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Lunedì 29 OTTOBRE 2018
40 anni di Ssn. La parola agli ex ministri della Sanità/1. De Lorenzo: “Quegli errori del 1978 di cui in parte paghiamo ancora le conseguenze. Oggi le priorità sono stroncare le disparità di accesso alle cure e riformare il titolo V”
Il primo errore di ordine culturale consisteva nell’aver costruito e propagandato un sistema di welfare che assicurava gratuitamente una copertura “dalla culla alla tomba”, inducendo i cittadini utenti a generare spesa inappropriata in virtù di una scarsa responsabilizzazione sull’uso delle risorse pubbliche. Il secondo errore fu di tipo strategico: i bisogni sanitari dei cittadini, espressi attraverso il Piano nazionale, diventarono la variabile indipendente sulla quale parametrare il finanziamento che lo Stato avrebbe dovuto assicurare al SSN. Due errori ai quali provammo a porre rimedio con la riforma del 1992...
Il prossimo dicembre ricorrerà il quarantesimo anno dall’istituzione del Servizio sanitario nazionale (SSN), avvenuta con la legge 23 dicembre 1978 n. 833. Senza dubbio si trattò di una delle più importanti riforme della storia repubblicana, cui si giunse a seguito di un dibattito molto acceso nel Paese che coinvolse tutti i cittadini, non solo gli operatori del settore.
Nel SSN furono unificati oltre 12.000 enti che, fino a quel momento, avevano erogato a vario titolo solamente “porzioni” di assistenza sanitaria, mettendo così fine alla frammentazione dell’offerta e alla disparità di trattamento tra pazienti. Finalmente, ogni cittadino avrebbe potuto contare su una copertura completa, indipendentemente dal suo personale contributo al finanziamento dei servizi, come avveniva al tempo del cosiddetto sistema delle mutue. La prevenzione e la riabilitazione erano state inserite tra le funzioni del SSN insieme a diagnosi e cura. Il diritto fondamentale alla salute fissato all’art. 32 della Costituzione aveva finalmente trovato piena attuazione, grazie a un’ampia convergenza politica.
Solo il Partito liberale si era opposto tenacemente all’approvazione della legge 23 dicembre 1978 n. 833, ma - per ammissione della stessa Tina Anselmi ministro della Sanità - in modo corretto e non precostituito, contestando le modalità di attuazione del dettato costituzionale, non certo la scelta di estendere la copertura sanitaria universale. Ritenevamo allora, infatti, che il legislatore del 1978 stesse commettendo due gravi errori.
Il primo di ordine culturale consisteva nell’aver costruito e propagandato un sistema di welfare che assicurava gratuitamente una copertura “dalla culla alla tomba”, inducendo i cittadini utenti a generare spesa inappropriata in virtù di una scarsa responsabilizzazione sull’uso delle risorse pubbliche. In effetti, a fronte di una sanità completamente gratuita, non ci furono più argini alle richieste di prestazioni.
Il secondo errore fu di tipo strategico: i bisogni sanitari dei cittadini, espressi attraverso il Piano nazionale, diventarono la variabile indipendente sulla quale parametrare il finanziamento che lo Stato avrebbe dovuto assicurare al SSN. Tale impostazione, perfettamente coerente con lo spirito della riforma del 1978 e del suo tempo, si rivelò del tutto insostenibile in una logica economica.
A ciò si aggiunga la ferma opposizione alla Riforma di una parte cospicua dei medici italiani che rivendicavano un ruolo significativo nella definizione delle politiche sanitarie. Le istanze della categoria, rappresentate dalla Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici rimasero del tutto inascoltate, e nessuna ipotesi di “gestione per esperti”, né alcuna “soluzione tecnocratica” venne mai accolta.
Ma il prossimo dicembre saranno passati anche 26 anni dall’approvazione del d.lgs. 30 dicembre 1992 n. 502 di riordino della disciplina in materia sanitaria, che promossi in qualità di Ministro della salute nel Governo presieduto da Giuliano Amato.
I principi fondamentali della Riforma non possono essere compresi appieno senza aver prima ricordato, seppur brevemente, le ragioni storico-politiche che hanno avviato il processo di cambiamento di cui il decreto 502 rappresenta sicuramente la punta più avanzata.
Nell’estate del 1992, l’Italia attraversava un periodo per certi versi simile a quello attuale. Il Governo Amato, in carica da pochi mesi, era stato costretto a fronteggiare l’apice della crisi del debito, culminata nel settembre di quell’anno con la svalutazione della lira e con l’uscita della nostra valuta dal Sistema monetario europeo (SME). I valori negativi degli indici macroeconomici si univano a un clima di generalizzata e dilagante sfiducia nei confronti delle istituzioni e dei partiti protagonisti della scena politica fino a quel momento; la spesa sanitaria, nel più generale contesto della spesa pubblica, era del tutto fuori controllo.
Le conseguenze degli errori commessi nella “stagione dei diritti” nella costruzione del SSN, che solo il Partito Liberale aveva compreso anche in chiave prospettica, emersero in modo dirompente all’inizio degli anni Novanta.
Oltre alla spesa ingovernabile, nella sanità pubblica si registravano ormai gravissime disfunzioni organizzative dovute a una gestione smaccatamente consociativa e un diffuso malcontento degli utenti alimentato da media sempre più puntuali nel dare la notizia di episodi di “malasanità”. La sostenibilità del SSN era dunque già compromessa a pochi anni dalla sua istituzione.
Le determinanti della spesa quali la modifica del quadro demografico e quindi epidemiologico, i costi delle tecnologie, i cambiamenti nel tessuto produttivo del Paese che non poteva più contare sull’onda lunga del boom economico, stavano rivelando, senza più spazio per ipocrisie e mistificazioni ad uso politico, il vero volto del diritto alla salute: quello di un diritto finanziariamente condizionato.
In questo contesto di grave emergenza valutaria, finanziaria ed economica, come titolare del dicastero della Sanità, ritenni inevitabile ricorrere allo strumento della legge delega per riformare la sanità. Impegnai, dunque, in tal senso il Governo Amato, che chiese al Parlamento ben quattro maxideleghe su pubblico impiego, pensioni, finanza territoriale e, appunto, sanità. Per l’epoca, si trattò di una scelta istituzionale sicuramente inedita se non “estrema”: si stava affidando al Governo il compito di incidere sensibilmente su quattro settori strategici della pubblica amministrazione al fine di riformarli radicalmente. La scelta politico-istituzionale di ricorrere alla delega fu una reazione al lungo stallo parlamentare degli anni precedenti che, di fatto, aveva fortemente ostacolato ogni cambiamento nella sanità.
Tra le varie proposte di “riforma della riforma” presentate negli anni precedenti, soltanto il disegno di legge n. 4227 “Riordinamento del Servizio sanitario nazionale e misure di contenimento della spesa”, proposto nell’ottobre 1989 dal Governo Andreotti – approvato in prima lettura alla Camera il 18 luglio del 1990 e modificato dal Senato nella seduta del 17 ottobre 1991 – giunse quasi all’approvazione definitiva, impedita soltanto dallo scioglimento anticipato delle Camere in vista delle elezioni della primavera del 1992.
Il prolungarsi del dibattito parlamentare mi indusse a preparare il terreno di quella che sarebbe stata la riforma del 1992, anticipandone alcuni elementi essenziali innanzitutto con il decreto-legge 6 febbraio 1991 n. 35, che conteneva norme sulla gestione transitoria delle Unità sanitarie locali (UU.SS.LL.), poi convertito nella legge 4 aprile 1991 n. 111. In attesa del riordinamento del SSN, tutti i poteri di gestione, compresa la rappresentanza legale, furono affidati a un amministratore straordinario, prototipo di quello che sarebbe diventato il Direttore Generale. Si cominciò proprio da qui a smantellare, colpendolo al cuore, il sistema consociativo che aveva retto fino a quel momento la sanità pubblica e che aveva proliferato nei comitati di gestione delle UU.SS.LL., ormai sciolte.
Il processo di rinnovamento, ormai avviato sin dalla fine degli anni Ottanta, si tradusse anche nell’approvazione di altri provvedimenti, più settoriali, tuttavia di fondamentale importanza per la modernizzazione del SSN: la legge 4 maggio 1990 n. 107 disciplinò, per la prima volta, le attività trasfusionali relative al sangue umano ed ai suoi componenti e la produzione di plasmaderivati; con la legge 5 giugno 1990 n. 135 fu varato il Piano degli interventi urgenti in materia di prevenzione e lotta all’AIDS che garantì all’Italia “una buona rete di Centri di malattie infettive […] fatta di strutture che operano in ospedali o istituti di ricerca pubblici”; nel dicembre del 1991 con la legge n. 412 fu introdotto il principio dell’unicità del rapporto di lavoro dei medici dipendenti del SSN, escludendo così la possibilità di svolgere attività libero-professionale nell’ambito di strutture private convenzionate con il servizio pubblico; con la legge del 25 febbraio 1992 n. 210, fu sancito il diritto all’indennizzo in favore dei danneggiati da complicanze di tipo irreversibile a causa di vaccinazioni obbligatorie e trasfusioni; con l’Atto di indirizzo e coordinamento alle Regioni approvato con il DPR 27 marzo 1992 (Istituzione del servizio di emergenza “118”) furono determinati i livelli di assistenza sanitaria di emergenza.
Lo sforzo di quegli anni si indirizzò anche verso la razionalizzazione delle risorse destinate al finanziamento della sanità. I risultati furono estremamente positivi: nel 1992, infatti, la spesa farmaceutica pubblica si fermò a 14.209 miliardi di lire, facendo registrare quindi una diminuzione rispetto all’anno precedente del 5,2%. La Relazione sulla spesa sanitaria relativa agli esercizi finanziari 1989-1992 presentata alla Camera dei deputati dai Ministri della Sanità e del Tesoro certificò che si trattò della prima riduzione assoluta della spesa farmaceutica convenzionata negli ultimi 20 anni.
La legge delega del 23 ottobre 1992 n. 421, come si è visto, in gran parte anticipata in molti dei suoi contenuti più qualificanti negli anni del mio dicastero nel Governo Andreotti, fu approvata in tempi rapidissimi dopo l’insediamento del Governo Amato.
La forza riformatrice che, fino a quel momento, non aveva avuto lo spazio sufficiente per realizzare il cambiamento necessario, sull’onda dell’emergenza economica e delle profonde crepe del tessuto sociale, aveva trovato finalmente l’opportunità di imprimere una svolta decisiva e, per certi versi, dirompente al sistema. Il decreto delegato del 30 dicembre 1992 n. 502, rappresenta, dunque, la fase conclusiva ma senz’altro più qualificante di un processo riformatore avviato alla fine degli anni Ottanta e proseguito dal sottoscritto in qualità di Ministro della sanità nel sesto Governo Andreotti, prima, e nel Governo Amato poi.
Il disegno della nuova sanità intendeva riportare al centro del SSN i medici e i loro pazienti, i cui rapporti con la sanità pubblica si erano, per ragioni diverse, molto raffreddati. Da quel momento in poi, il funzionamento della sanità pubblica si sarebbe basato su criteri economicamente razionali, sulla responsabilizzazione degli amministratori e sulla misurazione dei risultati come strumento ordinario di governance. Gli elementi di rottura e di innovazione rispetto al passato introdotti erano molti.
Innanzitutto, il perno istituzionale della nuova sanità fu trasferito dagli enti locali al livello regionale. Le USL, trasformate in aziende dotate di autonomia organizzativa, amministrativa, patrimoniale, contabile, gestionale e tecnica, sarebbero state guidate da un Direttore generale, figura tecnica e con elevata professionalità, scelto nell’ambito di un elenco nazionale tenuto presso il Ministero della Salute. L’iscrizione a tale elenco sarebbe stata subordinata alla verifica del possesso di stringenti requisiti previsti dalla normativa da parte di una Commissione presieduta addirittura da un Presidente di sezione del Consiglio di Stato. In questo modo, si sarebbero arginate le indebite influenze delle classi dirigenti territoriali sulla scelta dei top manager della sanità e quindi, indirettamente, sulle decisioni operative e politiche.
Nel nuovo assetto istituzionale, alle Regioni fu affidato il compito di elaborare i piani sanitari regionali, demandando, invece, ai Sindaci riuniti in organismi collegiali (le Conferenze dei Sindaci) quello di tradurre le indicazioni contenute nella programmazione in indirizzi specifici per le aziende territoriali. Anche l’interposizione della Conferenza dei Sindaci tra le ASL e la Regione, secondo la logica istituzionale dei “pesi e contrappesi”, aveva lo scopo di arginare la tendenza naturale della politica regionale a gestire direttamente la sanità.
Ai cittadini fu concessa la facoltà di ideare e adottare indicatori di qualità a garanzia delle prestazioni e del funzionamento dei servizi e di presentarli nelle conferenze pubbliche di servizio delle ASL, restituendo in questo modo un ruolo agli utenti e alle loro organizzazioni sorprendentemente privati di qualsivoglia possibilità di partecipazione nella sanità delle USL e dei Comitati di gestione.
Sul fronte della trasparenza contabile, le aziende avrebbero dovuto presentare un bilancio pluriennale di previsione, redatto secondo criteri rigorosi previsti dalla legge, garantendo finalmente allo Stato il rispetto del principio del “chi spende risponde”, che era venuto meno negli anni precedenti, caratterizzati da una gestione secondo il sistema del ripiano della spesa a piè di lista.
Assicurammo la diffusione capillare dei centri di controllo sull’efficacia e sull’oculatezza della gestione, responsabilizzando ogni livello decisionale, a partire dal singolo primario. Fu garantito un maggior controllo della spesa con l’introduzione del rimborso per prestazioni effettivamente erogate in luogo di quello per giornate di degenza. Fummo i primi a introdurre il criterio della responsabilizzazione di tutti i singoli livelli istituzionali coinvolti nella gestione della sanità, congelando il ricorso scriteriato allo Stato come unico pagatore finale.
Sul versante del personale, da un lato riconoscemmo il ruolo fondamentale dei medici per il buon funzionamento della sanità pubblica, consentendo la loro partecipazione alla programmazione sanitaria del Paese attraverso un’adeguata rappresentanza nel Consiglio sanitario nazionale. Da allora in avanti, le loro scelte avrebbero inciso sulla vita delle singole Aziende attraverso l’istituzione del Consiglio dei sanitari, organo consultivo della Direzione generale per le decisioni tecnico-sanitarie.
Dall’altro lato, però, fissammo il principio dell’unicità del rapporto di lavoro dei medici con il SSN, come modalità ordinaria di lavoro, al fine di assicurare alle strutture pubbliche una maggiore presenza dei professionisti a vantaggio dell’umanizzazione delle cure.
Con la riforma del 1992, soprattutto, si prese atto che la salute era ormai un diritto finanziariamente condizionato e la vera rottura con il passato fu di tipo politico: i livelli essenziali sarebbero diventati una variabile dipendente dalle risorse realmente disponibili per la sanità, determinate annualmente nelle leggi finanziarie. Si trattò di un vero e proprio ribaltamento di prospettiva.
Purtroppo una serie di modifiche legislative intervenute poco dopo l’approvazione del d.lgs. 502/1992 ha largamente vanificato lo spirito e l’efficacia della mia riforma.
Con l’abolizione dell’albo nazionale dei direttori generali (oggi reintrodotto), sono state allargate le maglie dei criteri di selezione con il conseguente ritorno, in molti casi, a criteri di discrezionalità politica e non tecnica nella gestione delle aziende sanitarie.
È proseguita la politica del ripianamento automatico da parte dello Stato dei deficit, così consolidando un uso incontrollato delle risorse. Solo di recente, le Regioni sono state realmente responsabilizzate sulla spesa sanitaria. La mancata attuazione delle annuali conferenze pubbliche di servizio delle ASL ha vanificato la possibilità di partecipazione da parte dei cittadini alla gestione della sanità e l’aver misconosciuto, nei fatti, il ruolo strategico delle Conferenze dei sindaci ha dato vita un neo-centralismo regionale, del tutto disfunzionale, che non poteva costituire una risposta concreta alle richieste di cambiamento.
La riforma del 1992 è stata dunque resa inefficace nei suoi aspetti più innovativi da interventi successivi di segno opposto che, riportando indietro il calendario di oltre dieci anni, di fatto, hanno congelato il SSN, impedendone l’evoluzione necessaria.
Il quarantesimo della legge 833, allora, deve rappresentare un’occasione per riflettere sulla contemporaneità del SSN e rilanciarne l’azione, facendo però i conti con la realtà: la sanità pubblica è, infatti, da tempo soggetta a un costante definanziamento che ha portato al paradosso di avere sulla carta un lunghissimo elenco di prestazioni comprese nei LEA, a fronte di un impegno di spesa tra i più bassi d’Europa.
Il primo urgente impegno dovrà essere rivolto a sanare le intollerabili disparità tra diverse aree del Paese nell’accesso a trattamenti fondamentali, anche salvavita, quali le cure oncologiche, l’assistenza domiciliare per i malati di cancro, la riabilitazione e le cure palliative. È giunto il tempo di una riforma coraggiosa del Titolo V della Costituzione finalizzata al recupero da parte dello Stato di un effettivo ruolo di indirizzo e controllo in relazione all’attuazione dei LEA da parte delle Regioni, che hanno dimostrato, fatte salve le ben note eccezioni, di non aver saputo usare l’autonomia concessa dalla modifica del 2001 alle norme costituzionali in materia sanitaria.
Solo così il SSN potrà recuperare la sua missione, tornando ad essere realmente universale e un formidabile strumento per la coesione sociale.
Francesco De Lorenzo
Ex Ministro della Salute (1989-1993)
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