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Sabato 07 OTTOBRE 2017
Osteopati. Sconcerta la riluttanza verso il nostro riconoscimento
Gentile direttore,
senza dubbio le riforme migliori sono tali se non si limitano ad interpretare alcuni bisogni settoriali, ma cercano di incentivare sviluppo e modernizzazione con equità e giustizia. Giustamente, l'attuale progetto di legge per il riconoscimento dell'osteopatia non si riconduce al tentativo di regolamentare tutti i professionisti che siano più o meno adeguati al nuovo ruolo sanitario.
Al contrario, l'approvazione del DDL 3868 / art.4, rappresenta l'occasione per definire un nuovo sviluppo di questa disciplina che, sottoposta alle migliori linee guida, contribuirà a migliorare l'offerta sanitaria e il lavoro di squadra tra professionalità ben definite per ruoli e competenze. Inoltre, in considerazione dell'innalzamento dell'età media, l'integrazione di terapie vecchie e nuove in ottica di prevenzione e conservazione della salute potrà migliorare la qualità delle vita, contraendo la spesa pubblica per i farmaci, le terapie cruente e gli esami. Quindi, non un aggravio di spesa da attribuirsi alla parziale detraibilità delle fatture IVA esenti ma, in definitiva, un risparmio complessivo per la collettività.
Perché ciò possa accadere occorre consentire alla migliore osteopatia di differenziarsi dall'autoreferenzialità dei corsi di studi non autorizzati né controllati, dei master senza valore legale, dei registri che associano insieme scuole e operatori sedicenti, dei professionisti che si dichiarano osteopati ai pazienti e fisioterapisti allo Stato, dei corsi in cui si studia "osteopatia" insieme a "fisioterapia" ma anche assistenza ai bagnanti nello stesso tempo (!).
Dopo trent'anni di vuoto normativo gli osteopati italiani per primi hanno dichiarato la loro precarietà giuridica, hanno collaborato col Ministero della Salute e lavorato con i colleghi europei, hanno scritto insieme indirizzi comuni per competenze e attività. Essi hanno saputo isolare chi tra loro non considerava sanitaria la professione dell'osteopata, ravvisandone una snaturazione o temendo, forse, una regolamentazione per loro troppo rigorosa e selettiva.
Gli atti di questa cooperazione sono stati resi pubblici e rappresentano l'imput primario dell'evoluzione legislativa sanitaria per questa professione. Gli osteopati, infatti, a differenza dei chiropratici non avevano alcuna leggina che ne identificava l'esistenza e anche per questo hanno optato per la collaborazione a tutto campo con le autorità.
Considerato il percorso trasparente degli osteopati italiani in cooperazione istituzionale, appare sconcertante la levata di scudi di alcune rappresentanze sanitarie contro le nuove professioni, fino alla vigilia del dibattito parlamentare che ha già registrato voto favorevole in Senato e unanimità di giudizio in Commissione. La competenza scientifica e deontologica di questi ultimi dovrebbe comportare una proposizione attiva nel merito dei requisiti culturali e professionali dei nuovi operatori sanitari, piuttosto che preclusioni metodologiche o pregiudizialmente ostili.
Molti medici infatti lavorano con gli osteopati, sostenendo riconoscimento di quelli più oggettivamente qualificati. Che le rappresentanze sollevino lo sguardo verso le loro migliori esperienze interdisciplinari, anziché attaccare gli osteopati per riaffermare la propria esclusività di giudizio anche rispetto allo Stato.
Michela Podestà
Osteopata D.O.
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