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Mercoledì 16 NOVEMBRE 2011
Scoperta italiana. Ma in Usa. Con le staminali si può riparare un cuore infartuato

Pubblicato il primo studio che mostra come l’uso delle staminali adulte prelevate dal cuore degli stessi pazienti possa aiutare l’organo cardiaco a recuperare dopo un infarto. La ricerca condotta negli Stati Uniti da medici italiani.

Sembra proprio che la ricerca italiana all’estero dia ottimi frutti. Questo viene da pensare quando si apprende la notizia che sono stati due medici italiani, trasferiti negli Stati Uniti, i primi ad utilizzare cellule staminali del cuore per risolvere i problemi di questo organo. Sembra infatti che un cuore malandato possa guarire grazie alle sue stesse cellule staminali, se aiutato dalla giusta tecnologia come quella sviluppata da Roberto Bolli dell’Università di Louisville (Kentucky) e Piero Anversa del Brigham and Women’s Hospital della Harvard Medical School di Boston.
L’insufficienza cardiaca è una delle patologie più comuni e debilitanti. È spesso letale e grava sia sul Sistema sanitario nazionale che sulle tasche dei pazienti. I due scienziati e i loro team hanno dimostrato in una ricerca pubblicata sulla rivista The Lancet come il recupero dopo un attacco cardiaco sia facilmente migliorabile grazie alle staminali multipotenti adulte. La causa più comune di ricovero per problemi cardiaci è quella dovuta all’infarto, a seguito del quale spesso rimane una forte insufficienza cardiaca, dovuta al fatto che i tessuti cardiaci sono rimasti per troppo tempo senza ossigeno e dunque sono in parte morti. Per questo spesso i cuori che hanno subito ischemie, riescono a pompare una quantità minore di sangue.

Ma la tecnica sviluppata negli Stati Uniti va proprio nella direzione di riparare i tessuti danneggiati. In che modo? Ristabilendo la corretta frazione di eiezione, ovvero la giusta quantità di sangue pompata dal muscolo cardiaco. Per farlo i ricercatori hanno prelevato cellule staminali dal cuore di 16 pazienti reduci da un infarto e ai quali era stato applicato un bypass coronarico, le hanno fatte crescere in coltura e poi reiniettate nell’organo di ogni paziente. Una tecnica già utilizzata con successo su modelli animali, ma mai sperimentata sugli uomini.
Il cuore adulto, infatti, contiene delle cellule staminali multipotenti – ovvero che possono differenziarsi nelle tre principali linee cellulari del muscolo cardiaco – capaci di autorinnovarsi e di moltiplicarsi in cellule identiche alle progenitrici. A distanza di quattro mesi dall’intervento di bypass coronarico, gli scienziati hanno iniettato ad ogni paziente un milione delle proprie staminali cardiache già cresciute in coltura. In questo modo, hanno ottenuto in 14 dei 16 pazienti un aumento della frazione di eiezione dal 30,3% prima del trattamento, al 38,5% dopo l’iniezione, un risultato ancora lontano dagli standard di un cuore sano (che si aggirano intorno a valori del 50-60%), ma comunque promettente.

Il follow-up. Nell’anno seguente al trattamento, le condizioni dei pazienti sono state monitorate insieme a quelle di altre sette persone che avevano avuto lo stesso intervento di bypass coronarico, ma senza essersi sottoposti alla cura di cellule staminali. I ricercatori hanno usato l’ecocardiogramma per misurare il volume dell’organo cardiaco e la quantità di sangue pompata, nonché la risonanza magnetica per tracciare quale porzione del cuore presentasse tessuti morti. Così facendo, Bolli e Aversa hanno scoperto che gli effetti delle cellule staminali dopo un anno erano ancora più pronunciati in otto dei sedici pazienti curati, nei quali la frazione di eiezione era arrivata alla percentuale di 42,5%. Inoltre, nei sette pazienti per i quali era possibile l’uso di risonanza magnetica, si è riscontrata una diminuzione dei tessuti morti del 24% dopo quattro mesi e del 30% dopo un anno.
Non è ancora del tutto chiaro come il trattamento abbia funzionato. “Non sappiamo se l’effetto sia dovuto alla formazione di nuove cellule cardiache sane, oppure se sia a causa della riattivazione di staminali dormienti nell’organo. O ancora quanto sia dovuto alla cura vera e propria delle ferite dovute all’infarto e alla formazione di nuovi vasi sanguigni”, hanno spiegato gli autori. “Per sciogliere gli ultimi dubbi ci serviranno altri dati, ciò significa che stiamo pianificando che altri pazienti vengano seguiti per periodi ancora più lunghi. Ma siamo fiduciosi nei risultati.”

Laura Berardi

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