quotidianosanità.it
stampa | chiudi
Giovedì 03 NOVEMBRE 2016
S.Andrea. Le “pari opportunità” dimenticate
Gentile direttore,
sono trascorsi circa 17 anni dal dlgs 229/99 che, completando il processo di aziendalizzazione della sanità, all’art. 3 comma 1 bis sanciva: “In funzione del perseguimento dei loro fini istituzionali, le unità sanitarie locali si costituiscono in aziende con personalità giuridica pubblica e autonomia imprenditoriale; la loro organizzazione e funzionamento sono disciplinati con atto aziendale di diritto privato, nel rispetto dei principi e criteri stabiliti con la legge regionale di cui all'articolo 2, comma 2-sexies. L'atto aziendale individua le strutture operative dotate di autonomia gestionale o tecnico-professionale, soggette a rendicontazione analitica dalla istituzione degli atti aziendali”.
Nell’attesa che si chiarisca se anche l’azienda Ospedaliero Universitaria Sant’Andrea potrà vedere finalmente il proprio documento di autonomia aziendale approvato; alla luce del dibattito in questi giorni ospitato dal suo autorevole quotidiano e stimolato dalla lettera del dott. Giovanni Bissoni Sub Commissario per l’attuazione del Piano di rientro della Regione Lazio pubblicata il 27/10 scorso, vorrei proporre una serie di considerazioni, nel merito. L’affermazione iniziale del dott. Bissoni, circa l’obiettivo possibile di ricondurre i rapporti tra Università e SSR nell’ambito del DL 517/99, avrebbe meritato qualche parola in più circa lo spirito e la lettera di questo fondamentale DL.
La 517 infatti, esplicitamente fa riferimento alla necessità di: “promuovere e disciplinare l'integrazione dell'attività assistenziale, formativa e di ricerca tra Servizio sanitario nazionale e Università’”, (art.1 comma 2, lettera a).
Il legislatore quindi, specifica in primis che la norma intende disciplinare un processo di Integrazione tra due sistemi componenti dichiaratamente diversi nella propria specificità di funzione, normativa ed ordinamento (ospedale ed università). “C’est a dir” tra componente ospedaliera ed universitaria. Perché il legislatore immagina di dover costruire una tale realtà integrata?
Esiste qualche motivo esoterico che imponga a medici ospedalieri e medici universitari di condividere, loro malgrado (dice il sub commissario “separati in casa”) il medesimo spazio fisico e funzionale? Perché non è possibile che medici universitari, con tanto di laurea e specializzazioni, quindi idonei all’esercizio della professione medica ai più elevati livelli, non possano gestire in proprio le cliniche universitarie, diremo oggi le Unità operative a direzione universitaria? Invero tutti sanno che esistono molte realtà ospedaliere in Italia, anche di grandi dimensioni e con riconosciute elevatissime professionalità, non tutorati da figure universitarie. E’ legittimo ipotizzare che sia vero il contrario?
L’università ha bisogno dell’ospedale? Io riterrei di no! Peraltro l’art. 1 della 517/99 dichiara la volontà che è alla base della creazione delle aziende Ospedaliero-Universitarie dove sancisce che: “L'attività assistenziale necessaria per lo svolgimento dei compiti istituzionali delle università è determinata nel quadro della programmazione nazionale e regionale in modo da assicurarne la funzionalità e la coerenza con le esigenze della didattica e della ricerca, secondo specifici protocolli d'intesa stipulati dalla Regione con le università ubicate nel proprio territorio.”
Quindi Ospedale ed Università si “integrano” al fine di rendere funzionale e coerente l’esigenza della didattica e ricerca con l’attività assistenziale. Si integrano, appunto, e nella nostra bella e precisa lingua, come definito nel dizionario Treccani integrare significa: 1. Completare, rendere intero o perfetto, supplendo a ciò che manca o aggiungendo quanto è utile e necessario per una maggiore validità, efficienza, funzionalità 2. Far entrare, incorporare un elemento nuovo (cosa o persona) in un insieme, in un tutto, così che ne costituisca parte integrante e si fonda con esso.
In tutto l’impianto della 517/99, e invero, anche nelle norme correlate ad es. 502/92, o anche nelle linee guida alla stesura degli atti aziendali, o ancora, nell’ultimissima versione del protocollo d’intesa tra Università e Regione Lazio a norma dell’Art. 1 comma 3 della succitata legge, il temine integrare nelle sue declinazioni varie è largamente utilizzato e mai il legislatore utilizza termini come: “sottoposto” o “subordinato” o “dipendente” o analoghi, in special modo quando si riferisce ai rapporti tra parte ospedaliera e parte universitaria.
E’ facilmente ipotizzabile che se si fosse affermato “tout court” in qualche passaggio della legge che il personale medico universitario veniva sottoposto gerarchicamente alla dirigenza Ospedaliera la cosa non avrebbe, per motivi troppo ovvi da essere ulteriormente stressati, passato il vaglio Costituzionale, ed altrettanto è ragionevolmente ipotizzabile per l’eventualità contraria.
Sfugge, quindi, il passaggio logico, (e invero anche quello giuridico) per il quale si intenda con atto di autonomia aziendale, istituire al Sant’Andrea dei rapporti gerarchici che vedrebbero la sostanziale totalità del personale dirigente medico con contratto ospedaliero sottoposto gerarchicamente a personale medico dipendente dall’Università. (28 UOC a dirigenza Universitaria su 30 UOC).
Non ci viene nemmeno in aiuto la non troppo velata considerazione del dott. Bissoni secondo il quale: “È L’Atto aziendale, che comprende la definizione delle Unità Operative Complesse (UOC) essenziali alle funzioni di ricerca e didattica e, come tali a direzione universitaria e, per differenza, quali UOC siano da porre a concorso”.
Che tradotto in termini più diretti sarebbe: l’università stabilisce quali UOC sono essenziali per la didattica e ricerca e di conseguenza quelle sono per logica a direzione Universitaria! (a proposito di “vincere facile”).
In realtà, il disposto della norma, in nessuna parte afferma, e d’altronde non potrebbe, che nei criteri di integrazione prevalga l’uno (didattica e ricerca) o l’altro (assistenza), ed essendo entrambi fini logici ed alti dell’integrazione funzionale sembra almeno semplicistico ignorare il principio di “equilibrio”.
Inoltre la struttura (Dipartimentale) delineata dal legislatore (Art. 3 della 517/99), pone nei DAI (dipartimenti ad attività Integrata) il “centro di responsabilità e di costo unitario in modo da garantire unitarietà della gestione, l'ottimale collegamento tra assistenza, didattica e ricerca, la necessaria flessibilità operativa e individua i servizi che, per motivi di economicità ed efficienza, sono comuni al dipartimento, per quanto riguarda i locali, il personale, le apparecchiature, le strutture di degenza e ambulatoriali.
Il direttore del dipartimento ad attività integrata assicura l'utilizzazione delle strutture assistenziali e lo svolgimento delle relative attività da parte del personale universitario ed ospedaliero per scopi di didattica e di ricerca; assume responsabilità di tipo gestionale nei confronti del direttore generale in ordine alla razionale e corretta programmazione e gestione delle risorse assegnate per la realizzazione degli obiettivi attribuiti, tenendo anche conto della necessità di soddisfare le peculiari esigenze connesse alle attività didattiche e scientifiche”, (Art. 3 comma 5).
Mentre secondo quanto stabilito al comma successivo 6): “Le strutture complesse che compongono i singoli dipartimenti ad attività integrata sono istituite, modificate o soppresse dal direttore generale, con l'atto aziendale di cui al comma 2, in attuazione delle previsioni del Piano sanitario regionale e dei piani attuativi locali, nei limiti dei volumi e delle tipologie della produzione annua assistenziale prevista, nonché delle disponibilità di bilancio, ferma restando la necessaria intesa con il rettore per le strutture qualificate come essenziali ai fini dell'attività di didattica e di ricerca ai sensi dell'articolo 1, comma 2, lettera d).
In linea con quanto sancito dalle normative attuali, mi sento di affermare da ex studente, che non è indispensabile ai fini di una ottima preparazione, che il dipartimento in cui si presta in parte o totalmente il proprio servizio da studente o specializzando debba necessariamente essere diretto da personale universitario. Infine, non posso esimermi dal rammentare la chiara direzione assunta dall’insieme dei provvedimenti che nell’ultimo decennio hanno caratterizzato le riforme della PA.
Il punto sempre più centrale delle normative contro la discriminazione e le pari opportunità come fulcro del miglioramento continuo della Pubblica Amministrazione. Non sono più tollerate (almeno dalle norme) posizioni di preminenza fondate su preconcetti.
Senza entrare nel merito più specificatamente, credo valga la pena di ricordare un breve passaggio della Direttiva sulle Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri: “Si rammenta che l'art. 48 del decreto legislativo n. 198 del 2006 ("Azioni positive nelle pubbliche amministrazioni") prevede che le pubbliche amministrazioni predispongano piani triennali di azioni positive tendenti ad assicurare la rimozione degli ostacoli che, di fatto, impediscono la piena realizzazione di pari opportunità di lavoro e nel lavoro.”
Gentile Direttore, le leggi che ci governano e garantiscono il nostro vivere civile ed il progresso del nostro sistema sociale devono sì, essere interpretate, ma la loro applicazione dovrebbe perseguire il bene comune. È da auspicare che il potere politico sappia abbandonare il percorso della retorica, evitando a tutti noi, i danni di una aspra conflittualità in sede legale altrimenti ineludibile.
Dott. Cristiano M. De Marco
Dir. Medico Ospedaliero Segr. Az. Sindacato CIMO
Vicepresidente C.U.G. AOU Sant’Andrea
© RIPRODUZIONE RISERVATA