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12 GIUGNO 2016
Dall’EHA di Copenaghen il sogno di un’oncologia chemio-free

Presentati i risultati promettenti di diversi studi sul venetoclax, una molecola che promette di rivoluzionare il trattamento della leucemia linfatica cronica e di altri tumori del sangue. Si tratta di un inibitore della proteina BCL-2 già approvato dalla Fda per il trattamento di pazienti con leucemia linfatica cronica con delezione 17p (un'anomalia dei cromosomi), purché siano già stati trattati con un almeno una terapia in precedenza.

Il grande sogno dell'oncologia è un futuro chemio-free, libero dalle cure chemioterapiche. Per raggiungerlo, da un paio d'anni si stanno sperimentando terapie orali, meno tossiche e con alti livelli di efficacia. Recentemente, per quanto riguarda i tumori del sangue, i riflettori si sono accesi sull'ibrutinib (Janssen), il primo anticancro orale ad essere stato approvato dall'Ema (l'Agenzia europea del farmaco) a fine 2015 per combattere la leucemia linfatica cronica (LLC) e il linfoma mantellare. È un inibitore selettivo dell’enzima BTK (tiron chinasi di Bruton), un farmaco biologico che agisce sui meccanismi di crescita delle cellule tumorali che ha ottenuto anche l'approvazione dell'Aifa (l'Agenzia italiana del farmaco) a dicembre.
 
Una molecola che sta invece aspettando il via libera da Ema e Aifa è venetoclax (Abbvie), un inibitore della proteina BCL-2 già approvato dall'Agenzia americana (la Fda) per il trattamento di pazienti con leucemia linfatica cronica con delezione 17p (un'anomalia dei cromosomi), purché siano già stati trattati con un almeno una terapia in precedenza.
 
Copenaghen guarda alla combinazione ibrutinib-venetoclax
Al congresso dell'Associazione europea di ematologia (EHA) in corso a Copenaghen sono stati presentati diversi studi a supporto delle due terapie e, nonostante la seconda debba ancora diventare disponibile nel nostro Paese, gli esperti guardano già alla prossima frontiera: un trattamento che combini i due farmaci.
 
“Siamo tutti già proiettati in avanti – conferma Paolo Ghia, responsabile del Programma di Ricerca Strategica sulla Leucemia Linfatica Cronica dell’Istituto Scientifico San Raffaele e Professore Associato di Medicina Interna all'università Vita e Salute San Raffaele di Milano – Molecole come l'ibrutinib sono estremamente efficaci nel diminuire le dimensioni dei linfonodi, ma possiedono una limitata azione pro-apoptotica, mentre venetoclax è in grado di indurre molto rapidamente la morte delle cellule leucemiche. Venetoclax utilizzato da solo è in grado di indurre una risposta completa in una frazione di pazienti, ma è ipotizzabile che l’utilizzo combinato delle due molecole potrebbe incrementare questo numero”. Propria all'EHA sono stati presentati i risultati preliminari di uno studio di fase II sulla combinazione delle due molecole. Il lavoro non ha registrato problemi di sicurezza e, secondo gli autori, ha evidenziato un'efficacia promettente.

“Molti ricercatori ritengono che la malattia origini dai linfonodi - spiega Ghia - dove le cellule leucemiche ricevono stimoli dall’ambiente tissutale che le mantengono vive e le fanno espandere. La presenza di grosse masse linfonodali, prima dell’avvento dei nuovi inibitori era spesso la ragione della progressiva resistenza ai trattamenti chemioterapici – ricorda l’esperto - e dell’esito infausto della malattia. Infatti, è verosimile che la ricaduta della malattia sia almeno in parte dovuta alla persistenza di un numero seppur limitato di cellule all'interno del linfonodo. Il venetoclax e l'ibrutinib, andando ad interferire con due diversi meccanismi responsabili della sopravvivenza ed espansione cellulare all’interno dei linfonodi, sono in grado di ridurre velocemente i linfonodi colpiti e di ottenere risposte prolungate nel tempo”.
 
Leucemia linfatica cronica
È un disordine dei linfociti B ed è la leucemia più frequente negli adulti del mondo occidentale. Colpisce soprattutto over 65 e l'andamento clinico può essere molto eterogeneo. In Italia, in linea con il mondo occidentale, si vedono circa 5-6 nuove diagnosi all'anno ogni 100 mila. È una malattia con una sopravvivenza mediana di 10 anni, e una prevalenza di 50-60 ogni 100 mila.
 
Malattia minima residua
“È una nuova frontiera nella leucemia linfatica cronica. Un valore negativo significa che non siamo più in grado di trovare cellule tumorali, compatibilmente con la sensibilità della tecnica che utilizziamo. La citofluorimetria a flusso, l'attuale gold standard, è in grado di individuarne al massimo una su 10 mila, limite al di sotto del quale il paziente è dichiarato negativo per malattia minima residua”. Fino a poco tempo fa la MRD non era un parametro così importante nella LCC perché i farmaci chemioterapici non permettevano di eliminare completamente le cellule tumorali mantenendo un livello di tossicità accettabile e, anche senza una distruzione completa, il paziente sopravviveva.
 
“Tutto è cambiato con il trattamento immunochemioterapico FCR (fludarabina, ciclofosfamide e rituximab), diventato il gold standard di prima linea di pazienti con LLC, giovani e senza comorbidità. Con questo trattamento è stato possibile ottenere una risposta completa con negatività della malattia minima residua, che si associava ad un miglioramento della sopravvivenza”. Gli ematologi tuttavia ritenevano che per raggiungere questo scopo occorresse trattare il paziente in modo più aggressivo. Nel caso della LCC, questo significava usare un chemioterapico (FCR per i più giovani, clorambucile e obinutuzumab negli anziani). Venetoclax promette una nuova svolta: i pazienti ricaduti refrattari sembrano ottenere facilmente la MRD. “Questi risultati hanno creato grandi aspettative sulla possibile efficacia che si potrà ottenere quando verrà utilizzato in prima linea”, sorride Ghia.
 

Al momento né l'Ema né la Fda hanno preso posizione nei confronti dell'MRD, “anche se è dal 2013 che stiamo lavorando con loro per poter includere la misurazione della MRD come marcatore surrogato di efficacia negli studi clinici. La frontiera da abbattere è considerare la possibilità che la valutazione della negatività possa essere utilizzata come endpoint surrogato negli studi clinici. In questo modo si potrebbe valutare molto più precocemente l’efficacia (o l'inefficacia) dei farmaci sperimentali, senza dover aspettare numerosi anni per verificare l’effettiva differenza di sopravvivenza. Questo permetterebbe di velocizzare il processo di sviluppo e selezione dei farmaci rendendo disponibili le terapie più efficaci in tempi più brevi”.

Michela Perrone 

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