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03 GIUGNO 2018
Tumore del polmone. I risultati degli studi con atezolizumab e le nuove ‘alleanze’ con chemioterapia e anti-angiogenetici

Presentati all’ASCO di Chicago i risultati parziali degli studi IMPower131 e IMPower150 che confermano l’efficacia dell’atezolimumab, un immunoterapico anti-PD-L1, nel tumore del polmone. Queste ricerche suggeriscono anche che un ‘cocktail’ di farmaci, da costruire su misura del paziente, funziona meglio delle singole terapie. L’immunoterapia insieme alla chemioterapia funziona meglio della chemio da sola nelle forme avanzate, in prima linea; molto promettente anche l’associazione con gli anti-angiogenetici, soprattutto sulle metastasi epatiche.

La storia dell’immunoterapia è un work in progress, un campo nel quale, giorno dopo giorno si impara a prendere le misure, quelle che serviranno a mettere a punto la terapia migliore per il singolo paziente. Perché l’immunoterapia rappresenta il paradigma stesso della medicina di precisione, dove non c’è una strategia terapeutica a ‘taglia unica’, ma quella confezionata su misura per il singolo paziente, sulla base del profilo molecolare del suo tumore,che è unico tra mille altri.
Farmaci importanti, fondamentali in diversi tipi di tumore, gli immunoterapici; ma gli studi dimostrano che, per funzionare al meglio possono ‘allearsi’ con le terapie tradizionali, anche con la classica chemioterapia.
 
 “Presi dall’entusiasmo – riflette Filippo De Marinis, direttore della Divisione di Oncologia Toracica dell’Istituto Europeo di Oncologia di Milano - alcuni si erano spinti a dire che l’immunoterapia avrebbe mandato in soffitta la chemioterapia. Poi, studio dopo studio, ci si è accorti che le cose non stanno proprio così. Di certo è necessario fare un distinguo tra la prima linea di trattamento e la seconda linea. Se è vero che in seconda linea la chemioterapia è una strategia debole, della quale gli studi che saranno presentati questi giorni all’ASCO diranno se potremo ‘liberarcene’, questo discorso non è assolutamente valido per la prima linea. In questo caso gli studi sembrano suggerire proprio il contrario e cioè che le strategie migliori per i pazienti sono quelle di cocktail farmacologici, dove accanto al nuovo, la chemioterapia continua ad avere un suo ruolo preciso”.
 
“Un altro mito da sfatare – prosegue De Marinis – è che gli immunoterapici siano tutti uguali. Non è così e per molte ragioni. I risultati ottenuti dagli inibitori di PD-L1, come l’atezolizumab, sono diversi da quelli ottenuti con gli anti-PD-1 (es. nivolumab e pembrolizumab), per molti aspetti. Tanto per cominciare gli anti-PD-1 funzionano solo se nel tumore c’è un’espressione di PD-L1 superiore al 50%, mentre atezolizumab funziona su tutti i pazienti (anche se certamente di più in quelli con maggior espressione del PD-L1). Ma anche gli effetti indesiderati sono diversi: l’incidenza di polmoniti con i PD-L1 inibitori è inferiore all’1%, con gli anti-PD-1 può arrivare al 3%. Dato questo non di poco conto se si considera che stiamo parlando di pazienti con tumori del polmone, quindi con una compromissione di base della funzionalità respiratoria.”
 
IMpower 131. All’ASCO sono stati presentati i risultati provvisori (solo quelli relativi alla sopravvivenza libera da progressione di malattia, PFS) di questo studio di fase III che ha valutato, su 724 pazienti con carcinoma polmonare non a piccole cellule (NSCLC), squamoso al IV stadio, efficacia e sicurezza di  atezolizumab somministrato insieme a chemioterapia (carboplatino e NAB-paclitaxel), confrontandone i risultati con il ‘braccio’ chemioterapia (carboplatino e NAB-paclitaxel) da sola.  I pazienti del braccio atezolizumab-chemioterapia rispetto a quelli trattati con sola chemioterapia hanno presentato una PFS del 29% superiore; in altre parole, nel 29% di questi pazienti con NSCLC avanzato squamoso, l’aggiunta dell’anti-PD-L1 alla chemioterapia ha ridotto il rischio di progressione della malattia e di mortalità, rispetto a quelli trattati con la sola chemioterapia. 
 
“Fino ad oggi sono stati registrati pochi progressi terapeutici nel carcinoma polmonare squamoso – commenta Robert M. Jotte, direttore medico USON Thoracic Committee, Rocky Mountain Cancer Center, Denver (Usa) – I risultati di questo studio forniscono  una nuova potenziale opzione di trattamento per questo tipo di tumore. Pensavamo che la chemioterapia provocasse un crollo del sistema immunitario del paziente e che dunque sarebbe stato irrazionale l’idea di associarla all’immunoterapia. Al contrario, le ultime ricerche, compresi i risultati di questo studio, stanno a suggerire che la chemioterapia può aiutare a scatenare le risposte immunitarie contro il tumore, aiutando così l’immunoterapia a funzionare meglio”.
 Lo studio ha confermato inoltre che atezolizumab funziona anche sui pazienti PD-L1 negativi (HR 0,81), anche se le sue performance sono migliori nei PD-L1 positivi (HR 0,61).
Si tratta di un risultato di grande importanza visto che il tumore NSCLC squamoso (che rappresentata il 25-30% di tutti i NSCLC) è molto difficile da trattare; meno del 15% dei pazienti con la forma avanza di questo tumore è ancora vivo ad un anno dalla diagnosi e meno del 2% sopravvive a 5 anni.
“Un dato molto promettente  – commenta De Marinis - anche se non si dispone ancora dei risultati relativi alla sopravvivenza globale (OS). E’ necessario però precisare, onde evitare una ‘ASCO syndrome’, che in Italia il NAB-paclitaxel non è una chemioterapia approvata per il tumore del polmone, per cui da noi questo trattamento non potrebbe essere effettuato.
 
IMpower 150. Questo studio ha valutato il trattamento in prima linea con la triplice combinazione di atezolizumab-chemioterapia (carboplatino e  paclitaxel) -bevacizumab (un anti-angiogenetico) in un gruppo di pazienti con NSCLC non-squamoso non trattati in precedenza. Lo studio ha coinvolto 1.200 pazienti arruolati presso 26 nazioni e ha confrontato 3 gruppi di trattamento: 1) atezolizumab + chemioterapia standard; 2) atezolizumab + chemioterapia + bevacizumab; 3) chemioterapia + bevacizumab. L’analisi ad interim, presentata all’ASCO e pubblicata in contemporanea sul NEJM, dimostra tassi di sopravvivenza complessiva pari a 19,2 mesi nel gruppo trattato con la triplice associazione, rispetto ai 14,7 mesi della terapia standard (chemioterapia + bevacizumab), corrispondenti ad un HR 0,78 per mortalità. Molto interessati i risultati ottenuti in due sottogruppi di pazienti ‘difficili’, tra cui quelli con metastasi epatiche e quelli con mutazioni EGFR e ALK, nei quali è stato ottenuto un HR di sopravvivenza globale pari a 0,54. L’associazione tra un anti-PD-L1 e il bevacizumab sembra dare insomma un grande vantaggio di sopravvivenza tra i pazienti con metastasi epatiche. I risultati di questo studio forniscono dunque un forte rationale scientifico che supporta l’impiego della combinazione atezolizumab-bevacizumab; questa associazione potrebbe infatti potenziare le performance dell’immunoterapia contro una serie di tumori, quali il NSLCS in fase avanzata.
 
Maria Rita Montebelli

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