quotidianosanità.it
stampa | chiudi
Mercoledì 17 FEBBRAIO 2016
Demansionamento e Codice deontologico degli infermieri. Evitiamo confusioni
Gentile Direttore,
a leggere alcuni commenti a margine della sentenza n. 8132/2015 della Corte d’Appello di Roma, parrebbe che il Codice Deontologico dell’infermiere e, segnatamente, la disposizione di cui all’art. 49, costituisca un’arma utilizzabile contro l’infermiere per legittimarne il demansionamento, inteso come assegnazione di mansioni inferiori.
Tutto questo perché la Corte d’Appello capitolina, nel respingere la domanda proposta da un infermiere, che nella fattispecie chiedeva al Giudice di disapplicare una disposizione aziendale (chiudere e confezionare i rifiuti ospedalieri-ROT, in assenza di personale ausiliario in servizio), nel motivare il rigetto, ha incidentalmente fatto riferimento alla sopra citata norma deontologica che testualmente si riporta: “L’infermiere, nell’interesse primario degli assistiti, compensa le carenze e i disservizi che possono eccezionalmente verificarsi nella struttura in cui opera. Rifiuta la compensazione, documentandone le ragioni, quando sia abituale o ricorrente o comunque pregiudichi sistematicamente il suo mandato professionale”.
Senza entrare nel merito del contenuto della sentenza, che, a scanso di equivoci, trovo palesemente erronea in diritto, il principio applicato dalla Corte d’Appello è, tuttavia, ben espresso nella sentenza - “In tema di demansionamento e di dequalificazione professionale, non può ritenersi che lo svolgimento occasionale e residuale rispetto ai compiti propri della qualifica, sia sufficiente a integrare un’ipotesi di svolgimento di mansioni inferiori vietato dalla legge” – e non trae la sua fonte dal Codice Deontologico, ma dalla consolidata giurisprudenza di legittimità che non tutela nessun lavoratore quando l’assegnazione di compiti inferiori alla qualifica di appartenenza sia meramente occasionale.
Ecco perché in tutti i contenziosi in tema di demansionamento (parlo per esperienze dirette), quando si propone una domanda di reintegrazione nelle mansioni (tanto più quando, congiuntamente ad essa, si proponga una domanda di risarcimento del danno non patrimoniale), è necessario strutturare la prova in modo tale che il Giudice possa accertare che l’assegnazione delle attività di competenza del personale cd. di supporto sia routinaria e costante.
Che le norme del Codice Deontologico non possano assumere rilievo, oltre i confini disciplinari, se non per integrare i precetti normativi (e giammai per sostituirli), del resto, costituisce un principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità (cfr. per tutte Corte di Cassazione, sezione II civile, 11 novembre 2015, n. 23017) per cui definire l’art. 49 una norma legittimante il demansionamento appare a dir poco azzardato.
La norma dice, infatti, tutt’altro rispetto al senso che taluno vorrebbe attribuirgli, considerando che essa limita l’intervento sostitutivo all’occasionalità, che certo non può confondersi con una situazione cronica emergenza, ed è strettamente legata alla definizione della figura dell’infermiere come dominus dell’assistenza generale al malato, che, rifiuta la compensazione, ma interviene eccezionalmente per compensare carenze e disservizi nell’esclusivo interesse del paziente (stella polare della professione sanitaria).
L’anzidetta disposizione, peraltro, non può essere sradicata dal contesto in cui è inserita.
Contesto costituito da tutte quelle disposizioni del codice deontologico[1] che concorrono alla definizione dell’infermiere come professionista responsabile dell’assistenza (e non, invece, come factotum a disposizione) e sottolineano la fondamentale importanza del ruolo autonomo e altamente qualificato parzialmente valorizzato dal legislatore.
Un ruolo che – a giudizio di chi scrive - non può essere messo in discussione da una sentenza che, nel sorvolare sul carattere lesivo della disposizione di servizio (resa pubblica attraverso una circolare aziendale), a prescindere dall’effettivo impegno occasionale o sistematico nelle mansioni inferiori, non considera come la tutela dell’immagine professionale dell’infermiere sia un valore da difendere nell’interesse della collettività.
Avv. Giacomo Doglio
Legale Collegio IPASVI Carbonia Iglesias
[1]art. 1:“L'infermiere è il professionista sanitario responsabile dell'assistenza infermieristica”; art. 2:“L'assistenza infermieristica è servizio alla persona, alla famiglia e alla collettività. Si realizza attraverso interventi specifici, autonomi e complementari di natura intellettuale, tecnico-scientifica, gestionale, relazionale ed educativa.”; art. 7: “L’infermiere orienta la sua azione al bene dell'assistito di cui attiva le risorse sostenendolo nel raggiungimento della maggiore autonomia possibile, in particolare, quando vi sia disabilità, svantaggio, fragilità”; art. 11:“L'infermiere fondail proprio operato su conoscenze validate e aggiorna saperi e competenze attraverso la formazione permanente, la riflessione critica sull'esperienza e la ricerca. Progetta, svolge e partecipa ad attività di formazione. Promuove, attiva e partecipa alla ricerca e cura la diffusione dei risultati”; art. 20: “L'infermiere ascolta, informa, coinvolge l’assistito e valuta con lui i bisogni assistenziali, anche al fine di esplicitare il livello di assistenza garantito e facilitarlo nell’esprimere le proprie scelte”; art. 23:“L’infermiere riconosce il valore dell’informazione integrata multiprofessionale e si adopera affinché l’assistito disponga di tutte le informazioni necessarie ai suoi bisogni di vita”; art. 24:“L'infermiere aiuta e sostiene l’assistito nelle scelte, fornendo informazioni di natura assistenziale in relazione ai progetti diagnostico-terapeutici e adeguando la comunicazione alla sua capacità di comprendere”; art. 29:“L'infermiere concorre a promuovere le migliori condizioni di sicurezza dell'assistito e dei familiari e lo sviluppo della cultura dell’imparare dall’errore. Partecipa alle iniziative per la gestione del rischio clinico”; art. 32:“L'infermiere si impegna a promuovere la tutela degli assistiti che si trovano in condizioni che ne limitano lo sviluppo o l'espressione, quando la famiglia e il contesto non siano adeguati ai loro bisogni”; art. 35:“L'infermiere presta assistenza qualunque sia la condizione clinica e fino al termine della vita all’assistito, riconoscendo l'importanza della palliazione e del conforto ambientale, fisico, psicologico, relazionale, spirituale”; art. 41:“L'infermiere collabora con i colleghi e gli altri operatori di cui riconosce e valorizza lo specifico apporto all'interno dell'équipe”; art. 44:“L'infermiere tutela il decoro personale ed il proprio nome. Salvaguarda il prestigio della professione ed esercita con onestà l’attività professionale”
© RIPRODUZIONE RISERVATA