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Venerdì 08 GIUGNO 2018
Intramoenia. Se il medico non ha autorizzazione formale e non versa quota all’azienda è peculato. Cassazione condanna cardiologo
L'intramoneia non è libera, anche se il medico la svolge in azienda, ma deve essere autorizzata e la struttura deve percepire la quota che gli spetta per legge. La Seconda sezione penale della Cassazione (sentenza 25976/2018) ha confermato la condanna a un cardiologo per aver effettuato vistite senza comunicazione all'ospedale di appartenenza. LA SENTENZA.
L’intramoenia deve essere “formalmente” autorizzata dalla struttura pubblica che deve anche ricevere dalla visita e/o dalla prestazione il suo corrispettivo. Altrimenti, come ha deciso la Cassazione, Seconda sezione penale, con la sentenza 25976/2018, il reato è quello di peculato, appropriazione indebita cioè, o distrazione a profitto proprio o altrui, di denaro o altro bene mobile appartenente ad altri, commessa da un pubblico ufficiale che ne abbia il possesso in ragione del suo ufficio.
Il Fatto
La Cassazione ha riconosciuto legittima la condanna a due anni decisa dalla Corte di Appello (e confermata da altre sezioni della Cassazione) per un cardiologo a tempo pinto con incarico esclusivo presso un ospedale pubblico, che ha svolto in sei occasioni (nel 2007) all’interni della struttura libera professione intramuraria senza la prescritta autorizzazione, appropriandosi del corrispettivo versato dai pazienti senza provvedere al versamento della quota (il 52% della tariffa applicata) prevista dalla legge all’ospedale e senza rilasciare fattura, né indirizzare i pazienti all’ufficio cassa dell’azienda.
La sentenza
Il ricorrente ha sottolineato come difesa che i fatti di cui era accusato erano precedenti la propria comunicazione al datore di lavoro di avvio di un’attività privata all’interno dell’ospedale, per cui i giudici avrebbero travisato il suo comportamento ritenendolo furto di denaro pubblico, ma in realtà si trattava “solo” di attività professionale svolta illegittimamente, vista anche l’assenza di fatturazione. I giudici avrebbero ritenuto – sbagliando - acclarato il delitto previsto dall’articolo 314 del Codice penale.
La Cassazione ha respinto il ricorso e ha confermato la correttezza della sentenza che aveva annullato la condanna di peculato solo sul punto dell’interdizione dai pubblici uffici.
Per i giudici di merito e per due volte quelli di legittimità (già la Cassazione se ne era occupata, ma il medico ha proseguito nei ricorsi) hanno confermato la ricostruzione che porta all’affermazione conclusiva di peculato.
La sentenza della Cassazione ricorda che le sezioni riunite hanno precisato:
a) qualora la causa dell'errore non sia identificabile esclusivamente in una fuorviata rappresentazione percettiva e la decisione abbia comunque contenuto valutativo, non è configurabile un errore di fatto, bensì di giudizio;
b) sono estranei all'ambito di applicazione dell'istituto gli errori di interpretazione di norme giuridiche, sostanziali o processuali, ovvero la supposta esistenza delle norme stesse o l'attribuzione ad esse di una inesatta portata, anche se dovuti ad ignoranza di indirizzi giurisprudenziali consolidati, nonché gli errori percettivi in cui sia incorso il giudice di merito, dovendosi questi ultimi far valere - anche se risoltosi in travisamento del fatto - soltanto nelle forme e nei limiti delle impugnazioni ordinarie;
c) l'operatività del ricorso straordinario non può essere limitata alle decisioni relative all'accertamento dei fatti processuali, non risultando giustificata una simile restrizione dall'effettiva portata della norma in quanto l'errore percettivo può cadere su qualsiasi dato fattuale.
“Quando invece la causa dell'errore non è identificabile esclusivamente in una fuorviata rappresentazione percettiva – si legge nella sentenza - e la decisione abbia comunque contenuto valutativo, ritiene il Collegio come non possa mai configurarsi un errore di fatto, bensì di giudizio, situazione che, come tale, resta esclusa dall'orizzonte del rimedio previsto dall'art. 625-bis cod. proc. pen.”.
In sintesi, secondo a sentenza, “esulando dall'errore di fatto ogni profilo di diritto valutativo, lo stesso finisce con il coincidere con l'errore revocatorio - secondo l'accezione che vede in esso il travisamento degli atti nelle due forme della ‘invenzione’ o della ‘omissione’- in cui sia incorsa la stessa Corte di Cassazione nella lettura degli atti del suo giudizio. Alla luce di tali regole iuris deve escludersi la configurabilità di alcun errore di fatto nella decisione adottata dalla Sesta Sezione penale di questa Corte nel processo a carico del ricorrente”.
Secondo la Corte il fatto che l’ospedale fosse venuto a conoscenza dell’attività intramoenia del medico a febbraio 2008 dimostra che per il periodo precedente era all’oscuro del suo svolgimento.
“Il provvedimento impugnato – concludono i giudici della seconda Sezione penale della Cassazione – dopo aver aderito alla distinzione tra attività intramuraria semplice e quella ‘allargata’ e tra quest’ultima e l’attività extramuraria, ha precisato come tale linea di demarcazione comporti ‘erronee conseguenze lì dove pretende di trarne implicazioni contrastanti con il fatto … che egli ha sempre svolto … attività intramoenia di duplice tipo (meramente interna e allargata) visitando presso le strutture ospedaliere numerosi pazienti e percependone i compensi che poi ha indebitamente trattenuto senza provvedere al versamento delle quote di spettanza all'amministrazione ospedaliera”.
Secondo i giudici una simile motivazione rende del tutto ininfluente l'incidenza dei pretesi errori denunciati dal ricorrente “atteso che, da un lato, deve escludersi che nell'area dell'errore di fatto denunziabile con ricorso straordinario possa essere ricondotto l'errore percettivo non inerente al processo formativo della volontà del giudice di legittimità e, dall'altro, occorre riconoscere come il preteso errore di fatto già avrebbe inficiato - nella prospettazione del ricorrente le decisioni dei giudici di merito - evenienza, quest'ultima che, in quanto tale ed in ragione del c.d. effetto trascinamento, avrebbe dovuto essere tempestivamente denunciata attraverso gli specifici mezzi di impugnazione proponibili avverso le relative decisioni”.
I giudici evidenziano quindi che il giudice di legittimità ha correttamente condiviso la scelta ricostruttiva-valutativa dei giudici di merito: “avverso tale ultima decisione, il ricorrente, nel muovere una contestazione finalizzata alla ‘revoca’ della sentenza, finisce per denunciare niente più che un (preteso) errore valutativo o di giudizio, situazione - come detto - non tutelabile nell'ambito del giudizio di legittimità”.
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