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Martedì 08 NOVEMBRE 2016
Cure primarie e cronicità. Senza appropriatezza prescrittiva e una gestione integrata non si va da nessuna parte
Aderenza alle cure, indicatori di processo per l’identificazione degli esiti, individuazione del sovra-uso, ma anche del sotto-utilizzo dei trattamenti farmacologici sono alcuni degli strumenti per gestire le cronicità in un’ottica di integrazione ospedale territorio governata dal Mmg. Questi i temi al centro di un convegno a Bologna patrocinato dalla Card
La formula vincente per governare le cronicità garantendo anche sostenibilità economica? Appropriatezza prescrittiva e aderenza alle cure sotto l’egida di una reale, e non solo dichiarata, gestione integrata ospedale territorio. Un’integrazione per traghettare l’assistenza sanitaria da approccio “on demand” ad uno proattivo grazie alla promozione e all’implementazione di modelli di gestione della cronicità basati sul Chronic care model.
Una rinnovata riorganizzazione dell’assistenza sanitaria misurabile con indicatori di processo che consentano di identificare gli esiti intermedi per valutare qualità e responsabilità degli attori; ma anche con indicatori che individuino se consumi e spesa siano o meno in linea con le indicazioni terapeutiche, fotografando quindi non solo il sovra-uso, ma anche il sotto-utilizzo dei trattamenti farmacologici. E rendendo disponibile anche alla Medicina generale e alla Pediatria di libera scelta l’utilizzo di nuove molecole.
Le cure primarie e la gestione delle cronicità sono state al centro di una due giorni di lavori organizzata a Bologna con il patrocinio della Card, la Confederazione Associazioni regionali di Distretto e il contributo non condizionante di Msd Italia. Obiettivi: confrontarsi sullo stato dell’arte delle cronicità e promuovere l’implementazione di appropriati modelli di gestione delle malattie croniche, patologie cardiovascolari e diabete in primis, con un approccio olistico e multidisciplinare evidenziando quindi i potenziali vantaggi clinici ed economici che possono derivare da una appropriata governance del paziente cronico.
Stella polare per consentire il giro di boa, il Piano nazionale cronicità approvato a settembre dalla Conferenza Stato Regioni. Un Piano nazionale innovativo incentrato sulla persona e costruito con le Regioni, ha spiegato Paola Pisanti del Ministero della salute. Un Piano che affronta tutte le aree possibili in armonia con gli altri Piani, da quello sul diabete all’oncologico, e che ha come capisaldi l’integrazione dell’assistenza primaria, una continuità assistenziale modulata sulla base dello stadio evolutivo della malattia, il potenziamento delle cure domiciliari e un’attenzione ai bisogni globali dei pazienti. E poi Piani di cura personalizzati e un sistema di cura integrato badato sul Chronic care model.
“Nel Piano nazionale c’è una grande attenzione alla personalizzazione delle cure – ha spiegato Pisanti – per questo non bisogna scrivere un Pdta per ogni patologia perché è importante che ogni percorso si trasformi in un piano di cura personalizzato e contestualizzato nell’ambito della vita della persona. E le strategie sono diversificate, il paziente non è mai proprietà di una categoria, ma viene perso in carico, a seconda delle esigenze, dai vari professionisti che agiscono in maniera integrata. Abbiamo quindi bisogno di indicatori di processo che ci facciano vedere gli esiti intermedi per valutare la qualità degli interventi degli attori e, di volta in volta, le responsabilità di chi entra nel processo. Soprattutto dobbiamo passare da un modello per Silos verticali a un modello di gestione integrata. Per questo abbiamo proposto sperimentazioni su budget di percorso basati non sui singoli costi per patologia, ma su un costo tempo in linea con i Creg lombardi”. Ma tutto, ha ricordato Pisanti “si muove sulla nuova riorganizzazione della medicina generale”.
Insomma bisogna “cavalcare la tigre” anche perché se attualmente la prevalenza delle cronicità è particolarmente elevata, e pari a circa il 38% della popolazione, nei prossimi anni lo sarà ancora di più con conseguenze durissime per la sostenibilità del nostro sistema sanitario.
E i medici di medicina generale sono un punto nodale, ha ricordato Gilberto Gentili, Direttore Generale, Azienda Sanitaria di Alessandria sottolineando che, quando si parla di gestione delle cronicità, e quindi di integrazione ospedale territorio, non ci si può fermare alle dichiarazioni d’intenti. “C’è una pratica verbale di amore per il territorio che poi nei fatti trova pochi riscontri – ha evidenziato – questo perché la valenza e la capacità di impatto dell’ospedale non è paragonabile a quella del territorio che rimane ancora, in molti casi, poco considerato. Dobbiamo quindi superare questo stallo e fare riflessioni accurate. Indentificare un modello di organizzazione territoriale è sicuramente complesso in quanto sono differenti le esigenze di ogni realtà territoriale, la soluzione allora è guardare alla best practice migliore in termini di esiti e misurare i costi della medicina territoriale come hanno fatto in Lombardia con i Creg. Dobbiamo anche fare una riflessione sulle forme aggregative più consone a gestire le cronicità considerando sempre che, in questa gestione, il punto nodale sono i Mmg: tutto passa attraverso questa figura, l’unica che il paziente si sceglie”
Se il piano nazionale cronicità è la stella polare, il Distretto è il faro della gestione integrata nelle varie realtà territoriali. “Il Distretto è l’interfaccia tra cittadino e ospedale – ha sottolineato Gennaro Volpe, Presidente eletto di Card – consente di realizzare un percorso e una gestione integrata tra territorio e ospedale per favorire un mantenimento dei soggetti al domicilio. Un luogo di governo protagonista dell’assistenza che vede al centro il cittadino. Per questo la Card ha puntato con forza sui team multi professionali affinché tutte le figure partecipino all’organizzazione territoriale con l’obiettivo di arrivare a percorsi assistenziali personalizzati. Il nostro strumento principe è la Porta unica di accesso, vero e proprio strumento di facilitazione rivolto alle persone con disagio. In questi percorsi la figura del medico di medicina generale ha una funzione importante, per questo abbiamo portato questi professionisti all’interno del Distretto e nelle Case della salute consentendogli di essere proattivi”.
Ma il cammino per l’integrazione presenta ancora ostacoli da superare. “La condivisione tra Mmg e specialisti, al di là delle leggi, ritengo debba ancora avvenire – ha spiegato Walter Marrocco, responsabile scientifico della Fimmg – soprattutto credo vadano rivisitati alcuni percorsi che non si adattano più alle nuove frontiere della medicina, ossia la personalizzazione dell’intervento terapeutico alla quale i medici di famiglia sono chiamati. Quindi non ci bastano più le linee guida, ne abbiamo troppe e curano singole patologie. Così come mostrano punti deboli i Pdta: sono legati alla medicina della statistica e non a quella personalizzazione dell’intervento verso la quale puntiamo e che passa attraverso un modello medico che guarda al genotipo e al fenotipo dell’individuo. È anche importante attuare una strategia dell’alto rischio agendo in anticipo non solo quando la malattia si è manifestata”.
Tra gli strumenti a cui il Mmg tende c’è poi la disponibilità del farmaco: “Strumento potente per gestire le cronicità – ha aggiunto Marrocco – che in Italia trova degli sbarramenti. Viviamo infatti una situazione paradossale: tanti farmaci, in primis quelli sul diabete, sono preclusi alla medicina generale. Sono gestibili e prescrivibili solo attraverso piani terapeutici che siamo disponibili a rispettare e seguire, ma che ancora non sono entrati nella progettualità che Aifa promette da tempo”.
I costi delle cronicità.Ma che peso hanno sulle casse statali le patologie cardiovascolari e quelle diabetiche? E quanto si risparmierebbe con azioni di prevenzione, programmazione e precorsi gestionali corretti?
Complessivamente in Italia, i costi diretti sanitari per le malattie cardiovascolari sono stati stimati in circa 16 mld di euro a cui si aggiungono oltre 5 mld sostenuti in termini di costi indiretti. Le malattie del sistema cardio-circolatorio rappresentano inoltre una voce importante di assegni di invalidità erogati dall’Inps, annualmente si stimano oltre 750mln di costi indiretti sostenuti dall’Inps per queste patologie. Sul fronte del diabete invece i costi totali ammontano a 20,3 mld di euro con 9 mld di pensionamenti anticipati. E la prevalenza è in costante crescita dal 3,9% nel 2001 a 5,5% nel 2014. Il costo medio per la gestione di un paziente diabetico è mediamente di 3mila euro annui, ma cresce esponenzialmente in presenza di complicanze: fino a nove volte di più in presenza di 3 complicanze. Ma non solo, mediamente un paziente diabetico con una patologia cardiaca ha un costo medio annuo di 2.318 euro, e i costi possono arrivare fino a 7.500 euro in base al numero di co-morbilità. Considerando che attualmente i soggetti diabetici in Italia sono a circa 3,6 milioni e si prevede che nel 2050 arriveranno a 5,9 milioni, le cifre fanno sicuramente tremare i polsi.
“Bisogna quindi iniziare a ragionare su possibili soluzioni per contenere il fenomeno” ha osservato Francesco Saverio Mennini, Professore di Economia sanitaria, Direttore EEHTA, Ceis Università degli Studi “Tor Vergata” Roma. Quali? Terapie appropriate, aderenza alla terapia e una corretta gestione integrata dei pazienti. “Nonostante i progressi fatti negli ultimi anni – ha affermato – ancora molto può essere realizzato per migliorare la gestione del paziente colpito da patologie cardiovascolari e prevenire più efficacemente. Soprattutto, come è emerso da studi scientifici, c’è un problema di appropriatezza e di aderenza alle terapie. Ad esempio, un’analisi dei database dei flussi amministrativi condotta da Lucioni con l’obiettivo di analizzare i percorsi diagnostico terapeutici e i costi assistenziali dei pazienti con patologie cardiovascolari ha evidenziato che la maggior parte dei pazienti è trattata in maniera sub-ottimale con trattamenti ipolipemizzanti: meno 50% dei pazienti che ne avrebbero bisogno è in trattamento. Pensiamo che un paziente post sindrome coronarica acuta costa mediamente al Ssn 14.871 euro l’anno, di cui ben l’86,3% è assorbito dai ricoveri ospedalieri che rappresentano il principale cost-driver”.
Insomma, tirando le somme per quanto riguarda le malattie cardiovascolari se i livelli di aderenza alle terapie salissero al 70% (oggi sono 41,8%) si determinerebbe, per l’Italia, un risparmio pari a circa 100 milioni di euro. Ma non solo, i dati di studi scientifici hanno stimato che una corretta gestione integrata dei pazienti ed una attenta prevenzione (ad esempio, il controllo della pressione arteriosa e della colesterolemia) potrebbero garantire una riduzione di oltre 380 milioni annui in termini di soli costi diretti sanitari.
Ma bisogna agire anche sulle condizioni di accesso e di rimborsabilità dei farmaci. Esemplificative sono quelle di alcune classi di antidiabetici orali (DPP4). “Rispetto a Francia, Germania, Inghilterra e Spagna – ha aggiunto Mennini – nel nostro Paese abbiamo condizioni più restrittive: i farmaci sono rimborsati solo in associazione e per pazienti con determinati valori clinici inoltre non è prevista la prima prescrizione da parte del Mmg che non partecipa neanche al piano terapeutico. Un’anomalia rispetto agli altri Paesi. Dobbiamo invece capire che il principale driver di costo diretto sanitario sono le ospedalizzazioni per complicanze e non i costi per farmaci che rappresentano solo il 6,2% del totale. Peraltro, come riportato nell’ultimo Rapporto Osmed, si registra un elevato sottoutilizzo dei DDp4-i anche nell’ambito dei range di glicata in cui questi farmaci sono rimborsati”.
Non ha avuto dubbi Luca Degli Esposti, Economista sanitario: per garantire sostenibilità economia e continuità delle cure bisogna ragionare in termini di appropriatezza prescrittiva. Come? Applicando indicatori in base ai quali si decide “se consumi e spesa siano o meno in linea con una corretta indicazione terapeutica. E questo significa fotografare non solo il sovra-uso ma anche il sotto-utilizzo dei trattamenti farmacologici”.
Gli indicatori fin ora utilizzati per analizzare le prescrizioni e i costi delle terapie, ha spiegato Degli Esposti, hanno dato un’immediata dimensione e un immediato ritorno di quanto singole Regioni, in un quadro epidemiologico e demografico sovrapponibile, consumano di più rispetto al resto d’Italia, ma queste analisi non hanno consentito di capire se i farmaci fossero utilizzati bene o male. “Con queste metodologie – ha spiegato – una Regione potrebbe benissimo rientrare nella spesa media ma paradossalmente potrebbe anche utilizzare il farmaco su pazienti fuori indicazione.
Cosa significa questo? Che un consumo nella media non fa di una Regione un prescrittore qualitativamente buono. Ragionare in un’ottica di consumi non fa capire se stiamo spendendo bene. Vedere volumi in aumento o in calo, in sostanza, non è di per sé sintomatico di peggioramento o miglioramento”.
Per Degli Esposti non si deve quindi decontestualizzare il principio di appropriatezza dal modo in cui i farmaci vengono impiegati. “Su alcuni farmaci i volumi potrebbero essere in salita – prosegue – ma potrebbero essere comunque in difetto rispetto a quanto bisognerebbe realmente utilizzarli: in sostanza su alcuni farmaci magari si spende tanto, ma sempre meno di quanto occorrerebbe spendere. Un avvicinamento alla media non è quindi necessariamente sinonimo di appropriatezza prescrittiva”.
Allora quali soluzioni adottare? Considerare le evidenze che derivano dagli indicatori Osmed sull’aderenza a supporto del processo di policy e decision making a tutti i livelli; e applicare gli indicatori di aderenza dell’Aifa per vedere se un determinato farmaco viene utilizzato su pazienti con una specifica indicazione. “Questo significa fotografare sia il sovra-uso sia il sotto-utilizzo del farmaco – ha concluso Degli Esposti – anche perché la non aderenza crea da una parte una spesa inutile che potrebbe essere invece reinvestita laddove c’è necessità e dall’altra genera un aumento del numero di accessi ospedalieri. Quello che va fatto è mettere in piedi un sistema che misuri se l’uso di un farmaco è o meno nella raccomandazione. E la collaborazione tra amministrazione e medici è fondamentale perché sono questi ultimi ad avere il dominio clinico”.
Ester Maragò
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