiezsacher pone il problema che oggi si pone con il discorso della violenza: essa non è indipendente dalla sfiducia che la medicina scientifica incontra oggi nella nostra società, quasi a dirci che la qualità della relazione tra i medici e i cittadini dipende anche “come” si esercita la medicina.
The insolence of office
Oggi la medicina scientifica come tutti sanno è ancora ampiamente impersonale per cui non ho alcun timore nell’affermare che: la violenza sta alla medicina impersonale come una protesta sta ad una medicina e a un medico ritenuti inadeguati a priori.
Questo in via di principio ma con una complicazione in più.
La gente non aggredisce i medici legalmente e illegalmente, per ragioni dottrinali ma perché per di più la medicina, quella criticata da Weizsacher, oggi è agita dentro un sistema sanitario sempre più atrofico e sempre più regrediente. Ad una medicina impersonale si aggiunge un sovraprezzo quello dell’inadeguatezza del sistema.
Cioè un sistema sanitario dove al pronto soccorso si aspetta giorni, dove i malati sono curati con i tempari, dove i medici sono stressati dagli straordinari, dove bisogna attenersi a standard di spesa, a procedure, a evidenze scientifiche impersonali e quindi fallaci, dove la necessità clinica è esasperata dalle disorganizzazioni, dalle inefficienze, dalle carenze.
Shakespeare nel suo Amleto evocava la questione “the insolence of office”. Vale a dire il potere di ciò che non funziona mai come dovrebbe funzionare. Il potere comunque del servizio. Il potere della burocrazia (the law’s delay). Contro questo potere oggi in tutti i modi possibili il cittadino si ribella.
Ma se questo è vero la violenza contro i medici si trova sempre immancabilmente a metà strada tra un atto individuale e qualcosa di extra-individuale.
Post-anomia
Durkheim (uno dei padri della sociologia moderna)sosteneva che fenomeni sociali come il suicidio, io aggiungo la violenza contro i medici, erano favoriti da quello che lui definiva “anomia” vale a dire la rottura di certi equilibri della società e lo sconvolgimento dei suoi valori. Per me la violenza, pur essendo, come il suicidio, un atto soggettivo, è comunque un fenomeno influenzato oltre il ruolo della “dell’insolenza del servizio” anche da profondi fattori sociali, contestuali, culturali.
La mia impressione è che oggi siamo ben oltre l’anomia cioè che siamo davvero in una società post moderna che ha cambiato le regole e che il divario tra medicina e società si sia accentuato al punto da diventare un suo tratto caratteristico. La violenza contro i medici cioè il conflitto rischia di diventare il connotato della post modernità. Cioè in sostanza viviamo nell’epoca in cui i malati denunciano e prendono a pugni i medici. Questo nella storia della medicina è accaduto solo quando i medici erano considerati dei ciarlatani. Cioè non avevano credibilità sociale.
La spiegazione della violenza quindi non può ridursi all’ interpretazione di un comportamento individuale ma deve ammettere per forza una spiegazione sociale. Ma a tutt’oggi non ho visto nessuna spiegazione sociale in giro. Per cui tutte le soluzioni in circolazione partono da un presupposto sbagliato: la violenza è solo un atto individuale. Al contrario in nessun caso si può escludere una con-causalità sociale. Naturalmente questo non attenua la gravità del problema ma pone ai fenomenisti la questione urgente di aggiornare il tipo di soluzioni sino ad ora indicate.
Tipi di cittadini tipi di medici
La violenza in sanità ha diverse forme agisce rispetto a diversi contesti e si manifesta in diverse contingenze:
- stupro che con la crisi della medicina non c’entra niente,
- esasperazione delle necessità,
- contesti sanitari disorganizzati,
- percezione di un pericolo,
- desiderio di rimediare alla propria condizione,
- ansie preoccupazione emergenze.
Colpisce, almeno secondo i dati, che il 90% delle aggressioni si verifichino davanti a dei dinieghi del medico che evidentemente non reputa plausibile le necessità dichiarate dal cittadino.
Sempre Durkheim, sosteneva che rispetto ai fenomeni sociali non basta solo osservarli, ma che per comprenderli meglio è utile costruire dei tipi sociali. Un po’ quello che sostiene l’omeopatia quando si serve dei biotipi per comprendere meglio i problemi di salute delle persone.
Che tipo di cittadino è quello che mette le mani addosso al medico? Non abbiamo ancora studi a tal riguardo, non sappiamo la scolarità dell’aggressore, non conosciamo la sua professione, il suo status sociale, il suo reddito, le sue preferenze culturali, se sia di destra o di sinistra, sappiamo però, da oltre 30 anni, grazie ad una analisi che fino ad ora nessuno ha contestato che:
- ontologicamente il paziente non c’è più e che al suo posto abbiamo l’esigente,
- che l’esigente vive in una società che alcuni definiscono post moderna, altri liquida, altri ancora individualista, altri informatica, globale, ecc,
- e che comunque si voglia chiamare questa società essa è molto diversa da quella, rispetto alla quale, è sorto il “tipo” di medico che abbiamo.
Ad un certo nuovo “tipo sociale” di malato oggi non vi è dubbio corrisponde ancora un vecchio “tipo sociale” di medico.
Questa asimmetria, secondo me, è alla radice del conflitto sociale tra medicina e sanità e che non si risolve “curando” il mondo cattivo ma “ripensando” il medico inadeguato.
Conclusioni
Mi era stato chiesto “perché” la violenza contro i medici? Spero di aver risposto, anche se rimane il problema, di “cosa fare”.
Ma per questa altra domanda, rimandiamo ad un’altra occasione. Intanto vi consiglio di leggere la nuova deontologia messa a punto a Trento. In essa troverete una novità: la deontologia sociale. Ma nell’elenco delle possibili soluzioni al fenomeno della violenza contro i medici, essa non compare.
Ivan Cavicchi
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