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Martedì 10 MAGGIO 2011
Riforme sanitarie. Se la Cina guarda all'Italia

Si rafforza il Programma di cooperazione sanitaria Italia-Cina con una nuova partnership con l'Istituto Superiore di Sanità, il Campus Bio-Medico di Roma e il Centro ELIS. Una delegazione cinese in Italia per studiare i modelli assistenziali del nostro Paese mentre la riforma sanitaria di Pechino da 200 miliardi di euro punta sempre più verso un sistema “misto” pubblico-privato.

Una delegazione cinese formata da medici, infermieri, tecnici e manager sanitari è in questi giorni in Italia per studiare il nostro sistema sanitario nazionale. Sotto la lente di ingrandimento i meccanismi che regolano nel nostro Paese i  rapporti tra Stato, Regioni e strutture sanitarie private convenzionate. E' infatti a un sistema misto pubblico-privato che sembra puntare ora il colosso cinese, alle prese con una faraonica riforma sanitaria che punta verso un deciso intervento finanziario del pubblico, ma con un altrettanto decisiva presenza del privato, per garantire entro il 2020 la copertura sanitaria di base a un miliardo e 300 milioni cittadini cinesi.
Il programma “China-italy-Shaanxi vacational  training programme” è un progetto di formazione frutto della cooperazione già avviata da tempo tra governo cinese ed italiano per lo sviluppo economico e sociale, e vedrà impegnati da un lato l’Istituto Superiore di Sanità, l’Università Campus Bio-Medico di Roma e l’Associazione Centro ELIS (che promuove attività formative e di solidarietà sociale), dall’altro manager e personale sanitario della Xi’an Medical University e del Provincial People’s Hospital.  Un percorso  della durata di due anni per comprendere i nostri modelli gestionali e di assistenza sanitaria e che prevede una serie di interventi: la formazione in loco effettuata da esperti italiani, l’erogazione di borse di studio in Italia e in Cina, la dotazione di attrezzature e strumentazioni avanzate per l’allestimento in loco di laboratori didattico-formativi.

La scelta dell’Italia da parte dell’ “Impero di mezzo”, e in particolare di un grande Istituto di ricerca pubblico come l’ISS e di un Policlinico privato convenzionato con il pubblico come il Campus Bio-Medico, non è casuale. Dopo decenni di assenza dello Stato dalla sanità e i suoi timidi tentativi di reingresso degli anni ’90, nel 2003 la locomotiva cinese ha deciso che per accelerare la sua corsa verso lo sviluppo aveva bisogno di un sistema  di welfare sanitario più efficiente di quello assicurativo privato, paradossale in un Paese che si autodefinisce comunista.  Parte così il colossale Piano “Cina in salute 2020”, che punta tra l’altro ad integrare la medicina Tradizionale con quella Occidentale e che sembra in questi mesi virare sempre più verso un sistema “misto” pubblico-privato. Secondo un rapporto stilato dall’organo principale di programmazione economica cinese (l’NDRC, National Development Reform Commission) e sottoposto al Consiglio di Stato cinese, il supporto finanziario da parte del governo dovrebbe essere concesso egualmente alle strutture private come a quelle pubbliche. Inoltre, maggiori finanziamenti governativi dovrebbero essere incanalati verso le aziende private che decidano di investire in ambito sanitario, in particolare in settori ad alto contenuto tecnologico.
In campo ci sono ben 100 miliardi di euro ai quali il governo di Pechino ne ha aggiunti altrettanti per accelerare la riforma nel triennio 2009-2011. In tutto 200 miliardi di euro da qui al 2020 da spendere per allestire 29mila nuovi centri medici locali, allestire 2.000 nuovi ospedali di contea, formare e valutare 1.370.000 medici che opereranno in villaggi anche sperduti, formare altri 160 mila medici che opereranno in comunità più allargate, produrre in  proprio e distribuire almeno 300 tipologie di farmaci essenziali.  Uno sforzo che dovrebbe contribuire a risolvere  l’enorme varietà di problemi medici, dalla salvaguardia della salute di 300 milioni di fumatori, di 177mila ipertesi e di centinaia di migliaia di malati di AIDS.
Persitono ancora forti disparità nell'accesso ai servizi sanitari
Nonostante la riforma sanitaria varata da Pechino nel 2003 abbia già ottenuto buoni risultati,  permangono forti disparità nell’accesso alle prestazioni, a svantaggio  soprattutto di chi vive nelle campagne. Qualche numero dà la misura delle diseguaglianze ancora esistenti. Nella provincia più ricca, quella di Shangai, l’aspettativa di vita alla nascita supera, ormai, i 78 anni ed è vicina a quella di un europeo o di un giapponese. Nelle provincie rurali più povere dell’interno, non va oltre i 65 anni e si avvicina a quella della Russia e degli altri grandi paesi dell’Asia continentale. Nelle provincie più sviluppate la mortalità infantile è cinque volte minore che nelle provincie più arretrate. In città la malnutrizione infantile è tre volte inferiore alle campagne. In città vivono inoltre 140 milioni di persone che in pochi anni si sono trasferite dalla campagna e non hanno protezione sanitaria alcuna.
Ma rispetto alla disastrosa assenza di copertura sanitaria perdurante fino agli anno ’90 passi in avanti da gigante sono stati compiuti. Attualmente l’87% della popolazione cinese è coperta da almeno uno degli strumenti assicurativi governativi: l’Assicurazione medica di base dei lavoratori e quella per i residenti urbani. Nel 2010 i 410 milioni che vivono nelle aree urbane, pari al 70% della popolazione metropolitana, hanno una sufficiente copertura sanitaria. Il premio assicurativo minimo annuale è stato innalzato a 140 yuan pro-capite (120 a carico dello Stato, 20 a carico dell’utente). Il che ha permesso di includere nei servizi coperti dal sistema sanitario alcune prestazioni ambulatoriali per malattie croniche, l’aumento dei rimborsi statali al 60% delle spese di ospedalizzazione e al 50% di quelle ambulatoriali per malattie non croniche.
Progressi che il governo di Pechino punta ad incrementare anche importando un po’ dei modelli sanitari e gestionali della nostra bistrattata sanità.
 
P.R.
 

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