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Giovedì 08 NOVEMBRE 2018
Il dibattito sul consenso informato. La pratica clinica va più avanti della norma giuridica
Gentile direttore,
scrive Antonio Panti in un suo recente intervento su questo quotidiano: “propongo alla Federazione degli Ordini una riflessione sul consenso, così come si è andato configurando nella prassi quotidiana del medico, e sulle conseguenze della sua giuridicizzazione, di cui ancora ignoriamo quali frutti produrrà nella giurisprudenza di merito”.
Trovo giusto questo auspicio. L’articolo 1 della legge sulle DAT eleva a norma di rango primario il consenso informato e lo estende obbligatoriamente in forma scritta a tutti i trattamenti sanitari.
Giova qui ricordare che per attuare le Disposizioni Anticipate di Trattamento non c’era alcuna necessità di normare l’aspetto più delicato della relazione medico-paziente, ma era sufficiente solo richiamarne i principi, riconoscendo così le rispettive autonomie del medico e del cittadino.
D’altro canto, la disposizione legislativa detta norme su quanto si era già pacificamente affermato nella pratica clinica; il tutto riportato tra i doveri del medico nel codice di Deontologia Medica (art. 35). Panti ci espone diversi dubbi e teme, anche se non ne fa menzione, che si stia percorrendo una strada totalmente sbagliata puntando ad amministrare la relazione e comunque la condotta professionale svelando così una intrinseca sfiducia nei confronti dell’intera classe medica da parte della società.
Ricordo che i medici in più occasioni avevano ribadito la loro netta contrarietà a disposizioni esterne alla professione che potessero invadere la loro autonomia così come quella del paziente.
Avevano prefigurato tipologie e/o cronologie di atti e procedure disponibili e non disponibili nella relazione di cura, dimostrando di non temere il nuovo e abbandonando una idealizzazione del passato. Inoltre hanno sempre ritenuto che ognuna di queste procedure, unica e irripetibile, se fondata su un’alleanza terapeutica, contenesse già in se stessa le dimensioni etico,civili e tecnico-professionali per legittimare e garantire una scelta, giusta, nell’interesse esclusivo del paziente e nel rispetto delle sue volontà.
Ha scritto recentemente il prof. Francesco d’Agostino intervenendo sul mutamento in corso della medicina: si sta aprendo “la strada ad una medicina post-classica, post-ippocratica, anti-paternalistica, che vede nel medico non necessariamente un terapeuta, ma colui che ha le conoscenze e le competenze (terapeutiche o no, poco importa) per manipolare la natura a partire dalle indicazioni sovrane che riceve dalla società”. E si interroga: “Dobbiamo compiacerci di questo mutamento di paradigma?”.
Penso proprio di no e spero siano in molti a pensarla come me.
L’aver voluto normare il consenso informato porta con sé almeno due importanti corollari con riflessi pesanti nella relazione terapeutica: il primo è strettamente legato al tema costitutivo e primario della individuazione del fondamento di liceità dell’attività medica, perché la cornice entro cui si circoscrive il “consenso informato all’atto medico” assume la rilevanza di scopo della medicina, il secondo,invece, si riallaccia al declino in atto della pratica medica che porta a uno svilimento del concetto di medicina relegandola a pratica impersonale e manipolativa.
In estrema sintesi, la norma attualmente in vigore attribuisce al solo consenso informato la legittimazione dell’atto medico. La norma spazza via anche la giurisprudenza di alcune pronunce che avevano riconosciuto al medico la legittimazione ad effettuare il trattamento terapeutico giudicato necessario per la salvaguardia del paziente anche in mancanza di un esplicito consenso e ritenevano insuperabile solo l’espresso, libero e consapevole rifiuto di cure manifestato dal malato.
Il rationale di queste pronunce, si fondava sul fatto che l’attività medica non è un’attività antigiuridica, ma una attività “in radice”, legittima perché finalizzata alla salvaguardia di un bene costituzionale come è la salute.
Quello che appare preoccupante è che la legge, entrata a gamba tesa e pesantemente nella relazione di cura, finisce per definire la stessa natura della medicina, optando per la prospettiva illustrata da Francesco D’Agostino di pura e semplice collezione di fatti e di tecniche neutrali, da usare a piacimento, senza riconoscere a questa altri vincoli. Questa deduzione tout court non è accettabile.
Ci si dimentica che lo scopo fondamentale e prioritario della medicina è sempre stata la risposta all’universale esperienza umana della malattia. E la risposta è definita dal bisogno di guarire, aiutare, assistere e curare (sanare infirmos!).
Temo che se non ci si richiami a questi valori, la medicina non sia in grado di resistere al condizionamento o alla manipolazione sociale e avere una direzione sua propria. Ancora di più, non c’è possibilità alcuna per i medici di mantenere una propria integrità professionale senza lasciarsi condizionare dai valori sociali.
La medicina sarà inevitabilmente influenzata dai valori e dagli obiettivi delle società in cui opera. Se questi possono coincidere o coesistere possono anche divergere impoverendo il ruolo del medico come lo descrive il sociologo di Harvard Mark G. Field nella ex Unione Sovietica: “il regime imponeva ai medici di subordinare la loro lealtà verso la professione e verso i pazienti alla lealtà nei confronti dello stato”.
Per concludere, penso che il diritto sia il meno adatto per comprendere la complessità in cui si svolge la professione del medico e per capire quanto questa si inserisca entro le trasformazioni strutturali della società; sia il meno adatto per comprendere e recepire come questi mutamenti si riflettano e si attivino nelle micro configurazioni quotidiane della pratica professionale.
Ridurre l’etica della relazione a problematica legale non aiuta certo a rilanciare nel futuro la mission di sempre, quella cioè di saldare e legittimare interessi professionali a quelli generali della comunità.
Maurizio Benato
Componente del Gruppo di lavoro Tematiche Etico-Deontologiche, Stati Generali Fnomceo
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