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Martedì 15 MARZO 2011
Meglio disoccupato che con un cattivo lavoro
L’impatto di un “cattivo” lavoro sulla salute mentale è peggiore di quello esercitato dall’assenza di lavoro. Uno studio pubblicato su Occupational and Environmental Medicine capovolge una vecchia credenza e mette l’accento sulla qualità psicosociale del lavoro.
La precarietà del lavoro non è un bene per la salute mentale. Le paghe troppo basse? Idem. E altrettanto vale per i lavori che non offrono adeguati servizi e protezioni ai lavoratori. Sembra di sentire parlare un’agguerrita organizzazione sindacale, invece a sostenerlo è uno studio pubblicato su Occupational and Environmental Medicine (una delle riviste del gruppo Bmj) che ha passato in rassegna i dati relativi a più di 7000 lavoratori rappresentativi della popolazione attiva in Australia incrociando lo status lavorativo con diversi indicatori di salute mentale.Come ci si aspettava, dalla ricerca è emerso che globalmente il benessere mentale dei lavoratori è maggiore di quello dei disoccupati. Una conferma di una credenza che a lungo ha guidato le politiche del welfare in Europa. Ma le cose cambiavano drasticamente quando si andavano ad analizzare separatamente i diversi gruppi partecipanti allo studio. Così, il team ha rilevato che la salute mentale di quanti avevano un cattivo lavoro era uguale se non peggiore rispetto a quella dei disoccupati. Inoltre, è stato osservato che gli effetti sulla salute dei lavori poco sicuri è cumulativo: i partecipanti allo studio che erano passati da un “lavoretto” all’altro nel corso degli anni presentavano infatti risultati peggiori.
Non solo, per i disoccupati cercare lavoro non sempre è un investimento proficuo. Infatti, se il lavoro trovato è buono allora il benessere migliora, ma se è cattivo, meglio rimanersene a casa a ruotare i pollici, perché si va incontro a un peggioramento dello stato di salute.Lo studio, quindi, smonta alla base uno dei cardini su cui si è fondato il welfare negli ultimi 50 anni. Le politiche messe in atto finora “si sono basate sull’idea che qualunque lavoro sia meglio che non lavorare affatto, dal momento che il lavoro promuove il benessere sia economico sia personale”, hanno scritto gli autori. E questa idea ha portato a trascurare la qualità del lavoro a favore dell’impiego a tutti i costi. In realtà, hanno concluso gli autori, “la qualità «psicosociale» del lavoro è un fattore che deve essere considerato nell’offerta di lavoro e nelle politiche del welfare”.
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