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Venerdì 25 MARZO 2016
Rossi e l’intramoenia. Lorenzin e il Ssn universale. Due belle battaglie. Ma vincerle non sarà facile

A distanza di pochi giorni due prese di posizione molto forti. Una del presidente della Toscana contro la libera professione che, al di là della forma un po' bislacca in cui è stata presentata, è questione tutt'altro che campata in aria. L'altra quella posta dal ministro che, smentendo i timori di una privatizzazione strisciante da parte del Governo, conferma la convinzione assoluta in un Ssn universalistico. Ma la strada, per tutti e due, non sarà in discesa

Trovo esagerata la reazione di massa  alla proposta anche se per certi versi  bislacca nei modi e nella forma, del presidente Enrico Rossi  di ridiscutere la libera professione. Esagerata perché non dobbiamo prenderci in giro, la questione  non è proprio una pastorelleria con gli agnellini  che pascolano e gli uccellini sugli alberi.
 
Essa non è proprio uno specchio di virtù  e nel tempo ha tradito importanti contraddizioni sul terreno dell’equità  ma anche su quello della funzionalità dei servizi pubblici. Ho sempre nutrito e mai nascosto dubbi sull’operazione politica che all’insegna dell’intramoenia  fu fatta a suo tempo tra medici e politica  (QS 8 marzo 2012). Pensare di sbaraccare tutto con una legge di iniziativa popolare non mi pare una buona idea ma non ho nulla in contrario ad  aprire una discussione, soprattutto  oggi in un momento in cui la “questione medica” è particolarmente acuta.
 
Del resto non posso dimenticare quei due malati nella stessa stanza di un grande ospedale romano, uno dei quali era assistito in intramoenia  e trattato in modo totalmente diverso da quell’altro, in tutto e per tutto anche per le visite dei parenti. Né posso dimenticare  le indagini parlamentari che vi sono state e il tormentone della “proroga” che si è snodato di ministro in ministro, e né i soldi pubblici che sono stati spesi per attrezzare gli spazi dedicati  mentre la sanità languiva di stenti.
Rossi  secondo  me sbaglia nel modo di porre la questione  ma essa non è certo una sua invenzione.
 
Dipendenti, autori, shareholder
Proprio perché,  come è stato detto con forza, esiste una grave questione salariale/contrattuale (quella che mi sono permesso di definire “decapitalizzazione”)   e che sta penalizzando duramente i medici forse è arrivato il momento di  ridiscutere di valore del lavoro medico  e il modo di retribuirlo.
 
Sappiamo tutti che il compromesso  alla base della libera professione è stato quello di mettere insieme la natura della vecchia professione liberale rappresentata dall’onorario  con quella del dipendente pubblico rappresentata dallo stipendio a partire da un postulato che oggi  non regge  più: ti pago di meno ma ti faccio fare il libero professionista, cioè ti permetto di integrare lo stipendio con l’onorario privatizzando  parte della transazione a carico  del reddito privato.
 
Oggi si tratta di invertire il discorso: ti pago come meriti, cioè in rapporto ai risultati di salute che produci e ti faccio fare l’autore di medicina pubblica.
Come è noto da tempo sostengo che il capitale più importante dell’azienda sanitaria  è il lavoro professionale  e che in ragione di ciò  dovremmo superare l’idea vecchia di “dipendente”  per affermare quella nuova di “autore” (autonomia-responsabilità-risultati)cioè passare dalla vecchia transazione compiti/retribuzione a  quella nuova tra impegno/attribuzione .
 
L’autore per me non è altro che uno  shareholder   cioè un operatore azionista  che  attraverso la propria  professione  possiede  quote del capitale professionale dell’azienda. Questo ci darebbe la possibilità: di unificare i tanti contratti diversi superando la distinzione tra lavoro pubblico lavoro convenzionato, di superare la dicotomia libera professione/professione dipendente, quindi quella ancestrale  onorario/stipendio ma soprattutto di far guadagnare di più chi lavora  sviluppandone la professione ma nello stesso tempo  di produrre più risultati di salute azzerando le diseconomie .
 
A ben vedere cari apologeti della libera professione si tratta di superare la dipendenza che paga i compiti  e trasformare la libera professione in professione autonoma e responsabile che paga l’impegno.
Che me ne faccio oggi della libera professione? Essa ormai è un rottame di altri tempi.
 
Il dovere alla sostenibilità
Ma la questione  che definirei della riforma della libera professione  e quindi del lavoro nonché della transazione lavoro/retribuzione  la vorrei collegare con l’editorialea firma Beatrice Lorenzin pubblicato sulla news letter del Ministero della Salute e che Fassari molto opportunamente ha ripreso il giorno dopo  su questo giornale. (Qs 20 marzo 2016).
Ma procediamo con ordine. L’editoriale della Lorenzin è interessante  per due ragioni:
· è una importante puntualizzazione strategica fatta a nome del governo   secondo la quale parrebbero (sottolineo “parrebbero”) superate le suggestioni iniziali del “libro bianco” di Sacconi, accantonate le operazioni biotecnologiche di aggiungere al sistema altre gambe, abbandonate  le concezioni di universalismo selettivo, e quindi ribadito  il valore pieno dell’universalismo,
· è la risposta  a chi accusa il governo Renzi (Bersani in testa ma anche  buona parte  del sindacato medico e  di quello confederale e molti commentatori) di puntare intenzionalmente  alla  privatizzazione del  sistema pubblico.
 
A leggere con attenzione l’editoriale  si intravede una filosofia, per me universalista convinto, molto interessante per la quale  l’universalismo smette di essere come è stato in tante dichiarazioni retoriche , una petizione di principio, per diventare  una cosa concreta da finanziare in un certo modo , e che si poggia.. udite udite..  su una sorta di dovere alla sostenibilità .
 
Ecco cosa scrive la nostra ministra:
“È ovvio che facciamo i conti rispetto alla situazione economica, quindi diventa un dovere da parte di tutti noi fare in modo di eliminare gli sprechi, rendere efficace ed efficiente il sistema anche facendo azioni innovative, cioè entrando nel merito della produttività del sistema”
 
Sulla  base del dovere alla sostenibilità (che richiama per certi versi il celebre principio di responsabilità di Jonas) la ministra a nome del governo propone una sorta di universalismo parsimonioso basato su un semplice  condizionale:‘se risorse allora risparmi” .
 
Come tutti i condizionali anche questo ha una  struttura vero-funzionale che poi è quella dell’implicazione materialein quanto il suo valore di verità dipende  completamente dei termini che lo compongono.
 
Cosa vuol dire? Che se non elimino le diseconomie:
· i soldi che mi darà il governo saranno meno di ciò che servirebbe al sistema,
· ciò che non sarà compensato avrà la forma dei tagli lineari,
· in ogni caso (come è avvenuto con i 111 mld dello scorso anno) il definanziamento del sistema avrà  importanti effetti di privatizzazione, di deprofessionalizzazione, di decapitalizzazione ,di decontrattualizzazione, ecc.
 
Il governo quindi sembra mandarci tre messaggi:
· nessuna diseconomia aiuterà la sanità a restare pubblica e universale
· ogni diseconomia aiuterà  la sanità a diventare sempre più privata e  iniqua
· le diseconomie sono  contro gli interessi delle professioni e i diritti  dei malati  
 
Valore e controvalore
Si comprende  che, per questa politica, il risparmio declinato in forma di lotta agli sprechi e alle diseconomie   diventa importante quanto  il finanziamento cioè diventa una risorsa da scambiare con un'altra risorsa, come il programma degli anni 90 “oil for food” delle nazioni unite. Con questo genere di scambio sarebbe possibile la magia cioè per non  privatizzare il sistema  si tratta di finanziarlo meno  senza togliere nulla  alle sue  virtù. Per fare questa magia il lavoro diventa questione cruciale.
 
Qualche mese fa (Qs 20 gennaio 2016) sostenevo che  interpretare le politiche del governo come  privatizzazione  fosse una lettura scorretta e che chi grida alla privatizzazione in realtà ha grosse difficoltà  a reggere il confronto sul cambiamento per cui non gli resta altro che rivendicare altri soldi per non cambiare quello che c’è.
 
Se vuoi conservare un sistema  rifinanzialo se invece vuoi cambiarlo allora  finanzialo di meno vedrai sarà la necessità a cambiare le cose in un modo o nell’altro.
 
Tuttavia se è un errore leggere in modo sbagliato  la politica del governo non possiamo non sottolineare che essa ha parecchi  punti deboli:
· il dovere alla sostenibilità cioè di eliminare gli sprechi  implica una deontologia della responsabilità che non c’è e rispetto alla quale l’intero sindacalismo, come si vede dai negoziati in corso, è fortemente in ritardo,
· essere parsimoniosi cioè superare le diseconomie nelle loro varie forme implica un pensiero riformatore che ancora non c’è,
· le diseconomie più importanti coincidono con i grandi problemi di regressività dei modelli il resto ha dimensioni economiche secondarie e può essere facilmente razionalizzato,
· il governo per primo che parla di dovere alla sostenibilità  è ancora fermo a logiche marginaliste e puramente economiciste come dimostrano i suoi provvedimenti  sull’appropriatezza e non solo.
 
Distanti anni luce...
Vorrei ricordare ma solo perché in questa dannata sanità nessuno si ricorda niente,  che lo scambio politico tra “doveri  e diritti” è stato da me teorizzato  11 anni fa  (“Sanità un libro bianco per discutere”  2005). Ebbene   questo scambio ancora non ha avuto  luogo perché  i termini del negoziato in questo momento  tra governo  sindacati ordini collegi  sono davvero altri. Siamo distanti anni luce dalla possibilità di riformare la dipendenza, il valore del lavoro e i modi  di retribuirlo, di ripensare la libera professione. Oggi  le rivendicazioni poste sul tavolo dai sindacati  ,per quanto giuste e rispettabili nelle loro specificità, sono quanto di più lontano esista dall’idea diautore e di shareholder”come principale strumento per attuare la politica  “se risorse allora risparmio”
 
Ancora il sindacato chiede perché  ritiene di avere dei diritti ma in cambio non da niente perché  ritiene di non avere dei doveri meno che mai quelli relativi alla sostenibilità.
 
Come abbiamo visto il sindacato compatto difende un rottame come la libera professione e ancora si muove in un paradigma contrattuale che fa acqua da tutte le parti. Questo  con i tempi che corrono non gioverà a nessuno meno che  mai ai medici e ai loro contratti.
 
Per rendersene conto basta  riflettere sulle  cose in corso:
· La Fnomceo  come avevo previsto (Qs 22 febbraio 2016) non avendo  una sua idea di appropriatezza professionale  da contrapporre a quella economicista  del governo va a patti con la medicina amministrata accettandone di fatto i presupposti...dando così  un bel colpo alla “questione medica”  e radicalizzando ancor più le divisioni al suo interno (penso soprattutto agli odiatissimi ordini di Milano, Bologna, Palermo).
· Il rinnovo della convenzione per la medicina generale sembra impostato anche questa su una mediazione  tra uno status contrattuale  del medico che fondamentalmente non cambia  alla faccia dello shareholder  e una specie di integrazione che proprio a causa di questa invarianza  difficilmente avrà luogo (AFT).
· I sindacati medici che hanno sospeso uno sciopero di 48 ore per un negoziato minimalista (si avvera la profezia della mollichella)che naturalmente per tante ragioni non mi sogno di svalutare ,ma che tradisce innegabilmente un divario enorme  tra il manifesto scritto per lo sciopero al quale dopo tante critiche avevo convintamente aderito e la piattaforma che ne è uscita .Il  divario strategico che vedo lo quantificherei  10 a 1.Le grandi questioni irrisolte della professione, come vuole la tradizione immanentista dei medici, sono  di fatto  differite alle future generazioni. Di shareholder neanche l’ombra.
· L’ipasvi  che avrebbe tutto da guadagnare dall’affermazione dell’idea di autore/shareholder , dopo la disfatta politica del comma 566 sta sprofondando nel vintage cioè sta ritornando ai compiti e alle mansioni come se la riforma del suo profilo fosse impossibile.
 
L’incompetenza riformatrice e gli spaghetti alle vongole fujiute
Sono tutti esempi nei quali  “se risorse allora risparmi” rischia di restare una nobile intenzione. Devo dire che uno scambio del genere, (lo dico  all’intersindacale medica  che della difesa della sanità pubblica ha fatto un punto forza), lo preferisco di gran lunga  alla privatizzazione ,ma devo anche aggiungere che esso implicherebbe un negoziato sociale impostato sul cambiamento   rispetto al quale purtroppo tanto il sindacato che il governo non  sono  all’altezza. Nessun generale  si offenda ma è così.
 
Siccome alla mia onestà intellettuale tengo più degli occhi debbo  dire che se le cose andranno storte come è probabile che accada e il sistema  continuerà ad essere sempre più definanziato e quindi privatizzato di fatto, in questo caso vi sarà  una pesante   responsabilità morale di tutte le parti  convocate al tavolo della sanità.
 
Le responsabilità morali finiscono con il coincidere  con quella che spesso ho chiamato “incompetenza riformatrice”. Per fare autori e shareholder al contrario ci vuole una grande competenza riformatrice che purtroppo  i sindacati e il governo non hanno.
 
In questo quadro  il rischio reale che corriamo  è che la politica del  finanziamento condizionato  del governo ,  diventa  come  gli  “spaghetti alle vongole fujiute” ,un piatto napoletano che sa  di vongole  ma dal  quale le vongole  se ne sono “fujiute”(scappate). Cioè un piatto finto.
 
Il fondo sanitario per Renzi  è la stessa cosa di un piatto di spaghetti alle vongole  fujiute:
· le risorse da dare alla sanità ogni anno per lui crescono  anche se ogni anno esse  se ne “vanno fujenne” cioè  se  ne scappano,
· la spesa quindi  cresce meno di quello che dovrebbe crescere rispetto al fabbisogno del sistema,
· la quantificazione del fondo è decisa comunque e inevitabilmente con un taglio lineare quello che Padoan ha definito eufemisticamente “minor crescita”.
 
A causa di questa generale  incompetenza riformatrice è come se difronte ai problemi finanziari del paese, fossimo  tutti in ritirata: il governo, i sindacati, il lavoro, le professioni...tutti  incapaci di evitare per una ragione o per l’altra  che le risorse come le vongole  continuino  a  “scappare” dalla sanità.
 
Do ut des
La ministra  nel suo editoriale accenna ad  “un piano di rientro triennale, una road map per uscire dalla crisi” ma  senza un pensiero riformatore dubito  che sia concretamente possibile. Per cui consiglierei alla ministra di essere più cauta con l’ottimismo (avremo più soldi, più assunzioni, più farmaci, più  investimenti, rinnoveremo i contratti, ecc.) non solo perché resta  la lezione amara dei 111 mld  ma soprattutto perché vedo che:
· la richiesta dell’’Europa  di ridurre il nostro debito pubblico si fa sempre più pressante,
· il debito pubblico  in barba  alla spending review continua  a crescere,
· il rapporto tra spesa pubblica e spesa sanitaria continua ad essere  relativamente sostenibile,
· i dati economici del paese  tornano a parlare di recessione.
 
Per cui, lo dico  ai sindacati,  se questa è l’antifona  mi permetto di dubitare della possibilità di rinnovare davvero i contratti nel 2017 e della efficacia politica dei negoziati in corso. Al massimo si può contare sull’effetto  elezioni  2018  ma sapendo che poi, se l’economia non migliora, si sconterà tutto con gli interessi.
 
In tutta sincerità, ma credo sia noto, proprio perché non mi faccio illusioni, avrei preferito affrontare il toro per le corna  con una piattaforma di cambiamento quindi giocandomi la carta dell’autore e dello shareholder   e fare i conti una volta per tutte con la sfida del   “do ut des”.
 
Probabilmente avremmo potuto scoprire che con l’autore e lo shareholder  si sarebbe potuto risolvere tanto la questione medica che quella infermieristica  aiutando  il governo a risolvere i suoi problema di spesa  facendo più salute  e guadagnando di più.
 
Aggiorneremo l’analisi in autunno  cioè quando come diceva mio nonno “si svuoteranno i sacchi” e si potrà vedere che cosa abbiamo raccolto con gli scioperi rutilanti, le piattaforme minimaliste, i negoziati  sulle mollichelle e la riscoperta del vintage.
 
Ivan Cavicchi
 

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