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Lunedì 16 LUGLIO 2018
La vera autonomia del medico nei moderni processi di cura



Gentile Direttore,
in merito al progetto Stati Generali della Professione, lanciato dal presidente della Fnomceo Filippo Anelli per “recuperare libertà, autonomia e indipendenza che la professione sta perdendo”, il collega Antonio Panti recentemente ha scritto: “il problema si affronta meglio riflettendo sulla richiesta dei medici di indipendenza rispetto alle regole dell’amministrazione della sanità e alla prassi scientifica anch’essa sempre più obbligante…”.
 
La prerogativa di libertà professionale del medico che l’art. 4 del Codice di deontologia medica definisce diritto inalienabile del medico impegna il medico a non soggiacere a interessi, imposizioni e suggestioni di qualsiasi natura. Al medico appartiene poi il diritto all’autonomia nell’esercizio della sua attività professionale ovvero alla libertà terapeutica, che investe in realtà, oltre alla cura, anche i distinti momenti della diagnosi e della prescrizione.
 
A completamento, gli articoli 13 e 22 del predetto Codice richiamano il medico a non accedere mai a prestazioni che risultino “in contrasto con i princìpi di scienza e coscienza”. Non posso dimenticare poi che l’autonomia,configurando l’aspetto più qualificante dell’indipendenza professionale del medico, realizza tra l’altro l’interesse costituzionale di salvaguardia della salute che l’ordinamento consegna alla posizione di garanzia del sanitario.
 
Il principio di autonomia del medico, a sua volta, rimanda a tre radici che ne esprimono la forza e l’autorevolezza indiscussa: l’etica della competenza e l’etica della cura, integrate con  l’esigenza di riconsegnare l’etica alla plurale concretezza del mondo e della vita(il principio di responsabilità di Hans Jonas.
 
Non può esserci autonomia senza competenza come non ci può non essere competenza in una condotta di cura dove il medico detiene una responsabilità inderogabile. Il concetto è ben specificato nell’articolo 6 del Codice Deontologico sulla Qualità professionale e gestionale, dove si afferma che“il medico fonda l’esercizio delle proprie competenze tecnico-professionali sui principi di efficacia e di appropriatezza (…) persegue l’uso ottimale delle risorse pubbliche e private salvaguardando l’efficacia, la sicurezza e l’umanizzazione dei servizi sanitari (…)”.
 
Faccio queste premesse perché l’Associazione Medica Mondiale, nel riconoscere l’importanza che fossero assicurati sempre i contenuti di questi principi(38° assemblea 1986), ha sostenuto che i medici non dovrebberoavere responsabilità nelle politiche sanitarie riguardanti l’allocazione delle risorse”. Fare ciò, si dichiara, significherebbecreare un conflitto d’interessi con gli obblighi del medico nei confronti del paziente, minando l’indipendenza professionale del medico, sulla quale il paziente fa affidamento”.
 
È un concetto ribadito tra l’altro più recentemente nella Carta della professionalità medica della Federazione Europea di Medicina Interna e all., pubblicato sul Lancet nel 2002, in cui si esorta a conservare la fiducia del paziente affrontando genericamente i conflitti d’interesse. Il punto pertanto non è solo quanto un medico sia realmente libero di prescrivere in scienza e coscienza farmaci ed esami diagnostici, ma anche se deve rinunciare a favore dei componenti “laici” del sistema a profili di responsabilità professionale nell’organizzazione dell’erogazione dei servizi sanitari.
 
Oggi la libertà prescrittiva è sempre meno un valore assoluto per cui agire secondo scienza e coscienza, un adagio spesso invocato, e non può prescindere dal diritto- dovere dell’avere accesso a conoscenze adeguate. È una risorsa al fine di garantire qualità, equità e sostenibilità del sistema. Per rivendicare la libertà di scegliere e prescrivere farmaci e cure è necessario dar prova che l’appropriatezza delle scelte sia basata su accettabili evidenze scientifiche e, in questa prospettiva, essere disposti ad accettare l’uso dei dati, anzi incoraggiarne la ricerca.
 
Sono proprio gli indicatori di verifica e di monitoraggiodell’appropriatezza dei percorsi diagnostico terapeutici (PDTA) ovvero le mappe di assistenza utilizzate per pianificare e seguire in modo sistematico un programma di assistenza centrato sul paziente che oggi ci indicano inequivocabilmente che è l’efficienza del sistema in cui si sviluppano i processi diagnostico-terapeutici citati a prevalere sull’efficacia della abilità del singolo operatore nella filiera di cura e sull’uso di farmaci “innovativi” nella terapia adottata e questo specie in oncologia.
 
Questi dati sono fortemente dibattuti da tempo tra gli addetti ma assai poco e in maniera disarticolata tra i rappresentanti dei settori medici interessati; sembra mancare una sincera convinzione anche tra gli stessi professionisti. Eppure questa presa in carico assistenziale è il vero processo innovativo nel mondo sanitario contemporaneo, prevedendo la partecipazione integrata di diversi specialisti e professionisti (oltre al paziente stesso), a livello ospedaliero e/o territoriale, al fine di realizzare la diagnosi e la terapia più adeguate per una specifica situazione patologica.
 
Oggi questi percorsi di natura inter-funzionale, multidisciplinare, intra ed extra ospedalieri sono un banco di prova perfetto per misurare diverse cose: la qualità assistenziale, in primo luogo, oggettiva e percepita, l’effettivo supporto dell’informatizzazione ai processi organizzativi e, non da ultima, la possibilità, in un futuro non tanto lontano, di finanziare l’assistenza al paziente per processo di cura rivoluzionando contratti e convenzioni che oggi ancora reggono i compensi su base disciplinare dell’assistenza sanitaria.
 
Sono dati che portano con sé due importanti corollari. Il primo mette in evidenza che i vincoli alla libertà prescrittiva del medico rappresentano in qualche modo un falso problema, nel senso che i limiti sono (o dovrebbero essere) solo quelli dell’appropriatezza. La libertà prescrittiva insomma finisce laddove si incorra in una franca inappropriatezza. Certamente la strada da fare verso l’appropriatezza è ancora davvero tanta e comporta un processo di crescita e di maturazione della categoria che potrebbe non essere di breve durata e che va costruito a cominciare dalla formazione, con l’individuazione di figure mediche in grado di gestire degli audit interni.
 
Medici che parlano ad altri medici insomma, per far ragionare sull’appropriatezza di certi comportamenti prescrittivi, eliminando le storture del giudizio e facendo parlare solo la ragione, quella supportata da solide evidenze scientifiche. Un momento di confronto che dovrebbe portare ad una crescita professionale e alla correzione di comportamenti prescrittivi migliorabili con una ricercata responsabilizzazione del medico con la ragione e non con le imposizioni dall’alto (governance contra government).
Il secondo corollario reclama invece la necessità di una strategia professionale per estendere il controllo professionale a tutto il processo produttivo recuperando, accanto al contenuto a ai fondamenti etici della propria attività lavorativa, le fondamentali prerogative relative alla organizzazione per:
- la misurazione dell’efficacia e dell’efficienza delle prestazioni;
 
- la verifica dell’opportunità di introdurre nuovi servizi o modificare quelli in atto;
 
- l’individuazione delle aree di sviluppo e miglioramento della qualità;
 
- la riallocazione delle risorse in funzione del massimo gradimento degli utenti (e del personale) a parità di risorse (strutturali, umane, economiche);
 
- il miglioramento del clima interno ai servizi e l’aumento del consenso presso la comunità di riferimento.
 
Il tutto per dare una risposta alla crisi attuale del governo gerarchico-burocratico della sanità con la costante dicotomia tra le questioni riguardanti i contenuti (conoscenza scientifica, modalità operative che si avvalgono di pratiche e di professionalità) e la questione dei “contenitori-servizi”. La dichiarazione della Associazione Medica Mondiale nata in un clima di autoreferenzialità professionale è oggi del tutto superata.
 
Oggi l’organizzazione non può essere intesa come una struttura piramidale, formata da un insieme di compiti “specialistici” da coordinare attraverso una chiara struttura gerarchica ma come un insieme di catene orizzontali di attività finalizzate a predisporre il prodotto/servizio per il paziente. Si lavora per processi ad alta integrazione multidisciplinare e si riorganizzano e si differenziano le responsabilità cliniche, gestionali e logistiche. Si ricercano strumenti che orientano i comportamenti verso i risultati, altrimenti si è guidati dai soli interessi economico-finanziari da una parte e professionali dall’altra. Si evita la burocratizzazione con il rischio presente che il medico venga misurato in maniera spuria, per intenderci ad esempio come numero di pazienti che il singolo medico è in grado di processare in un dato periodo di tempo.
 
La funzione di garanzia del medico si espliciterebbe coniugando le dinamiche produttive tipiche di una organizzazione sanitaria complessa senza perdere di vista la vulnerabilità del malato e i bisogni della persona. Una nuova dimensione per il medico in grado di recuperare una nuova motivazione professionale, tanto da non farsi travolgere dal rischio di una perniciosa automatizzazione.
 
C’è dell’altro: se si recupera nell’organizzazione e nella sua gestione è chiaro che con modalità diffuse possono essere collocate conoscenza, controllo, management e anche potere professionale, perché lavorare dentro un processo significa ricostruire il rispettivo ruolo nella gestione responsabile della salute, nei diversi livelli di intervento, ognuno dei quali presenta strumenti, contenuti specifici e professionalità. La vera autonomia!
 
Spetta alla Fnomceo e al suo Presidente indicare ora una strategia unitaria, che punti a far dimenticare le gelosie interne al mondo associativo-sindacale, preparandosi uniti alle sfide del prossimo futuro.
 
Maurizio Benato
Componente gruppo di lavoro FNOMCEO per le Tematiche etico-deontologiche 

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