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Giovedì 22 SETTEMBRE 2016
Farmacogenetica: quando i geni guidano la mano del prescrittore
Secondo gli esperti è questione di una manciata di anni prima che medici e pazienti comincino su larga scala a prescrivere farmaci e posologie sulla base del loro profilo genetico. JAMA traccia lo stato dell’arte con un articolo appena pubblicato online. Per molti farmaci questo strumento della medicina di precisione è già pronto per il prime time. Per altri bisognerà attendere e raccogliere maggiori evidenze
E’ il sogno di ogni medico: poter prevedere la risposta di un paziente ad un farmaco, prima ancora di somministrarlo. In termini di efficacia ma anche di effetti collaterali. Un sogno che in alcuni ambiti è già uscito dalla dimensione della ‘sfera di cristallo’ ed è diventato pratica clinica grazie alla farmacogenomica.
Il numero delle ‘coppie’ farmaco-gene è in rapida crescita, ma la maggior parte di queste conoscenze sono ancora chiuse nei laboratori di ricerca di base e non si sono ancora affiacciate alla clinica.
Da un’indagine condotta nel 2012 dall’American Medical Association, risulta che solo il 13% dei 10.000 medici partecipanti aveva chiesto un test di farmacogenomica nei precedenti 6 mesi. Tuttavia ben il 98% di loro riteneva che la risposta ad un farmaco può essere influenzata da una variazione genetica.
Un gap culturale da colmare ma gli esperti ritengono che in futuro, la penna del prescrittore sarà guidata sempre più dalla genotipizzazione del paziente, cioè dalla farmacogenetica.
E a velocizzare questo processo potrebbero contribuire i pazienti stessi. “Riteniamo che nel prossimo futuro – afferma Peter H. O’Donnell, direttore associato dell’implementazione clinica presso il Center for Personalized Therapeutics dell’Università di Chicago – sarà il paziente stesso a chiedere a suo medico se ha preso in considerazione la sua genomica prima di prescrivergli un farmaco.” E intanto sono in corso enormi investimenti per dimostrare con studi ad hoc l’utilità clinica di questi test e renderli accessibili ai clinici.
Ogni individuo è diverso dall’altro, anche a livello dei singoli geni e a volte questa variabilità interessa geni critici per la risposta ai farmaci. Molti dei cosiddetti ‘farmacogeni’ codificano enzimi deputati alla metabolizzazione dei farmaci che possono declinarsi, a seconda dell’attività, in diversi fenotipi, contrassegnati in genere da 1 a 5 e che descrivono altrettante categorie di pazienti: metabolizzatori ultra-rapidi, rapidi, normali, intermedi, scarsi.
Esistono poi dei geni che codificano enzimi presenti nel sito d’azione dei farmaci; i portatori di queste varianti geniche possono essere più sensibili o più resistenti del normale ad alcune terapie. Conoscere questa informazione può consentire al medico di orientarsi su altre terapie o di adeguare la posologia farmacologica per quel dato paziente.
Un metabolizzatore lento per il warfarin ad esempio, potrebbe presentare un episodio emorragico ad un dosaggio standard del farmaco; per contro, un metabolizzatore rapido potrebbe non risultare sufficientemente scoagulato al dosaggio standard del warfarin, risultando così esposto al rischio di patologie trombo-emboliche.
“Il warfarin – ricorda Edith A. Nutescu, direttore del Center for Pharmacoepidemiology and Pharmacoeconomic Research presso la University of Illinois, Chicago College of Pharmacy – è da sempre nella top ten dei farmaci che portano più di frequente al ricovero per effetti indesiderati. E’ ovvio che tutti i farmaci che danno più frequentemente effetti indesiderati, complicanze, ricoveri e dunque consumo di risorse dovrebbero essere sui nostri radar”. E l’analisi delle varianti di 2 geni che influenzano metabolismo e sensibilità al warfarin, potrebbe aiutare nell’ottimizzare la posologia e prevenire effetti collaterali. Con l’obiettivo di evitare il processo di trial and error quando si inizia una nuova terapia, aumentando l’efficacia e la safety del paziente.
Un aspetto delicato quello della safety, come dimostra il numero di eventi indesiderati segnalati ogni anno negli USA. Superano il milione e molti potrebbero essere evitati dalla testatura farmacogenomica.
Secondo Mark A. Frye, direttore della psichiatria alla Mayo Clinic, la farmacogenemica aiuterà ad ‘iniettare’ più scienza nell’arte del prescrivere e a rivoluzionare il trattamento della depressione maggiore, dei disturbi d’ansia multipli e di alcune condizione di dolore cronico.
Un terzo dei soggetti affetti da depressione maggiore non risponde adeguatamente agli antidepressivi e molti presentano degli effetti indesiderati. Alla base di questi problemi c’è la variabilità genetica. La ricerca clinica dovrà aiutare a comprendere quale valore aggiunto può avere la testatura genetica nella scelta del miglior trattamento antidepressivo. “Il valore aggiunto – aggiunge Frye – può avere molti significati: guarire prima, remissione completa dei sintomi, minori effetti collaterali, migliore qualità di vita, minori costi ospedalieri, ecc”.
Almeno il 7% dei farmaci FDA approved e almeno il 18% dei farmaci prescritti in ambulatorio negli USA potrebbero essere fortemente influenzati nell’efficacia e nella safety dalle varianti dei farmacogeni. Oltre a warfarin e antidepressivi, fanno parte di questo gruppo anche alcuni farmaci antivirali, oncologici, immunosoppressori, statine, anti-dolorifici.
“Non è lontano il momento – ritiene O’Donnell – in cui ci guarderemo indietro ed etichetteremo come pratica ‘arcaica’ quella di trattare tutti i pazienti con la stessa malattia, con lo stesso farmaco”.
L’implementazione della farmacogenomica nella pratica clinica ha tuttavia ancora molta strada da fare. Anche se l’FDA ha aggiunto informazioni di farmacogenomica nella scheda clinica di oltre 150 farmaci , non sempre è disponibile un test che aiuti il medico a tradurre queste informazioni in una guida alla prescrizione. Un aiuto in questo senso lo fornisce il consorzio non profit Clinical Pharmacogenetics Implementation (CPIC) che ha redatto delle linee guida su coppie farmaco-gene con evidenze, derivanti da trial randomizzati, sufficienti per influenzare la prescrizione.
Il CPIC, progetto congiunto del Pharmacogenomics Research Network dell’NIH e del Pharmacogenetics Knowledge Base (PharmGKB), nelle sue linee guida di pratica clinica si focalizza su 13 geni che influenzano la risposta ad oltre 30 farmaci.
Ma Muin J. Khoury, direttore dell’ Office of Public Health Genomics (OPHG) presso i Centers for Disease Control and Prevention, getta però acqua sul fuoco ritenendo che sia necessario acquisire un maggior numero di dati per la maggior parte delle coppie gene-farmaco per giustificare l’uso routinario di questi test nella pratica clinica.
Qualcosa però esiste già e dall’OPHG fanno sapere che alcuni dei test ‘maturi’ per la pratica clinica riguardano varianti geniche implicate nel funzionamento dell’abacavir (farmaco anti-HIV), la carbamazepina e l’ivacaftor (farmaco per la fibrosi cistica). Non appartengono a questa ristretta lista le varianti geniche implicate nel funzionamento del warfarin ad esempio, secondo alcuni perché gli standard di evidenza adottati dall’OPHG sono troppo stringenti.
Ma intanto l’NIH sta finanziando il network IGNITE (Implementing Genomics in Practice) che su 6 progetti in corso ne ha dedicati 3 all’implementazione della farmacogenomica.
Naturalmente l’avere a disposizione questi test non basta. Un’importante barriera alla loro adozione sta nel fatto che i medici non sono preparati ad interpretarne i risultati e a traslarli nella pratica clinica. Ma ancora una volta è IGNITE a venire incontro, offrendo sul suo sito un pacchetto di risorse per i medici. Anche il CPIC sta aggiornando le linee guida esistenti nell’ottica di facilitare l’implementazione dei test di farmacogenomica.
Un’ultima barriera non da poco è l’attuale mancanza di un rimborso per questi test. E’ ovvio che la rimozione di questo ostacolo potrà dare un grande impulso all’adozione della farmacogenomica nella pratica clinica.
Maria Rita Montebelli
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