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Lunedì 06 GIUGNO 2016
Medici, autonomi sì. Ma anche consapevoli di quello che fanno



Gentile Direttore,
Ivan Cavicchi, riferendosi alla classe medica (QS 24 maggio 2016), scrive che “l’autonomia è prima garanzia per il malato di essere curato secondo necessità”. Da questo concetto, certamente condivisibile, nasce il bisogno di salvaguardare l'autonomia decisionale del medico in un contesto fattosi difficile perché “lo Stato non solo definisce le classiche condizioni di lavoro (luogo di lavoro, orario, retribuzione, carriera) ma anche i modi economici delle prestazioni (sostenibilità, uso ottimale delle risorse, appropriatezza)”.
 
La tutela dell’autonomia del medico è esigenza di pochi anni, da quando anche in Sanità è diventato necessario l'equilibrio economico tra spesa e prestazioni erogate. In tempi di presunta opulenza nessuno di noi si è mai posto il problema di dover rendere conto dei propri atti, in quanto la prescrizione non aveva vincoli ed era condizionata soltanto dal senso di opportunità individuale.
 
Ma, eravamo davvero autonomi e liberi, oppure eravamo condizionati da stimoli diversio subliminali che in un modo o nell'altro indirizzavano le nostre azioni?
Se è vero che la libertà finisce dove inizia la libertà altrui, l’autonomia dei medici deve avere limiti?
E, facendo un po’ di onesta autocritica al nostro complessivo operare di medici, siamo certi di poter affermare che in ogni nostro atto ci sia stata sempre libertà di scelta o vera autonomia?
Oppure, siamo stati, in modo più o meno consapevole, fuorviati dal vortice delle mode o delle sponsorizzazioni a non riflettere sulle vere necessità del paziente o sulla salvaguardia del bene pubblico a noi affidato?
 
Ci siamo, forse, inconsciamente discolpati con l'elargizione mecenatica delle prestazioni, ma tutto questo era un comportamento autonomo e consapevole?
Eppure limiti alla nostra autonomia esistevano anche allora, anche se i vincoli erano mal percepiti perché era debole il loro messaggio, così da farci fluttuare nel torpido dei malintesi, convinti di nuotare in uno specchio d’acqua limpida.
 
Chiediamoci, allora, quale sia la vera autonomia del medico. La domanda da porsi è: " Autonomia è uno spazio di anarchia decisionale oppure è invece libertà di azione secondo principi condivisi che rispettino i bisogni del paziente e le evidenze scientifiche validate?"
 
In qualsivoglia posizione professionale, sia essa libera, dipendente o convenzionata, la  prescrizione di un farmaco o di una prestazione diagnostica deve essere consapevole delle conseguenti responsabilità:  la prescrizione deve essere innanzitutto necessaria,  verosimilmente efficace e deve produrre effetti collaterali avversi minori rispetto ai benefici attesi. Inoltre la stessa prestazione dovrebbe avere un costo sostenibile sia che al suo emolumento provveda direttamente il paziente come pagante in proprio, sia che se ne faccia carico il SSN. E, tutto questo, dovrebbe essere ineludibile al di là di ogni ragionevole dubbio.
 
Il Medico ha, inoltre, anche mandato della responsabilità, nei confronti della Comunità Sociale, del buon uso delle risorse finanziarie che egli stesso utilizza all'atto prescrittivo, tenendo sempre a mente che ogni prescrizione è comunque una frazione, se pur infinitesimale, dei 110 miliardi del Fondo Sanitario Nazionale. Se pur in questi anni recenti abbiamo assistito a impune sperpero del pubblico denaro, ciò non toglie, anche se finora non richiesto, che la classe medica debba assumersi anche gli oneri del controllo dei costi delle scelte professionali.
 
Infine, dato per vero che la nostra autonomia insiste tra due confini, necessità del paziente e responsabilità delle risorse assegnate, al decalogo presentato dalla FNOMCeO, al recente meeting di Rimini, aggiungeremmo l’undicesimo principio: l’accountability. Nella professione medica questo principio non è astratto, ma conseguenza dell’elemento decisivo per espletare con efficacia la nostra arte: la conoscenza scientifica. Se i medici si comportassero secondo (cono)scienza e coscienza e scegliessero i percorsi di diagnosi e cura più idonei per i propri pazienti, crediamo non avrebbero alcuna  difficoltà a rendere conto delle loro scelte.
 
Su questo terreno noi crediamo si possa trovare una sintesi e una ricomposizione del gap evidenziato da Ivan Cavicchi tra “prestazioni che vuole lo Stato ai fini del risparmio… e quello che il medico avrebbe il dovere di assicurare in scienza e coscienza”. Ancora una volta essa passa attraverso la conoscenza.
 
Un medico è autonomo se possiede adeguata conoscenza scientifica, precondizione per l’empowerment, inteso come capacità di assumere decisioni veramente libere e consapevoli (perché infuse di conoscenza).
 
Questo, a sua volta, permette l’accountability nella sua doppia accezione:
a) assunzione di responsabilità (perché non si può essere pienamente responsabili di un atto la cui effettuazione non è avvenuta in piena conoscenza);
b) rendere conto alla comunità e al SSN delle proprie decisioni.
 
Anche se può sembrare ovvio, il medico, con gli attuali strumenti di comunicazione della conoscenza, non può possedere tutte le informazioni per un agire davvero autonomo e i tassi d’inappropriatezza sono un indicatore di questa ovvietà.  
 
Per esigenze di sintesi schematicamente consideriamo i due principali fattori che pregiudicano l’autonomia:
a) la mancanza di conoscenza tout court
b) i bias di conoscenza 
 
Il primo punto (a) è evidente e intuitivo: i medici non possiedono, o meglio non possono possedere, nel momento esatto dell’atto prescrittivo (con il paziente davanti e con poco a tempo a disposizione),  tutte le informazioni necessarie ad una corretta prescrizione; nel tariffario nazionale, solo per branca di Laboratorio ci sono oltre 700 prestazioni: portare esempi di inadeguatezza conoscitiva in questo mare magnum appare naturalmente pleonastico.  
 
I biases di conoscenza (punto b) richiedono invece, non ce ne voglia il lettore, un breve approfondimento didascalico: essi sono delle distorsioni intrinseche ai processi cognitivi che espongono il medico a errori ricorrenti, pervasivi, sistematici, non intenzionali e inconsapevoli di giudizio nel ragionamento clinico. Sono innati, interessano tutti gli individui e non possono essere eliminati. Per cercare di renderli meno dannosi, bisogna conoscerli. 
 
Uno dei biases più comuni è l’abitudine intesa come disposizione a ripetere atti simili. E’ una forma d’inerzia del comportamento o di memoria latente di comportamenti passati che insieme agli automatismi, ostacola l’utilizzo di nuove conoscenze (ne è un esempio il perpetuarsi della richiesta di test ormai storici pur nella consapevolezza razionale della loro scarsa efficacia).
 
Gli automatismi sono una forma di elaborazione automatica prescindendo in larga misura da controlli retroattivi (ad esempio l’abbinamento di test come PT & aPTT, AST & ALT, FT3 & FT4, Azotemia&Creatinina…).
 
Un bias molto ricorrente è lautoconvalida: alla base ci può essere l’approvvigionamento parziale di informazioni in base a mappe mentali precostituite, con la raccolta selettiva di dati, come test di laboratorio, che confermano la visione iniziale. 
 
La percezione selettiva è invece una spia di non neutralità del medico di fronte all’osservato che tende in questo modo a prescrivere quei test che identifica nel bagaglio di conoscenze già possedute.
 
biases di categorizzazione intervengono quando i processi mentali tendono erroneamente ad accentuare o diminuire le differenze tra categorie o all’interno della stessa categoria. Ad esempio il ritenere identiche le modalità d’utilizzo dei marcatori di neoplasia (PSA, CA 15.3 etc.), quando invece è noto che non tutti si prestano all’utilizzo per fini diagnostici.
 
Nei biases d’integrazione si ha invece una perdita d’informazione per una forma di cecità selettiva per il trattenere solo quello che abbiamo afferrato lasciando cadere dettagli che non comprendiamo ma che possono risultare cruciali. Ad esempio tratteniamo l’informazione sul D Dimero come efficace nella diagnostica della trombosi venosa profonda, ma tralasciamo il “dettaglio” sul suo valore predittivo negativo, utile soprattutto a escludere e non a confermare la patologia.  Anche la memoria a breve o a lungo termine, già di per sé fisiologicamente inadeguata per l’immagazzinamento dell’enorme numero di dati, è inevitabilmente esposta a biases, con fallimenti nei processi di rievocazione necessari all’impostazione del processo di deduzione.
 
A complicare la decisione intervengono fattori esterni e di interferenza decisionale quali stress, ansia, stanchezza, pressioni del paziente, operatività in situazione di urgenza ed, in generale, tutte quelle condizioni che riducono il tempo a disposizione per una verifica dei dati.
 
Alla luce dei fattori che interagiscono e influenzano la decisione, viene naturale chiedersi allora quanto effettivamente possa definirsi libera, autonoma e discrezionale la scelta di prestazioni.

 
L’art. 4 del Codice deontologico recita che “L’esercizio professionale del medico è fondato sui principi di libertà, indipendenza, autonomia e responsabilità”. L’art. 6 ne delimita però il campo quando afferma che il medico nell’esercizio della professione si attiene a “principi di efficacia e appropriatezza, aggiornandoli alle conoscenze disponibili…perseguendo l’uso ottimale delle risorse pubbliche e private…”. Quindi libertà e autonomia con vincoli di mandato, all’interno di una cornice di conoscenze scientifiche e, sempre più, anche economiche.  
 
La discrezionalità, applicata alla medicina, è certamente quindi la possibilità di scegliere in autonomia tra più opzioni, ma con una  precondizione: la consapevolezza, in altre parole, la scelta e la decisione pienamente cosciente ed informata. E’ evidente che se estendiamo questa definizione ai vari ambiti dell’esistenza, del tutto liberi non si è praticamente mai ma, mentre nella vita privata le conseguenze dell’inadeguatezza decisionale ricadono sul singolo soggetto, in medicina  ricadono sull’altro e sulla comunità con possibili danni alla salute e dispersione di pubbliche risorse. 
 
La soluzione per dare concreta e reale autonomia al medico in queste pagine l’abbiamo formulata e declinata più volte (QS 24 marzo9 maggio19 maggio 2016): mettere il medico “in sicurezza”  nella fase della scelta di prestazioni, fornendogli, nel momento esatto dell’atto medico, un  livello di conoscenza che lo renda autonomo.
 
L’Information Comunication Technology su questo può dare un contributo decisivo: non ci sono più alibi per non essere attori, per non  agire con  autentica e concreta autonomia.
 
Alessandro Camerotto 
Responsabile Scientifico Progetto Ermete, Regione Veneto
 
Vincenza Truppo 
Ricercatrice Progetto Ermete, Regione Veneto
 
Roberto Mencarelli
Ricercatore Progetto Ermete, Regione Veneto

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