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Mercoledì 30 NOVEMBRE 2011
Fibrosi cistica. Cinque Regioni inadempienti: niente screening neonatale
Nonostante uno studio della LIFC dimostri che il test ha permesso di triplicare negli ultimi 15 anni il numero di diagnosi, Friuli Venezia Giulia, Puglia, Sardegna , Basilicata e Abruzzo non si sono ancora messi in regola con la legge, e non offrono screening neonatale ai propri cittadini.
Screening neonatale. Quell’insieme di esami che durante i primi giorni di vita del bambino cerca patologie non visibili al momento della nascita, con alta incidenza nazionale e per cui un ritardo di diagnosi potrebbe costare la vita al neonato. Si tratta in generale di test semplici e piuttosto economici, tanto da poter essere previsti per legge per tutta la popolazione: in Italia sono tre quelli obbligatori – per ipotiroidismo congenito, fibrosi cistica e fenilchetonuria – anche se le associazioni dei pazienti e parte della comunità scientifica chiedono che vengano aggiunte altre patologie.
Lo screening prenatale obbligatorio ha permesso negli ultimi anni di scoprire tempestivamente patologie che prima potevano essere diagnosticate troppo tardi. Ma dalla Lega Italiana Fibrosi Cistica (LIFC) arriva oggi un allarme: ci sono 5 regioni in Italia in cui lo screening neonatale per la fibrosi cistica non viene attuato.
A distanza di 18 anni dalle leggi che lo hanno reso obbligatorio (L. 104/1992 e L. 548/1993) ancora oggi il Friuli Venezia Giulia, la Puglia, la Sardegna , la Basilicata e l’Abruzzo, non si sono ancora messe in regola. Queste regioni avrebbero infatti dovuto attivarsi per offrire a tutti i nuovi nati lo screening gratuito. E avrebbero potuto scegliere due strade: dotarsi in proprio di laboratori e centri oppure – ad esempio nel caso delle Regioni meno popolose – consorziarsi con realtà vicine.
“Sono anni che denunciamo questa situazione – ha detto Vincenzo Massetti, coordinatore della LIFC delle Marche – eppure non si è mosso nulla. Più volte abbiamo proposto di consorziare le realtà più piccole alle maggiori, come la Valle D’Aosta fa con il Piemonte, come il Molise fa con il Lazio o l’Umbria con la Toscana (la Toscana e in parte il Lazio garantiscono anche lo screening allargato), ma di fronte a questa ipotesi di sinergia scattano disegni politico-campanilistici che impediscono di fatto l’attuazione di quanto previsto dalle normative vigenti”.
Secondo la LIFC lo screening è stato in questi anni molto utile. Nelle sole Marche in 15 anni di screening si è osservata un’impennata di casi che prima non venivano scoperti. Il numero di patologie scoperte tempestivamente sono infatti triplicate, passando nella sola Ancona dai 55 l’anno del 1995 ai 152 del 2010.
E secondo gli esperti alcuni probabilmente alcuni casi ancora sfuggono perché lo screening – per evidenti ragioni di economicità - non può essere effettuato su tutte le mutazioni possibili (1893 quelle identificate a fine ottobre 2011), ma solo su quelle più diffuse tipiche del ceppo caucasico. Mutazioni che comunque rappresentano circa l’80 per cento dei casi. “Riuscire ad intercettare precocemente la più diffusa patologia genetica significa curare meglio il paziente e migliorarne le aspettative di vita, significa anche razionalizzare la spesa sanitaria e risparmiare sul costo sociale”, ha spiegato ancora Massetti.
Ma le regioni in quasi venti anni ancora non sono in regola. Alcune, come il Friuli Venezia Giulia, abbandonarono lo screening neonatale alla fine degli anni Novanta per presunte ragioni di inadeguatezza costi/benefici; altre, come l’Abruzzo potrebbero riavviarlo nel 2012. In ogni caso, secondo la LIFC, la situazione è oggi allarmante. “Intanto il primo obiettivo è che tutti i bambini e soggetti a rischio possano avere accesso a questo esame, anche usufruendo dell’opportunità di consorziare più Regioni su un unico Centro Screening. Tuttavia crediamo che in una situazione ottimale ogni Regione dovrebbe dotarsi di programmi di screening completi ed autonomi, che non vuol dire solo eseguire il test, ma anche tutte le procedure successive che vanno avviate dal Centro regionale Fibrosi Cistica, dalla conferma della malattia e della sua tipologia, alla comunicazione della diagnosi – che è un passaggio molto delicato - fino al percorso di presa in carico del paziente”, ha continuato il coordinatore della LIFC delle Marche.
L’iter è chiaramente ancora difficile da completare. Perché venga attuato c’è bisogno dell’appoggio delle Istituzioni, del mondo scientifico e di quello del volontariato. Ma dalla LIFC sono certi dell’importanza del percorso. “Occorre avviare un percorso virtuoso che sappia superare logiche di campanile, di budget e di numeri da raggiungere ad ogni costo – ha concluso Massetti – che sappia avviare un nuovo modello assistenziale al quale possano concorrere tutti gli attori, per una corretta prevenzione ed informazione sul territorio, con il solo fine della qualità della vita e della pari dignità del nostro paziente”.
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