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Martedì 08 DICEMBRE 2015
Responsabilità professionale. L’audit deve restare fuori dei procedimenti giudiziari
I percorsi di audit sono efficaci solo ed esclusivamente se chi vi partecipa è certo della impermeabilità dell'audit rispetto ai procedimenti giudiziari. Ogni possibile contaminazione tra l'indagine interna e l'indagine giudiziaria è destinata a frustrare la collaborazione del personale sanitario alla segnalazione ed al riconoscimento dell'errore e, conseguentemente, alla messa in sicurezza dei percorsi sanitari
L’applicazione dei vincoli sull’orario di lavoro derivanti dalla direttiva europea sta ponendo problemi rilevantissimi alla erogazione di molte prestazioni e mette in pericolo la stessa tenuta dei Lea. Le attività maggiormente a rischio sono quelle prestate in urgenza, per l’espletamento delle quali sono necessari turni di guardia e di reperibilità. E’ evidente che, per recuperare le risorse necessarie ad evitare le pesanti sanzioni che scaturiscono dai vincoli normativi imposti dall’UE, si stanno restringendo le aree di intervento non urgenti oggi, ma che lo diventeranno domani, non essendo state gestite appropriatamente e tempestivamente.
Tutto il contrario di ciò che il recente rapporto Oasi 2015 raccomanda con la “trasformazione della geografia dei servizi”, per assicurare ai diversi gruppi di pazienti il setting assistenziale adeguato, nel momento in cui serve, evitando qualunque sovrapposizione che si trasformi in overtreatment, undertreatment ovvero che non sia tempestiva. Come dire che, alla fine, dopo un lungo periodo nel quale il personale sanitario di questo Paese ha spesso stretto i denti per assicurare continuità di cure, chi pagherà sarà, ancora una volta, il paziente, stretto da una normativa imposta dall’Unione Europea. Il Ministro Lorenzin ha promesso l’entrata nel Ssn di 4 mila medici, per tamponare le situazioni più urgenti, da finanziare con i futuri risparmi derivanti dall’applicazione della legge sulla responsabilità professionale e sul rischio clinico. Personalmente crediamo sia difficile incamerare subito questi risparmi, ma certamente la legge sulla responsabilità professionale assume, anche sotto questo punto di vista, una importanza fondamentale.
Al di là della tutela del paziente, che non può che essere prioritaria, anche come certezza del risarcimento quando subisce un danno, non possiamo mai dimenticare che ogni euro impiegato in costi assicurativi o risarcitori o in prestazioni inappropriate a scopo difensivo è un euro sottratto all’impiego di risorse per le cure. Per questo motivo, l’aspetto più rilevante della gestione del rischio è quello preventivo, fondato su un costante e sistemico meccanismo di controllo, verifica, check list, nel quale l’audit assume il rilievo di uno degli strumenti cardine della gestione. Attraverso l’audit il sistema sanitario si verifica, auto apprende, si mette in discussione. L’audit diventa mezzo di analisi dei percorsi, momento di consapevolezza per il sanitario e per chi gestisce l’intero processo da esaminare, il ponte gettato tra quello che talora e’ irrimediabilmente sbagliato e il processo da rettificare, affinché non si sbagli mai più o, comunque, con minore probabilità: in altre parole, l’esito dell’audit costituisce la base per una immediata azione correttiva, ove ve ne sia bisogno, e necessita della massima collaborazione di chi abbia eventualmente commesso un errore.
L'art. 2 del d.d.l., recante "Disposizioni in materia di responsabilità professionale del personale sanitario", appare certamente apprezzabile sotto il profilo teleologico, giacché - inserito in un contesto normativo dichiaratamente orientato ad una più efficace e concreta tutela del diritto alla salute - mira in particolare a valorizzare il fronte della prevenzione: implementando lo studio dell'errore, si va alla ricerca di rimedi volti a scongiurare il ripetersi di episodi analoghi.
Ben vengano, dunque, i «percorsi di audit e le altre metodologie finalizzate allo studio dei processi interni e delle criticità più frequenti, con segnalazione anonima del quasi errore ed analisi delle possibili attività finalizzate alla messa in sicurezza dei percorsi sanitari».
Ciò che non convince affatto, invece, è il richiamo - peraltro del tutto inconferente - all'art. 220 disp. att. c.p.p., che il legislatore opera con riguardo ai «verbali ed agli atti conseguenti all'attività di gestione aziendale del rischio clinico». In effetti, i percorsi di audit possono risultare efficaci solo ed esclusivamente nella misura in cui chi vi partecipa - a qualunque titolo - sia del tutto certo della impermeabilità dell'audit rispetto ai procedimenti giudiziari: ogni possibile contaminazione tra l'indagine interna ed un'eventuale indagine giudiziaria è destinata a frustrare - peraltro comprensibilmente - qualsivoglia forma di collaborazione del personale sanitario alla segnalazione ed al riconoscimento dell'errore e, conseguentemente, alla messa in sicurezza dei percorsi sanitari.
Per converso, il rimando all'art. 220 disp. att. c.p.p. - oltre a risultare di difficile applicazione pratica, trattandosi di norma introdotta per regolare il contegno di quei soggetti che cumulano su di sé la duplice qualifica di polizia amministrativa e di polizia giudiziaria (almeno quest'ultima certamente non spettante agli organi deputati allo svolgimento dei percorsi di audit) - si presta ad interpretazioni mutevoli, tutte parimenti disarmanti.
Ove lo si intendesse come un limite alle attività di audit imponendone la cessazione ogniqualvolta emergano indizi di reato a carico di taluno, ci si troverebbe di fronte ad un inedito obbligo di denuncia che - ovviamente - implicherebbe forti e comprensibili resistenze da parte del personale sanitario nel collaborare alla celebrazione dell'audit: chi mai si assumerebbe il rischio di partecipare ad atti di audit capaci di trasformarsi in (auto)denuce di un errore?
Al contempo, ove lo si interpretasse come un obbligo di conformare le attività di audit alle garanzie proprie del procedimento penale (ad esempio, presenza del difensore, facoltà di non rispondere, etc.), si attribuirebbero ai responsabili delle funzioni di audit poteri che l'ordinamento riserva all'autorità giudiziaria (anche tenuto conto del grado di professionalità giuridica che essi richiedono e che non si può pretendere da chi celebra l'audit).
In ogni caso, guardando al profilo di maggiore interesse - ovvero l'auspicata impermeabilità dell'audit rispetto ad eventuali indagini giudiziarie - un dato appare certo: il richiamo all'art. 220 disp. att. cp.p. non può intendersi quale divieto di utilizzazione degli atti compiuti in occasione dell'attività di gestione aziendale del rischio clinico. E ciò per due ordini di ragioni: innanzitutto, la norma codicistica (art. 220 disp. att. c.p.p.) non contiene alcun divieto esplicito di utilizzazione, che dovrebbe dunque ricavarsi in via meramente interpretativa; in secondo luogo, ove l'obiettivo fosse quello di imporre la inutilizzabilità processuale degli atti dell'audit, tanto varrebbe realizzarlo mediante un'espressa ed inequivoca previsione normativa. In tal senso, dunque, risultava senz'altro meglio congegnato l'emendamento, poi ritirato, volto a prevedere che «tali atti non possono essere acquisiti o utilizzati in procedimenti giudiziari».
Ad oggi i procedimenti giudiziari si celebrano senza alcun apporto probatorio da parte degli audit; non è dato comprendere, dunque, perché mai ci si dovrebbe stupire se domani l'autorità giudiziaria continuasse ad attingere agli ordinari canali accertativi, con il divieto di potersi giovare di quanto dovesse emergere in sede di audit. D'altronde, secondo lo stesso d.d.l., gli audit servono a migliore i percorsi sanitari e non a moltiplicare il materiare fruibile nei procedimenti giudiziari. Ovviamente il suddetto divieto deve ritenersi esteso anche alla utilizzabilità di tali atti nell’ambito dei procedimenti disciplinari.
Carlo Bonzano
Avv. Penalista, Professore dell’Università di Tor Vergata
Tiziana Frittelli
Vicepresidente Federsanità Anci
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