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Lunedì 28 NOVEMBRE 2011
Governo Monti/7. Agenda sanità. Perché serve un “governo federale della salute”

"Le Regioni devono capire che se si va avanti di questo passo le prime ad essere messe in croce saranno proprio loro. Se ora devono pedalare e hanno la lingua a penzoloni è perché non solo  hanno voluto la bicicletta ma hanno voluto quella più grossa e più pesante"

Nuova puntata dello speciale QS sulle aspettative per la Sanità con il Governo Monti. Dopo i contributi di Mandelli (Fofi), Scaccabarozzi, (Farmindustria), Rimondi (Assobiomedica), di Federico Spandonaro (economista del Ceis Tor Vergata), e dei rappresentanti della classe medica Troise (Anaao), Cozza (Cgil), Calì (Smi), Cassi (Cimo), Lala (Sumai), Carpino (Aaroi), l'intervista al presidente della Toscana Enrico Rossi, ecco un contributo di Ivan Cavicchi, scrittore, filosofo della medicina, per anni sindacalista della Cgil ed ex direttore generale della Farmindustria.
 
A giudicare dai recenti dati Ocse il servizio sanitario italiano ha delle eccellenze di cui dovremmo essere davvero orgogliosi, e per giunta con un livello di spesa relativamente basso rispetto alla media. Nello stesso tempo  chi si occupa di sanità sa che le cose non vanno bene. Sta prendendo forma una discriminazione tra cittadini deboli e cittadini forti preoccupante, il trade off tra efficienza ed equità si è allargato,crescono le disuguaglianze di trattamento, circa due milioni di nuclei famigliari abbandonano la cura perché non possono pagare i ticket, solo 8 regioni assicurano tutte le tutele di legge, lo scontento tra gli operatori sta crescendo  vessati da reiterare blocchi del turn over e dai blocchi contrattuali, vi sono regioni che per finanziarsi il debito aumentano le tasse ai cittadini, altre che accendono mutui, altre ancora che tagliano servizi incuranti dell’impatto sociale che queste misure hanno.

L’Ocse ci dice che in certi settori siamo bravi ma la letteratura sull’overcrawding ci dice che la qualità dell’assistenza con meno soldi, meno personale, meno servizi  cala e che addirittura cresce la mortalità dei malati cosiddetti “complessi”. Come è possibile  che l’Ocse ci santifica con una realtà così contraddittoria? E’ possibile, di antinomie simili è piena la storia: le piramidi e gli schiavi , gli Usa e gli indiani, Marx e le emorroidi, Socrate e Santippe, l’inquisizione e la religione ecc. Quindi siamo fieri di quel che dice l’Ocse però nello stesso tempo proponiamo di voltare pagina, approfittando dell’opportunità di coniugare “emergenza” con “cambiamento”.
Se l’emergenza non ha la forza di innescare un cambiamento siamo messi davvero male. Due secondo me sono le questioni prioritarie: la prima finanziaria, la seconda istituzionale.
 
Ripensare i il rapporto tra “diritti e risorse”. Quando i ticket vengono usati come tasse di scopo e per questo pagate da chi sta male, o quando si aumenta l’irpef a carico dei cittadini vuol dire che si hanno grosse difficoltà a cambiare i sistemi sanitari e a ripensare il rapporto difficile tra  diritti e risorse. I ticket e le tasse ci dicono delle difficoltà e dei limiti  progettuali di chi governa la sanità. Se aumentano le tasse sui cittadini è perché il meccanismo inaugurato alla fine degli anni 90 che adeguava la crescita  dei costi dei livelli assistenziali adeguando le quote capitarie con la crescita del Pil non funziona più. Oggi gli attuali  livelli di assistenza, asciugati a più riprese, prima uniformi, poi essenziali, oggi minimi, sono di fatto più costosi delle disponibilità concesse alle regioni, per cui loro malgrado, producono disavanzo. Il meccanismo  che adeguava  le quote capitarie al tasso di inflazione, alla crescita della domanda, alla crescita dei costi produttivi, alla crescita reale del Pil, oggi è irrealistico, per due ragioni di fondo:
* quando il Pil non cresce o cresce poco, il sistema va per forza in disavanzo perché definanziato
* in costanza di sistema ad una crescita della spesa non corrisponde una proporzionale crescita dei benefici, per cui il sistema  va in antieconomia.

Per queste ragioni dobbiamo cambiare le politiche e trasformare, come usano dire i raffinati della complessità, un limite in una possibilità: qualificare la domanda di salute; ripensare a parità di diritto i costi, ripensando i modelli di offerta che sino ad ora li  hanno prodotti; integrare la  spesa pro-capite  per la cura delle malattie con la produzione di  benessere pro-capite (la salute al pari delle foreste, dell’ambiente, dell’acqua pulita è  una risorsa naturale da produrre) ecc. Se vogliamo liberare i cittadini dalle odiose tasse sulla malattia e nello stesso tempo garantire loro più salute dobbiamo cambiare le nostre politiche. I ticket, i tagli, le restrizioni alle tutele, le liste di attesa sono una tassa sull’invarianza. 30 anni fa  l’economia  finanziava il welfare perché  la salute era vista come un fattore di sviluppo economico. Oggi non è più così. Ormai i costi del sistema  sanitario  crescono  più  del Pil. Vogliamo o no provare a ripensare questo sistema  pubblico per  mantenerlo pubblico e ricreare le condizioni perché la salute torni ad essere un fattore di sviluppo economico?

Dal “regionismo” al “regionalismo”. C’è un nodo politico  da sciogliere: con la modifica del Titolo V della Costituzione si è sbilanciato il governo della sanità creando una situazione che definirei  di “regionismo e niente altro”, dove le competenze sono tutte sulle regioni ma  svuotando significativamente i poteri dello stato centrale e degli enti locali. I poteri come ci ha spiegato Montesquieau ci conviene che siano equilibrati e per fare salute serve interconnettere tutti i poteri utili. Il regionismo deve essere ricondotto ad un corretto regionalismo, quindi confermando alle regioni i loro poteri e le loro  prerogative, ma controbilanciandoli  con un vero e proprio “governo federale per la salute” (non si può andare avanti con l’enciclopedismo della conferenza stato/regioni). Le regioni devono capire che se si va avanti di questo passo le prime ad essere messe in croce saranno (e già lo sono) proprio loro. Se ora devono pedalare e hanno la lingua a penzoloni è perché non solo  hanno voluto la bicicletta ma hanno voluto quella più grossa e più pesante.

Ivan Cavicchi
 

 

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