quotidianosanità.it
stampa | chiudi
Sabato 24 GIUGNO 2017
Quando a vincere sono le “bad practice”
Gentile Direttore,
le scrivo ormai sulla china di una disperazione quasi assoluta dalla quale se ne esce solo in due modi: o depressi e piegati allo status quo o fuggitivi e quindi….perdenti consapevoli. La mia battaglia personale ebbe inizio in quel lontano 1987, quando, dimessomi dalla cooperativa che era stata il crogiolo delle mie idee e della mia propedeutica lavorativa, incontrai l’illusione “Infermiere”.
I modi per fare l’Infermiere sono apparentemente molti, se uno guarda ai diversi campi di applicazione in relazione ai molteplici aspetti clinici. Ma io credo che l’impostazione etica di ogni infermiere debba essere solo una. Per questo credo nella discussione etica, filosofica, della nostra professione.
Credo che essa debba coinvolgere tutta la società civile ma assolutamente tutti gli infermieri, in modo direi…plebiscitario e continuo, come continue sono le sollecitazioni che vengono dall’esterno del nostro mondo professionale affinché l’Infermiere possa rispondere sempre in maniera attenta al bisogno di cura dell’altro.
Non voglio ora qui riprendere la polemica sulla proposta del nuovo codice deontologico e delle (a mio avviso) insufficienti modalità di estensione delle altre proposte e della possibile discussione ampliata e capillarizzata in un momento storico in cui a mio parere, servirebbe incontrare le appendici, ormai ischemiche, dell’infermieristica, sul territorio e nelle unità operative ospedaliere considerate meno attraenti, per emancipazione tecnologica e per carico di lavoro, ma non per questo inutili o definitivamente superate, per ridare loro ossigeno e vigore.
Vorrei piuttosto narrare della vicenda personale perché esemplare di una situazione radicalizzata, di una forma mentis istituzionalizzata e un meccanismo di verifica e correzione di sistema praticamente inesistente.
Lo faccio con la consapevolezza dei rischi legati alle possibili ripercussioni legali o… persecuzioni professionali. Ma credo che arrivati a un certo punto non si possa più tacere, al di là del risultato personale e delle strategie politiche.
Mi trovo a lavorare da anni (anche perché questa è la mia scelta di campo) in una delle medicine generali del grande Ospedale di Cisanello a Pisa, in una Azienda Ospedaliera Universitaria. Una realtà molto frammentata, dal punto di vista sia della organizzazione interna delle varie UU.OO, sia dal punto di vista logistico.
Questa frammentazione è in parte dovuta ad un necessario adeguamento alle esigenze dell’utenza, in parte invece, alle esigenze di una ristretta platea di operatori…organizzatisi in piccola casta. Si assiste così, in alcuni casi, ad una organizzazione addirittura medievale che tiene in ostaggio la circolazione dei “saperi” a favore dell’interesse personale di evoluzione di carriera di un singolo, inquadrato in un sistema aziendalistico che pensa all’efficienza solo in termini di spesa, senza badare ai costi umani proprio laddove “l’umanità” dovrebbe essere rigenerata. Umanità che non può distinguere “servitori e serviti”, piuttosto ridurre al minimo le distanze per accomunarci in un cammino “circolare” di benessere, evoluzione, solidarietà, comprensione, accettazione.
Sicuramente questo è un momento duro, per tutti. E come spesso avviene nei momenti duri ognuno “ritira il proprio ponte levatoio”. Ma…ci sono situazioni e situazione che, chi è chiamato alla responsabilità gestionale, deve per mandato, saper distinguere.
Per questo, rimango perplesso rispetto alla evidente immobilità dei dirigenti, del presidente del collegio e dei sindacati, i quali sembrano sempre aspettare “denunce dettagliate alla stra-virgola firmate, protocollate e magari…con le foto frontali e di profilo del singolo disgraziato, prima anche di darti un cenno di risposta. Come se certe cose non fossero arcinote!
Farò degli esempi (come mi sono trovato già altre volte a fare anche qui, su questo quotidiano) e sono pronto a ripeterli all’infinito, finché la mia “morte professionale” non sarà decretata. Perché credo che, mentre ci si spende per dare definizione o ridefinizione ad organizzazioni e processi a livello generale, non si possa far finta di non vedere e non intervenire nelle singole situazione soprattutto quando ne viene assegnata, per ruolo istituzionale, la responsabilità.
Perché….c’è sempre il rischio di commettere quell’errore ideologico, cioè di rimandare le questioni specifiche alle questioni più generali, attivando così quel rimbalzo (o scarica barile) di competenze ormai assodato retaggio culturale dei nostri sistemi organizzativi. Un rimbalzo al quale sembra nessuno saper mai mettere fine.
Perché nessuno ha il coraggio di “rimetterci di persona” o (per citare un caro ex compagno di avventura sindacale) metterci la faccia! Cioè, la faccia ci si mette quando dietro si ha schiere di infermieri che aderiscono alla tua sigla sindacale, ci si mette quando c’è da tirare in ballo questioni generali come istituzione (che presiedi per elezione) ma senza prenderti mai l’onere della denuncia ad una procura del lavoro a alla procura della repubblica, la faccia ci si mette quando, dirigendo del personale a te sottoposto, trovi dove “spalmare” a dritta e manca le responsabilità di errori professionali che potevano essere tranquillamente predetti a tavolino, mettendo come elementi noti dell’equazione, il numero del personale, il carico di lavoro e gli obiettivi aziendali.
Per scendere nel dettaglio…attualmente, nella mia unità operativa, gli infermieri turnisti, quelli che durante la notte sistematicamente sono chiamati (insieme agli infermieri di altre unità operative non specialistiche) a sgravare il pronto soccorso ricoverando 2, 3 pazienti per notte, intasato per questioni più generali, che ora qui non sto a riprendere, sono “obbligati” a bucare il braccio, in media a una dozzina di persone, per eseguire gli esami ematici “routinari” (cioè, quelli stabiliti durante la visita del giorno precedente o in modo standardizzato, al momento del ricovero) più…una serie di “impropri” esami Urgenti, impropri perché programmati ed eseguiti con uno spazio di tempo che indica tutt’altro che una situazione di “urgenza”, intorno alle 5 del mattino.
L’orario si impone per garantire il tempo necessario al turnista di eseguire i prelievi, comporli delle modalità di distinta destinazione laboratoristica, eseguire terapie che hanno una copertura oraria comprendente questo frangente, sistemare, insieme all’unico OSS, i pazienti perché siano “decenti” per la colazione, dopo una nottata di caldo (l’aria condizionata nel reparto non funziona da anni ma nessuno se ne cura!) e aimè spesso…sofferenze legate alla patologia. Gli infermieri del turno di notte smontano alle 7 del mattino.
Ho virgolettato “obbligati” perché in più riunioni la maggioranza presente (o non presente, perché in ferie, perché non disponibili, perché in servizio) si è sempre opposta. Ma il Direttore della U.O. ha deciso che si doveva fare così e basta, in barba ai rischi professionali, alla pratica assolutamente disumana per cui si obbliga un paziente ricoverato a prendersi routinariamente un buco alle 5 del mattino, quando probabilmente è finalmente in grado di recuperare la stanchezza costituita da una ospedalizzazione “cruenta”, che inizia in genere con ore e ore passate su una barella del pronto Soccorso!
Fa sorridere pensare ai numerosi richiami delegati dal Rischio Clinico Aziendale, al Direttore e al Coordinatore infermieristico, relativi alcune omissioni di accertamento e ri-accertamento sulla cartella infermieristica, per una scala sul rischio delle cadute (RETOS) e il MUST per il rischio di malnutrizione, quando non si preoccupano del rischio che una operazione come 12 (a volte 20) prelievi, con decine di diverse provette, può rappresentare se effettuato da un operatore stanco (per definizione, perché chi lavora su turni notturni alla fine del turno è per definizione stanco) con carichi di lavoro importanti quali la risoluzione delle urgenze e dei ricoveri.
Fa sorridere che, nonostante circa un anno fa sia stata, in ritardo e “obbligatoriamente”, recepita anche in Italia la Legge europea sull’orario di lavoro a tutela del lavoratore e degli utenti da loro serviti, ci si presenti con queste pretese. Fa sorridere che in molti casi, colleghi, sindacati, coordinatori infermieristici, dirigenti infermieristici e…presidenti di collegio (a loro volta infermieri operanti e per questo sicuramente al corrente delle situazioni), fingano di non sapere nulla o addirittura avallino questa “bad pactice”!
Il colmo però, secondo me, si raggiunge quando le amministrazioni o chi per loro, sciorinano dati statistici relativi i numeri di una singola unità operativa, manipolati a loro piacimento, in barba alle evidenze oggettive e al buon senso (questo….sconosciuto!), per far tornare apposto ciò che apposto non è!
Luca Sinibaldi
Infermiere, U.O Medicina generale 5, Ospedale di Cisanello - Pisa
© RIPRODUZIONE RISERVATA