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Lunedì 16 OTTOBRE 2017
C’è un futuro per la legge 180?

La 180 è stata il più formidabile strumento contro il riduzionismo clinico-biologico, cioè contro la psichiatria del tutto avulsa da una qualsiasi parvenza di complessità. Ma ormai dobbiamo guardare al futuro e a chi verrà dopo di noi e chiederci cosa lasceremo loro in eredità. L’apologia del passato è una condanna ma non un’eredità

Siamo tutti d’accordo che la salute mentale” a condizione non impedite, nel tempo, sarà molto probabilmente ridimensionata. Oltre tutto è in atto un forte processo di privatizzazione della sanità pubblica. Questo è il principio di realtà da cui partire. Non ci saranno crolli ma un progressivo disfacimento.
 
A condizione non impedite” vuol dire che se si interviene nel modo giusto, la crisi della salute mentale a certe condizioni può essere governata.
 
La complessità come controparte
La questione ha un carattere rizomatoso. Essa co-emerge da un viluppo di problemi al punto da coincidere con le proprietà emergenti di una precisa complessità sociale culturale e economica non riducibile e con la quale dovremmo fare i conti.
 
Essa quindi è la conseguenza di tante cose: politiche finanziarie avverse, debolezze interne, cambiamenti della domanda, perdita del potere negoziale, mutamenti che nel frattempo sono intervenuti e tante altre cose.
 
Questo vuol dire che, intervenire solo su un problema, non risolve niente e che pensare di riproporre una 180 bis ignorando contesti e complessità è strategicamente sbagliato.
 
Quattro sono i meccanismi (per altro ben riassunti da Starace, (Qs 13 ottobre 2017) tra loro correlati sui quali serve intervenire:
· contesti  che spiazzano  il nucleo teorico della 180 e che pongono il problema della sua ri-contestualizzazione
· invarianza, cambiamenti  per attuare la 180 che non sono stati fatti
· regressività, il mancato aggiornamento dell’impianto  teorico della 180 alla luce dello sviluppo delle conoscenze scientifiche , dell’evolversi dei bisogni sociali, dei cambiamenti sociali culturali  e politici ecc
· sostenibilità, vale a dire il de-finanziamento progressivo del sistema
 
Se tutto questo è alla base dei processi di disapplicazione allora per applicare la 180 è necessario farci i conti.
 
L’idea quindi è quella di una 180 altra con lo scopo di:
· intervenire su questi quattro meccanismi,
· dotarci di una proposta riformatrice
· rimettere in piedi un movimento di idee, esattamente come 40 anni fa,
· riaprire un negoziato sociale, senza il quale ho paura che non andremo da nessuna parte.
 
Quindi la domanda alla quale, se vogliamo bene alla nostra storia, dovremmo rispondere è: a quali altre condizioni per non fare una brutta fine?
 
Chi è il soggetto da tutelare?
All’indomani della 180 il soggetto da tutelare era principalmente quello de-istituzionalizzato. Il dsm (dipartimento di salute mentale) ereditava i pazienti del manicomio deducendo da essi le sue caratteristiche organizzative.
 
Nel corso degli anni a dsm invariante si sono aggiunti nuovi malati sempre meno pazienti e sempre più esigenti e la domanda nel tempo è diventata sempre decisamente post manicomiale.
 
In Italia tutti gli studi epidemiologici sulla prevalenza dei disturbi mentali
(lifetime) psicotici e non psicotici ci dicono che il soggetto da tutelare ormai rispetto a 40 anni fa  è profondamente cambiato, legato spesso alle situazioni di lavoro, alle circostanze familiari, alle comunità di vita, agli ambienti sociali, alle dipendenze da sostanze ecc.
 
Tale cambiamento avviene dentro   un cambiamento ontologico e sociologico più grande, il paziente diventa  esigente , che, in quanto tale, rappresenta da solo una crescita notevole del grado di complessità delle relazioni e nelle relazioni e che pone nuovi problemi all’epistemologia della cura e dei trattamenti.
 
Siccome il malato da curare rappresenta la premessa ontologica per definire tanto l’organizzazione dei servizi che l’epistemologia della cura ma anche la formazione degli operatori la domanda che pongo è: dopo 40 anni non è forse il caso di adeguare l’idea di tutela ai nuovi soggetti da tutelare?
 
“Quale terapia per quale paziente”
L’esigente, la domanda che rappresenta, i contesti in cui vive, pongono quindi un quesito prima ontologico poi epistemologico, lo stesso posto qualche anno fa, a proposito di depressione (la nuova epidemia come ci dice oggi l’epidemiologia) da Roth e Fonagy “quale terapia per quale paziente” (1997).
 
Un malato nuovo in una società diversa può essere tale a malattia invariante?In che misura la nuova ontologia del malato è funzione di una nuova epistemologia della cura?
 
Tali quesiti servono a capire i rapporti che legano ontologia epistemologia e prassi. Se a cambiamenti costitutivi del malato insistono invarianze altrettanto costitutive delle prassi allora in tale caso si ha un problema di regressività.
 
Vorrei a questo punto riflettere brevemente su due espressioni di largo uso nel linguaggio della salute mentale: disturbo mentale e disagio mentale. Entrambe significano una problema dovuto all’allontanarsi del malato (dis) da una situazione di normalità (agio)
 
A parte Canguilhem, che ci ha spiegato quanto sia complessa la nozione di normalità, sto pensando a tutte le nuove conoscenze sulla mente alle neuroscienze ecc., che ci dicono che la condizione normale, dato un contesto di vita non casuale di una qualsiasi persona, è essere, entro una certa misura, normalmente dis-turbato e disagiato, e che spesso ciò che chiamiamo disturbo è in realtà una ex-pressione   cioè una asserzione da interpretare in quanto tale.
 
Nella logica della 180 il dipartimento di salute mentale considera il dis, degli allontanamenti, e con le proprie prassi, punta ad ottenere dei ri, cioè dei ri-pristini o delle normalizzazioni, cioè dei ri-avvicinamenti ad un grado accettabile di normalità.
 
La mia impressione è che se la premessa ontologica di una qualsiasi prassi pur cambiando il soggetto di cura, restasse la concezione di disturbo, resteremmo dentro la logica classica della 180, e il quesito ontologico, “quale terapia per quale paziente”, si ridurrebbe a “quale terapia per quali disturbi”.
 
Con la conseguenza di trattare i malati facendo ricorso alle classificazione dei disturbi (DSM) e quindi assumendoli quali parametri per la denotazione delle malattie. Dove è il problema?
 
Non sto proponendo di passare dai disturbi alle espressioni (esistono sia gli uni che gli altri) sto semplicemente facendo notare che:
· nella concezione classica del disturbo, “si è curati” quindi il malato è un complemento oggetto delle prassi,
· in quella dell’espressione il malato è un complemento di agente.
 
La differenza, quindi, rispetto alle prassi è: essere oggetto o essere soggetto.
Se è vero che il paziente, indipendentemente dalla sua malattia, è diventato esigente che si ripensino le prassi in funzione di un altro genere di relazione terapeutica a me pare tutt’altro che insignificante.
 
“Quasi” sociologia psicologia biologia
La 180 è stata il più formidabile strumento contro il riduzionismo clinico-biologico, cioè contro la psichiatria del tutto avulsa da una qualsiasi parvenza di complessità.
Per capire a fondo il suo valore bisogna capire a fondo il riduzionismo psichiatrico dell’epoca. Esso agiva con diversi tipi di riduzione:
· ontologica le malattie mentali non sono niente altro che un corto circuito del cervello,
· relative alle proprietàla malattia mentale è solo la perdita della normalità,
· teorica mla malattia mentale è null’altro che una malattia come un’altra,
· logica la malattia mentale si cura con l’elettro schok e con i famaci,
· causale la malattia mentale è solo un problema di ordine pubblico.
 
La 180 ribalta questo sistema di riduzioni ma, necessariamente, considerando lo stato delle conoscenze scientifiche dell’epoca, riduce a sua volta tutto a “oltre biologico” cioè a sociologia biografia idiografia psicologia e a assistentato.
 
La dimensione biologica della malattia mentale viene messa come tra parentesi fino a considerare la clinica i trattamenti farmacologici a loro volta come riduzioni di complessità, (a un certo punto ci fu una discussione sulle “tecniche” che le configurava quasi come dei tradimenti epistemici).
 
Ricordo che la discussione se sia giusto o meno inquadrare la salute mentale nell’ambito del sociale o della medicina non è ancora finita.
 
Ciò ha dato luogo ad uno dei paradossi più pazzeschi che si possano immaginare: una università con una weltanschauungdel tutto opposta a quella dei servizi e quindi a quella della 180 quindi nemica dei servizi e che pur ha il compito di formare operatori per i servizi.
 
Secondo me, 40 anni fa, la 180 non poteva fare altro, ma oggi le cose sono cambiate e le tre schizofrenie, tra conoscenze di genere diverso; tra formazione e prassi; tra università e servizi, non sono più tollerabili.
 
Se 40 anni fa nell’ambito della salute mentale era impossibile costruire ponti tra nomotetica e idiografia perché oltreché avere le rive troppo distanti mancavano i materiali giusti, oggi non è più così.
 
Le rive grazie alla evoluzioni del dibattito psicoanalitico, alle neuroscienze, al cognitivismo, alla scienza della mente, alla psiconeuroendocrinoimmunologia, alla programmazione neurolinguista, ecc., si sono molto avvicinate e i materiali per costruire ponti ormai sono abbondanti al punto da mettere in crisi la storica dicotomia cartesiana mente/corpo e quella tipica della 180 società/individuo.
 
E’ tempo di costruire ponti
Oggi siamo nel tempo:
· degli inter-mondi e quindi degli inter-corpi cioè di cose che sono quasi biologiche e quasi psicologiche e quasi sociologiche,
· nel tempo in cui è quasi impossibile  classificare nettamente le cose (o bianche o nere),
· siamo nel tempo  nel quale molte verità  sono gappy cioè  tra «gap» e «glup», vale a dire «né vere e ne false» (truth value gap) o che ammettono glut di verità, «tanto vere quanto false», (truth value glut),
· siamo nel tempo delle interconnessioni, la malattia mentale non è più spiegabile come se esistessero due mondi tra loro in opposizione, il corpo e la mente, o la società contro l’individuo.
 
Oggi le nuove conoscenze ci dicono che le meteore di Aristotele non sono fenomeni tra il cielo e la terra perché esse sono “sostanzialmente” una relazione indissolubile e quindi sono l’espressione di tale indissolubilità. L’espressione non già il disturbo. Non dis ma ex.
 
Questa interconnessione non è l’insieme del cielo e della terra, la somma della mente e del cervello, ma un “tutt’uno” ontologicamente difficile da definire. Forse è a questa ineffabilità che si riferiva Basaglia quando, nel ‘77, affermava che “è impossibile definire la malattia mentale”.
 
A questo tutt’uno che per comodità epistemologica facciamo a pezzi, specializzando tutto lo specializzabile, si riferiva Nietzsche, che in “Così parlò Zaratustra” (dei dispregiatori del corpo) scrisse: “Il corpo è una grande ragione, una pluralità con un sol senso(….)Vi è più ragione nel tuo corpo che nella tua migliore saggezza”.
 
Damasio con le sue scoperte sulle aree neuronali implicate nei processi emotivi non dirà cose molte diverse, e cosi Edelman con la sua neurobiologia quindi la sua  teoria materialistica della coscienza.
 
Allora che si fa? Siamo nei guai e non sfruttiamo le occasioni che ci offre il nostro tempo per venirne fuori?  Ci rassegniamo ad avere una università nemica dei servizi? Ad avere operatori in ogni caso inadeguati alla dimensione ontologica del tutt’uno, degli inter-mondi delle verità gappy e delle inter-connessioni? Ci rassegniamo ad avere prassi insufficienti poco capaci di cogliere le complessità dei nuovi soggetti e delle nuove ontologie che questi si portano dietro? Ci teniamo un Dsm che non sa neanche dove stanno di caso le interconnessioni?
 
O al contrario ci rimbocchiamo le maniche e cominciamo, a proposito di regressività, a svecchiare un po’ la casa aprendo intanto le finestre per cambiare l’aria?
 
Oltre il dipartimento di salute mentale
Non è strano che nei vari progetti obiettivo sulla salute mentale non sia mai stato definito il dsm. Oltre l’espressione “modello organizzativo”, “assetto organizzativo” non si è mai andati e, a parte indicare generici scopi quali l’unitarietà dell’intervento e la continuità terapeutica più recentemente la presa in carico, non si è detto molto di più.
 
Certo nei progetti obiettivo si sono definiti compiti e funzioni ma sempre a definizione assente. Ricordo che una definizione è il complesso degli elementi volti a caratterizzare e circoscrivere un'entità sul piano concettuale. Il nostro dsm è una entità senza identità.
 
Quando nell’82 (allora ero responsabile della sanità della CGIL) pubblicai la mia proposta di dsm sostenendo che esso andava prima di tutto definito perché non si poteva andare avanti con la storia del “servizio forte” e del servizio debole”, ricordo che non incontrai un grande favore.
 
L’obiezione degli amici di psichiatria democratica era che la sua organizzazione andava fatta seconda la bisogna. La proposta era quella che oggi si definirebbe network service cioè un sistema di relazioni inteso come una rete di inter-connessioni tra società e sanità, tra saperi e prassi diversi, con un forte coordinamento, ma seguendo “la bisogna” si preferì semplificare e ripiegare su una somma di strutture cioè un insieme non un sistema nel quale i servizi erano tra loro giustapposti tutti con i loro bravi dirigenti e le loro classiche divisioni dei compiti.
 
Esattamente come il Santa Maria della Pietà cioè come un ospedale quale insieme di padiglioni. Non è casuale quindi se l’ultimo paragrafo del capitolo sul dsm aveva il seguente titolo “il servizio manicomiale su base dipartimentale”.
 
Se è il caso riprenderò il discorso sui dsm per ora mi limito a ribadire che se la salute mentale è una complessità che va governata con prassi non tayloristiche non si possono organizzare tali prassi con logiche tayloristiche.
 
Oggi con tutto quello che ci capita il dsm sintetizza su di sé tutte quattro le condizioni da ripensare: è fuori contesto, è vittima della sua invarianza, è una organizzazione regressiva, è un problema di sostenibilità.
 
Quindi ripropongo la mia vecchia idea di “rete quale servizio” pensata come un dominio di risorse professionali, di servizi, di saperi diversi, di metodologie diverse, coordinate come se tutto ciò fosse un'unità operativa.
 
In questo dominio metterei tutte le forme di disagio mentale senza distinzione di età compresa quella relativa alle dipendenze. Non ha alcun senso epistemico dividere il disagio mentale con logiche tayloristiche e meno che mai ha senso economico a proposito di sostenibilità dal momento che la divisione del disagio mentale in tanti “padiglioni” territoriali costa più di quello che potrebbe costare una buona rete quale servizio e funziona peggio.
 
Oggi per andare avanti abbiamo bisogno di soldi e con le finanziarie del governo, i soldi vanno trovati laddove ci sono.
 
Lei ha telefonato nel posto giusto, ora ci pensiamo noi ad aiutarla” è quello che in Finlandia un cittadino si sente rispondere se telefona al servizio di salute mentale per un qualsiasi problema. Questo vuol dire che in Finlandia quello che conta è il genere del bisogno non la specie e meno che mai il tipo e che per il genere la cosa migliore è un servizio unico organizzato come una rete.
 
Tra storia e establishment
Per me la 180 altra dopo 40 anni è l’evoluzione della 180. Ma non tutti sono di questo parere. Mi rendo conto che bisogna parlare con la storia e con l’establishment. Con la prima per chiederle di andare oltre il mito e di produrre altra storia con il secondo per rassicurarlo.
 
Oggi per salvare la baracca si tratta di avere una contro-prospettiva, un progetto, di aprire una transizione nella quale con opportune norme transitorie all’establisment, viene garantito nelle sue acquisizioni, come è giusto che sia, (quindi nessun effetto Fornero) ma a patto che a un certo punto, inizi un processo di riforma e che questo processo in nome della nostra storia non sia, per le ragioni più diverse, ostacolato.
 
Nel frattempo, anche per dare un segnale forte, mi adopererei per ricucire su nuove basi lo strappo storico con l’università e insieme a tutte le società scientifiche definirei un accordo per formare in modo nuovo e diverso quelle risorse professionali senza le quali nessuna “rete quale servizio” sarebbe possibile.
 
Va detto che il Ssn non ha saputo formulare una domanda diversa di formazione all’università, anzi ha avallato una weltanschauungche è rimasta nonostante tutto sostanzialmente immutata.
 
Dobbiamo guardare al futuro e a chi verrà dopo di noi e chiederci cosa lasceremo loro in eredità. L’apologia del passato è una condanna ma non  un’eredità.
 
Ivan Cavicchi

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