quotidianosanità.it

stampa | chiudi


Venerdì 29 LUGLIO 2011
Intervista ad Andrea Mandelli (Fofi): "I tagli della manovra preoccupano anche i farmacisti"

In questa intervista esclusiva a Quotidiano Sanità, il presidente degli Ordini dei Farmacisti, Andrea Mandelli, commenta per la prima volta la manovra dopo la sua approvazione definitiva. Soddisfazione per la sventata minaccia sulla liberalizzazione delle professioni. Ma preoccupa "l'impatto che le misure del governo hanno e avranno anche sui farmacisti dipendenti del Servizio sanitario, ospedalieri e dei servizi territoriali". Farmacie pronte a rinnovarsi, "ma rifiutiamo un cambiamento fatto a colpi di interventi estemporanei".

Presidente Mandelli, negli ultimi mesi la Federazione è tornata più volte sul tema della crisi finanziaria. Non è un tema più economico che professionale?
È senz’altro un tema economico, ma proprio per questo investe la professione, in tutte le sue articolazioni. Inevitabilmente, quando si parla di crisi e di riduzione della spesa sanitaria si pensa subito alla farmacia di comunità, ma non si deve trascurare l’impatto che le misure del governo hanno e avranno anche sui farmacisti dipendenti del Servizio sanitario, ospedalieri e dei servizi territoriali, o sui molti che operano nell’industria del farmaco o nella distribuzione intermedia. Non si tratta soltanto di preoccupazione per i livelli occupazionali e di reddito, ma anche di mantenere inalterato il nocciolo della qualificazione e del ruolo del farmacista. E come sempre, mantenere la posizione, in una società caratterizzata da una rapida evoluzione, significa cercare nuovi spazi, offrire risposte alle nuove richieste che vengono dal Servizio sanitario e, prima ancora, dalla società. Questa concezione, che la Federazione ha espresso già nel documento federale del 2006, riguarda tutti gli ambiti in cui opera il farmacista, tanto è vero che in quel documento abbiamo sì delineato il modello della farmacia dei servizi, ma abbiamo indicato anche nella figura del farmacista di dipartimento e nel rinnovamento degli altri ruoli – nell’industria come nella distribuzione – la via per rafforzare la professione e il contributo che può fornire alla sanità italiana.

Cercare nuovi spazi è un impegno che non tutti affrontano a cuor leggero. Non trova?
Ma molti, invece, lo accolgono con entusiasmo. Penso per esempio ai giovani che hanno partecipato alla sperimentazione della figura del farmacista di dipartimento organizzata dal ministero della Salute in collaborazione con Sifo e Fofi. Oppure, cambiando completamente scenario, penso all’impegno e alla dedizione che hanno mostrato i farmacisti volontari per la protezione civile, oggi riuniti in un’associazione, in occasione del terremoto d’Abruzzo. Apparentemente può sembrare un argomento lontano dalla professionalità ma, appunto, solo apparentemente. I nostri volontari hanno partecipato all’opera di soccorso in quanto farmacisti, svolgendo le funzioni che sono proprie della professione: questo sottintende una visione più ampia del nostro ruolo nel processo di cura, anche in caso di emergenza. Certamente, per chi è nato e cresciuto, per esempio, nella vecchia visione della farmacia come luogo esclusivo della dispensazione del farmaco può faticare a comprendere la necessità di erogare altre prestazioni. Come se si trattasse di abbandonare le nostre competenze per metterci a fare altro.

E non è così?
No: questa interpretazione soffre di un duplice errore. Intanto la farmacia non è mai stata soltanto il luogo della dispensazione del farmaco, ma ha sempre rappresentato il primo presidio sanitario per accessibilità e disponibilità, praticamente il luogo del “primo soccorso” per definizione. Lo riscopriamo tutti ogni volta che, per sfortuna, si sperimenta un problema legato alla salute quando ci si trova lontano dalla propria città: c’è il pronto soccorso e c’è la farmacia. Inoltre, oggi, perché il farmaco possa esprimere pienamente la sua efficacia richiede una quota di “servizi” non indifferente. Faccio un esempio: trattare l’ipertensione, dal punto di vista farmacologico, ora è relativamente semplice, ma diventa difficile se, come accade molto spesso, viene meno l’aderenza alla terapia. Controllare questo aspetto è uno dei servizi che in Europa e negli Stati Uniti si vuole affidare alle farmacie di comunità, per la loro vicinanza al cittadino, per la loro accessibilità. Allo stesso modo la farmacia può incidere significativamente sul successo delle campagne di prevenzione, visto che intercettano anche quella parte di popolazione che ha contatti molto saltuari con il medico di medicina generale. Ed evito poi di dilungarmi su quanto oggi siano strategiche l’attività di farmacovigilanza e di quella di orientamento del cittadino.

Questa è la motivazione sanitaria e organizzativa ma, tornando alla prima domanda, sul piano economico questa scelta si giustifica?
Più che giustificarsi è una scelta per molti versi obbligata. A costo di ripetermi: abbiamo sotto gli occhi la continua discesa dei prezzi dei farmaci che rientrano nell’assistenza farmaceutica territoriale, un fenomeno irreversibile, così come l’assenza di nuove molecole, quindi coperte da brevetto e ad alto costo, nel settore dei farmaci di sintesi. Far dipendere la sostenibilità economica da una remunerazione basata esclusivamente sul margine commerciale rischia di diventare un’utopia. Di qui la prospettiva, ormai europea, di remunerare i servizi: quelli resi all’atto della dispensazione e quelli collaterali – gli screening di massa, la diagnostica di prima istanza, le altre prestazioni sociosanitarie indicate dalla normativa italiana ma anche da quelle britannica e francese. Del resto, assumendo il punto di vista della parte pubblica, con il sistema della Convenzione ci si assicura la collaborazione di un presidio, la farmacia, che ha al suo interno professionalità di primo livello e una capillarità imbattibile: sarebbe assurdo che nel momento in cui si deve potenziare l’assistenza sul territorio questo presidio non venisse coinvolto.

Nella manovra economica si è a più riprese cercato di intervenire anche sulle professioni, proponendo una serie di liberalizzazioni con l’obiettivo dichiarato di rilanciare l’economia. Aveva un senso dal suo punto di vista?
Ovviamente no, ma non per una difesa di categoria. Era errato il presupposto. In primo luogo non era chiaro che cosa si volesse andare a colpire. Gli Ordini? La regolazione di alcuni servizi svolti dai professionisti? La prima ipotesi, colpire gli Ordini perché pongono un ostacolo all’accesso alla professione, mi sembra ardua da sostenere, a cominciare dal caso dei farmacisti, visto che il numero degli iscritti aumenta di anno in anno. Questo, però, non è che il primo indicatore: pochi giorni fa un articolo del Sole 24 Ore ricordava che negli ultimi 15 anni gli iscritti agli enti previdenziali sono pressoché raddoppiati, segno che non solo ci si abilita, ma si esercita effettivamente la professione. E, non a caso, i dati del consorzio Almalaurea confermano come i laureati in farmacia siano tra le categorie che più rapidamente trovano il loro primo impiego.
Ma anche se si parla di regolazione dei servizi - nel nostro caso la pianta organica, il numero chiuso eccetera – il discorso si fa più articolato, ma la sostanza non cambia. Spesso si dice che un maggior numero di esercizi farmaceutici darebbe un servizio migliore ai cittadini, ma un riscontro empirico non c’è. Oggi in Italia c’è una farmacia ogni 3400 abitanti circa. E’ vero che in altri paesi il rapporto è più basso ma questo, se può aver indotto un vantaggio marginale per l’utenza, ha messo in forse la stabilità della rete: in Francia, secondo il rapporto Igas richiesto dal ministero della Salute, c’è una farmacia ogni 2800 abitanti, circostanza che ha fatto sì che molte farmacie abbiano un fatturato inadeguato a sostenere l’andamento del mercato e tale da non consentire investimenti in funzione dei nuovi compiti assegnati alle farmacie. Quindi, farmacie che rischiano di chiudere mettendo in crisi la rete del servizio, i livelli occupazionali e l’accessibilità per il cittadino. E’ evidente che anche un sistema basato sul numero chiuso può garantire la capillarità - che resta un requisito fondamentale per un servizio pubblico - anzi può andare anche oltre, come nel caso della Francia. Al contrario, una liberalizzazione spinta all’estremo può condurre a una concorrenza sfrenata che, come nel caso del commercio al dettaglio, porta alla sopravvivenza dei punti vendita più favoriti perché economicamente più forti o posizionati in modo strategico. Ma questo è l’esatto contrario di un servizio al cittadino realmente accessibile. A meno che per servizio non si intenda, come è diventato di moda, soltanto lo sconto di qualche decina di centesimi su un prodotto che costa pochi euro.

Quindi va tutto bene com’è? Guai a toccare un sistema che funziona?
No. Siamo stati i primi a sostenere la necessità di una riforma del servizio, che tenga conto dei cambiamenti che si sono verificati negli ultimi decenni. Ma rifiutiamo un cambiamento fatto a colpi di interventi estemporanei, che non tengano conto delle situazioni concrete e dei dati oggettivi ma si pieghi alla parola d’ordine del momento: in questo caso, liberalizzare. Dimenticando, tra l’altro, che in Italia esiste già un mercato interno e quindi una concorrenza nel settore della distribuzione del farmaco, visto che accanto alle farmacia private convenzionate operano quelle comunali. E’ in discussione al Senato un progetto di riforma del servizio farmaceutico, che è stato preceduto da audizioni di tutte le parti interessate: è quella la sede giusta per impostare un vero ammodernamento. Anche gli Ordini, quelli sanitari e gli altri, sono oggetto di una Riforma e anche in questo caso è lì che si devono portare analisi e proposte.

Le riforme sono senz’altro importanti, ma non crede che serva anche un cambiamento culturale?
Certamente, tanto che la più recente delle ricerche dell’Osservatorio sul futuro della professione Fofi-Sda Bocconi, si intitolava “Dalla professione di farmacista alle professioni del farmacista”, a indicare che oggi tre sono i punti irrinunciabili per un Ordine professionale: indagare in quali ruoli può operare il professionista, valutare quali sono i requisiti formativi necessari per svolgere questi ruoli e coinvolgere nel raggiungimento di questo obiettivo i diversi attori interessati. In primo luogo l’Università, ma anche, per così dire, i datori di lavoro: il Servizio sanitario nazionale, l’industria, la distribuzione. La nostra ricerca, peraltro, è stata presentata in anteprima proprio alla Conferenza dei Presidi, dove ha riscosso una notevole attenzione, oltre all’apprezzamento per l’iniziativa in sé. Non si è trattato di un’iniziativa isolata sul fronte della formazione. In collaborazione con il Ministero della Salute abbiamo organizzato il progetto formativo sul rischio clinico legato al farmaco, affrontando per la prima volta questo tema anche dal punto di vista della dispensazione sul territorio, così come abbiamo operato perché partisse la sperimentazione sul farmacista di dipartimento. Siamo ben consapevoli che nuovi compiti richiedono conoscenze e abilità differenti e ci stiamo impegnando a far sì che i due aspetti viaggino insieme, il che è un’ulteriore risposta a chi vede gli Ordini come una “restrizione” all’accesso alla professione.

Quindi quale sarà l’evoluzione della professione, e quale ruolo avrà l’Ordine?
Come ho detto all’inizio, da questa crisi si esce facendo un passo avanti, non mezzo passo indietro sperando di conservare almeno un po’ di terreno. La professione deve spostare in avanti il confine che delimita la sua attività, accogliendo il nuovo senza rinnegare il passato ma conservando quanto c’è di fondamentale. Quindi saremo sempre farmacisti, cioè specialisti del farmaco, ma lo saremo in molti modi diversi: saremo più specializzati che in passato, lavoreremo nella farmacie di comunità con strumenti diversi, saremo negli Ospedali con responsabilità dirette verso il paziente, opereremo nell’industria magari in ruoli inediti come il rapporto con la comunità scientifica. Ma ci riconosceremo sempre in una sola professione, rappresentata da un Ordine e da una Federazione che hanno il dovere di tutelare il cittadino e il professionista stesso, soprattutto lavorando per un’evoluzione che tenga conto del mutare delle esigenze della tutela della salute.
 

© RIPRODUZIONE RISERVATA