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Lunedì 31 AGOSTO 2015
Speciale cardiologia 4. Le breaking news sull’infarto
Mentre si fanno strada i test ultraveloci per l’infarto, che utilizzano la troponina I ad elevata sensibilità e si affinano le metodiche diagnostiche per prevedere quali pazienti con infarto NSTEMI andranno incontro nel tempo a scompenso cardiaco, restano al palo di tentativi di aggiungere qualcosa sul fronte del trattamento dell’infarto: antialdosteronici, ciclosporina e pacing peri-infartuale non migliorano la prognosi.
Studio BACC (Biomarkers in Acute Cardiovascular Care). Si chiama troponina I ad alta sensibilità (hs-TnI) e promette di rivoluzionare la diagnosi dell’infarto NSTEMI nei pronto soccorso di tutto il mondo. Il vantaggio, rispetto ai test attuali, è quello di accorciare i tempi di diagnosi ad un’ora, rispetto alle tre attuali. Un vantaggio per il paziente, che può accedere al trattamento in tempi più rapidi, ma anche per le sale d’attesa dei pronto soccorso, sempre congestionate all’inverosimile.
“In questi pazienti con dolore toracico suggestivo per infarto, sempre più numerosi – afferma Dirk Westermann, University Heart Centre Hamburg eGerman Center for Cardiovascular Research - c’è un’urgenza pressante di addivenire il più presto possibile ad una decisione, ovvero se ricoverarli o dimetterli dal pronto soccorso. Utilizzare questo algoritmo nei pazienti con sospetto infarto per una diagnosi ‘dentro’ o ‘fuori’ molto accurata, consente di dimettere rapidamente, cioè nell’arco di un’ora, queli nei quali è stato escluso l’infarto o di ricoverare quelli nei quali viene confermata questa condizione. Il tutto senza sacrificare l’accuratezza diagnostica”.
Le linee guida attuali raccomandano il dosaggio della troponina I (biomarcatore di miocardio-necrosi) all’arrivo in pronto soccorso e dopo tre ore. Inoltre i livelli di troponina I attualmente considerati patologici sono quelli al di sopra del 99° percentile in una popolazione di persone in buona salute di riferimento, cioè 27 ng/L. I nuovi test di troponina I ad elevata sensibilità possono rivelare alterazioni più fini di questo biomarcatore, importanti per valutare il rischio cardiovascolare .
Lo studio BACC ha arruolato 1.045 pazienti (età media 65 anni) con dolore toracico sospetto per infarto, e per questo recatisi al pronto soccorso dell’ospedale di Eppendorf in Germania. Tutti sono stati sottoposti al test tradizionale a tre ore e a quello innovativo con l’hs-TnI a 1 ora.
Con il test standard sono stati individuati 184 casi di infarto, ricoverati in ospedale e poi rivalutati in follow up a distanza di 6 mesi.
Confrontando i risultati di entrambi i test, i ricercatori hanno calcolato che il miglior cut-off da utilizzare al fine di escludere un infarto sia una troponina I < 6 ng/L, decisamente inferiore rispetto all’attuale standard di < 27 ng/L.
A questo punto i ricercatori sono andati a testare la rilevanza clinica del nuovo valore di cut-off utilizzando i dati dello studio BiomarCaRE, su oltre 75 mila individui nella popolazione generale. Questi dati hanno confermato che un soggetto della popolazione generale con valori di troponina I superiori a 6 ng/L è ad aumentato rischio di morte o di malattia cardiovascolare, mentre i soggetti con valori inferiori a 6 ng/L possono essere tranquillamente dimessi dal pronto soccorso in quanto non a rischio.
“Questo dimostra – prosegue Westermann – che anche modesti aumenti della TnI sono importanti predittori di malattia cardiovascolare. Allo stesso tempo, utilizzare valori di cut-off molto bassi, consente di poter dimettere in tutta sicurezza i pazienti a bassissimo rischio di eventi cardiovascolari”.
Infine, i ricercatori tedeschi hanno applicato i nuovi cut-off alla coorte dello studio BACC, evidenziando che la mortalità sarebbe stata inferiore se i pazienti fossero stati valutati secondo l’approccio a 1 ora, che non con quello standard a 3 ore. “Questo perché l’approccio standard sottovaluta il rischio in molti pazienti e dunque porta ad un aumento di mortalità. Inoltre, utilizzando il test dell’hs-TnI rapido si sarebbe ridotta la permanenza dei pazienti in pronto soccorso, consentendo a quelli che ne hanno realmente bisogno di accedere prima al trattamento.”
L’algoritmo ha un valore predittivo negativo del 99,7% a un’ora e del 100% a 3 ore. “Utilizzando un cut-off più sensibile, rispetto a quello attualmente suggerito dalle linee guida, si può migliorare la sicurezza dei pazienti dimessi dal pronto soccorso”. Il nuovo algoritmo è stato successivamente validato anche su due coorti indipendenti di pazienti, l’APACE e l’ADAPT, per un totale di 4.009 soggetti con dolore toracico suggestivo per infarto.
Rimane tuttavia ancora una zona grigia, non sufficientemente indagata da nessuno dei due algoritmi: quella dei pazienti con valori di troponina persistentemente elevata, ma in maniera stabile.
Studio DOPPLER-CIP (Determining Optimal non-invasive Parameters for the Prediction of Left vEntricular morhologic and functional Remodeling in Chronic Ischemic Patients). Nei pazienti con cardiopatia ischemica cronica, un ventricolo sinistro piccolo con pareti ispessite, è il più importante predittore di remodeling morfologico, considerato in genere il primo passo verso lo scompenso cardiaco. Un risultato questo inaspettato, rivelato da uno studio presentato al congresso dell’ESC.
“Questi risultati – sottolineano i coordinatori dello studio, Frank Rademakers e Jan D’Hooge, Università di Lovanio (Belgio) – se confermati anche da altri studi potrebbero rivoluzionare la stratificazione del rischio dei pazienti con cardiopatia ischemica stabile. Fino ad oggi si riteneva che un ventricolo dilatato a pareti sottili (il tipico ventricolo da ‘infarto’) fosse quello a maggior rischio di remodeling perché sottoposto ad un maggior stress di parete. Il nostro studio dimostra invece che sono i ventricoli piccoli a pareti ispessite, quelli a maggior rischio”.
Al momento non esistono linee guida sulla valutazione del rischio per questa categoria di pazienti.
Lo studio DOPPLER-CIP ha messo a confronto diverse tecniche diimaging per individuare quella più utile nel prevedere il rischio di remodeling cardiaco a due anni. Sono stati arruolati 676 pazienti con sospetta cardiopatia ischemica, presso 6 centri europei. Tutti sono stati sottoposti a test di routine (ECG, test ergometrico, misurazione dell’uptake massimale di ossigeno (VO2 max), esami di laboratorio) e in aggiunta a due stress test di imaging quali ecocardiogramma, risonanza magnetica, SPECT (single positron emission computed tomography), eco-stress ed RMN-stress.
Al termine del periodo dello studio, il 20% circa dei soggetti ha presentato remodeling cardiaco secondo i risultati della RMN e dell’ecocardiogramma. Il valore di base, risultato il miglior predittore del futuro remodeling è stato il volume tele-diastolico del ventricolo sinistro (LV-EDV) e la massa ventricolare sinistra (LVM). Più in particolare, i soggetti con un piccolo LV-EDV (< 145 ml) alla valutazione basale, presentavano un rischio del 25-40% superiore di remodeling, rispetto a quelli con alto EDV, che invece mostravano una riduzione del rischio del 20%. Il rischio aumenta anche in rapporto alla presenza di un ispessimento della parete ventricolare.
“Le misure di LV-EDV e LVM basali, misure facilmente rilevabili con le metodiche di imaging di routine commentano gli autori – sono i migliori predittori di remodeling futuro e dunque del rischio di scompenso cardiaco; questi risultati potranno dunque evitare ai medici di imbarcarsi in test costosi per la valutazione del rischio”.
Studio ALBATROSS. I pazienti con infarto miocardico, ma senza evidenza di scompenso cardiaco, non traggono alcun beneficio dalla terapia con antagonisti dei mineralcorticoidi in aggiunta alla terapia standard. Dallo studio emerge tuttavia una dubbia riduzione di mortalità nei pazienti con infarto NSTEMI, associata alla terapia anti-aldosteronica, che andrà tuttavia confermata da ulteriori studi.
“Per il momento – afferma uno degli autori dello studio, il professor Gilles Montalescot, Istituto di Cardiologia, Centre Hospitalier Universitaire Pitié-Salpêtrière, Parigi – possiamo solo dire che non c’è bisogno di utilizzare questa terapia nei pazienti infartuati ma senza scompenso cardiaco”.
Studio CIRCUS.La ciclosporina, un farmaco immunosoppressivo, somministrata a pazienti sottoposti ad angioplastica percutanea (PCI) per infarto miocardico STEMI, non migliora gli esiti clinici, rispetto al placebo. Lo stabiliscono i risultati dello studio CIRCUS, pubblicato online dal New England Journal of Medicine, in contemporanea alla sua presentazione al congresso della Società Europea di Cardiologia. “Siamo rimasti molto sorpresi e delusi da questi risultati – ha commentato il primo autore dello studio, Michel Ovize, dell’Università ‘Claude Bernard’ di Lione (Francia) – visto che ci sono varie evidenze sperimentali che dimostrano come la ciclosporina sia in grado di ridurre l’estensione dell’area infartuata e migliorare la funzionalità cardiaca.
Uno studio di fase II da noi pubblicato nel 2008 aveva suggerito che la ciclosporina potesse ridurre l’area infartuata nei pazienti STEMI, ma questo trial di fase III non ha confermato questi risultati preliminari”.
Nel CIRCUS, i pazienti con STEMI anteriore, arruolati nello studio, sono stati sottoposti ad angioplastica entro 12 ore dall’inizio del sintomi. I pazienti sono stati randomizzati al trattamento con un bolo endovenoso di ciclosporina (2,5 mg/Kg) o placebo, prima della rivascolarizzazione coronarica. Non è stata osservata alcuna differenza nell’endpoint primario (un composito di mortalità per tutte le cause, peggioramento dello scompenso cardiaco nel periodo iniziale di ricovero, nuovo ricovero per scompenso cardiaco o remodeling ventricolare sfavorevole ad un anno) tra i due gruppi.
Studio PRoMT. Nei pazienti con un grande infarto miocardico, il pacing ventricolare sinistro con un elettrodo posizionato nell’area peri-infartuale non previene un’ulteriore dilatazione del cuore (remodeling) e non migliora gli outcome funzionali o clinici a 18 mesi. Lo stabiliscono i risultati dello studio Pacing Remodeling Prevention Therapy(PRomPT). Nei pazienti con grandi infarti, terapia medica e rapido ripristino del flusso sanguigno all’area colpita non sempre sono sufficienti a prevenire il remodeling cardiaco. Questo si può verificare ad esempio come risposta di quest’area indebolita del cuore, ad una ridistribuzione dello stress e del carico di lavoro causati dall’infarto. L’intento di questo studio era dunque di verificare se il pacing (mediante elettrodo posizionato sull’area peri-infartuale) del ventricolo sinistro, che coordina le contrazioni del cuore e riduce il carico di lavoro nell’area danneggiata, potesse prevenire il remodeling post-infarto. La risposta al quesito, fornita dai risultati dello studio PRomPT è stata: no.
“I risultati di questo studio – ha commentato il primo autore, Gregg. W. Stone del New York-Presbyterian Hospital/Columbia University Medical Center and Cardiovascular Research Foundation di New York – sono sufficientemente neutri, da poter evitare di imbarcarsi in future ricerche, volte a esplorare la strategia del pacing ventricolare sinistro peri-infartuale, nel tentativo di migliorare la prognosi dei pazienti con grandi infarti.”
Maria Rita Montebelli
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